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lunedì 19 maggio 2014

I fatti di Orfila (III), di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juvetud Rebelde del 18/5/14

Il giorno in cui lo avrebbero ucciso, - 15 settembre del 1947 -, Emilio Tro Rivero fece colazione in compagnia della madre nell’umile casa che condividevano al numero 409 della calle San Rafael, in Centro Avana. Qualche ora dopo, già verso le 12, si comunicava telefonicamente con l’anziana per dirle di non aspettarlo a pranzo. Era invitato a farlo nella residenza di Antonio Morín Dopico, sospeso da vari mesi dalle sue funzioni di capo della Polizia di Marianao a causa di uno scandalo di cui fu protagonista a Guanabacoa. Lo accompagnavano Luís Padierne, Arcadio Méndez, e Alberto Díaz González, tutti membri dell’Unione Insurrezionale Rivoluzionaria (UIR).
Lo scriba non può precisare se a questo punto, Tro sapesse del mandato di cattura per la morte del capitano Rafael (Porcellino) Ávila che pesava su di lui e che era stato affidato al comandante Mario Salabarría Aguiar. La sentinella che era fissa al domicilio di Morín dichiarò che verso le tre del pomeriggio, Tro e due dei suoi compagni si trovavano seduti nel portico della casa con fare pacifico e spensierato, quando li vide alzarsi precipitosamente e trasferirsi all’interno dell’abitazione.
Fu allora che si accorse che da due automobili scendevano uomini armati con mitragliatrici e che prendevano posizione nella via per iniziare immediatamente a sparare verso la casa, aggressione che ebbe risposta dall’interno dell’immobile, sito in calle 8 e D, del quartiere Benítez, una zona conosciuta come Orfila per una farmacia omonima che esisteva in luogo. L’aggressione – precisò il vigilante – partì dai nuovi arrivati: affermazione che confermò la domestica di Morín Dopico. Fra gli aggressori figuravano: Orlando León Lemus (Il Rosso), Rogelio Hernández Vega (Cucú), secondo capo della Polizia Segreta, José Fallat o Fayat (Il Turchetto), il tenente Roberto Pérez Dulzaides, il comandante Roberto Meoqui Lezama e molti altri fino a raggiungere una truppa di 200 uomini, tutti vicini a Salabarría, ma non tutti appartenenti al Servizio di Investigazioni Speciali e Straordinarie, il reparto poliziesco che questi dirigeva. Ciò, a giudizio dell’investigatore Humberto Vázquez García, “indicava chiaramente il carattere gangsteristico dell’operazione” che fu trasmessa in diretta da Radio Reloj (orologio, n.d.t.), registrata integralmente dall’annunciatore Germán Pinelli (divenuto poi popolarissimo attore brillante, di origine italiana, n.d.t.) – che poi la trasmise nel suo programma Reporter Canda Dry, della CMQ – e filmata da Guayo del Notiziario Nazionale del Cine.

“Il Presidente è malato”

Gli uomini di Salabarría sottomisero la casa a un vero sbarramento di fuoco con armi leggere e ricorsero in qualche caso ai gas lacrimogeni. Gli assediati risposero al fuoco con vigore. La battaglia lascerà un saldo di sei morti e otto feriti. La prima vittima fu l’ufficiale Mariano Puerta Yergo dell’11ma Stazione di Polizia. Informato dei fatti del quartiere Benitez, prese un’automobile assieme ad altre due guardie, con l’intenzione di combattere assieme al suo amico Tro. Non giunse a destinazione. Una raffica di mitragliatrice lo fulminò mentre cercava di raggiungere la casa assediata.
Quando la sanguinosa battaglia era al suo culmine, Tro riuscì a comuncare telefonicamente col tenente Armando Correa gli chiese di recarsi al campo militare Columbia per richiedere l’intervento dell’Esercito, i suoi amici temevano che cadendo in mano di Salabarría sarebbero stati giustiziati. Correa svolse l’incombenza e assieme ad altri membri della UIR si presentò alla sede dello Stato Maggiore delle Forze Armate. Il generale Ruperto Cabrera, che lo ricevette, dispose il fermo dei visitatori al fine di evitare – disse – la loro partecipazione nella battaglia.
Intanto, si stavano facendo altre gestioni a favore degli assediati. Membri della UIR ed elementi vincolati a Tro si recarono al Palazzo Presidenziale. Non poterono vedere Grau. Riuscirono, però, ad avere un colloquio con Paulina Alsina, la prima dama della Repubblica che gli assicurò di aver ottenuto dal Presidente l’autorizzazione perché intervenisse l’Esercito negli scontri. I rettori del Senato e della Camera, il Ministro degli Interni, il Capo della Polizia, il Vice Ministro della Difesa, parlamentari..., tutti coloro che visitarono il Palazzo al fine di conoscere l’opinione del Presidente su quella sparatoria o, almeno, indovinarla nel suo linguaggio metaforico o leggerla nella scintilla maliziosa dei suoi occhi, ricevettero la stessa risposta: “Il Presidente è malato e non li può ricevere”.
Si è speculato su questa attitudine di Grau. Molti anni dopo, Salabarría rivelerà un dettaglio sconosciuto che nel suo momento fu quasi un segreto di Stato. Il Presidente soffriva di epilessia e ogni attacco gli causava perdita di memoria. Mentre avveniva il fatto di Orfila era in una delle sue crisi, cosa che impedì di dargli informazione dei fatti. Qualcuno avvisò il generale Genovevo Pérez, Capo dell’Esercito in visita a Washington, di quello che succedeva e l’obeso e vitaminizzato militare dispose, da la, l’uso di mezzi blindati per porre fine al massacro.

Tre ore dopo

Erano passate tre ore dall’inizio del combattimento, quando dalle finestre della casa si fecero vedere bandiere bianche e grida di “Non sparate! Non sparate! Escono donne e bambini!”. La gente di Salabarría rispose con violenti epiteti, ma Tro e i suoi compagni insistettero finché si raggiunse l’uscita che coincise con l’arrivo delle truppe dell’Esercito con carri armati, mezzi blindati e armi per affrontare una battaglia di notevole livello. Al fronte dei militari giunsero il generale Gregorio Querejeta, il colonnello Oscar Díaz e il tenente colonnello Lázaro Lendeira, capo dei carristi.
Il primo a uscire dalla casa fu Morín Dopico, che portava tra le braccia, ferita gravemente, sua figlia Miriam di appena dieci mesi di vita. L’Esercito lo condusse all’Ospedale Militare in qualità di detenuto. Poi uscì Aurora Soler de Morín, in stato di gravidanza e dietro, Emilio Tro. Tutto sembrava essere finito quando si udì di nuovo il crepitìo di una mitragliatrice e la moglie di Morín cadde al suolo colpita a morte. Un poliziotto la prese per le braccia per farla alzare e Tro cercò di alzarla dalle caviglie con il proposito di toglierla dalla strada. Non si poté concludere l’operazione perché appena giunti al marciapiede si udì un’altra raffica e Tro crollò crivellato di colpi. Aveva 15 perforazioni nel torace, due nella regione scapolare, sei a fior di pelle, tre in un a spalla, una nella coscia e un’altra in faccia che distrusse il mascellare superiore e gli svuotò l’occhio destro.
Le immagini cinematografiche riprese da Guayo per il Notiziario Nazionale misero in evidenza o corroborarono la colpevolezza di alcuni degli uomini di Salabarría nei fatti. Nel documentario si apprezza come Il Turchetto spara alla signora Soler ed a Emilio Tro, di passo ferisce l’autista di questi, il capitano De la Osa, aiutante del Capo della Polizia e fulmina il tenente Padierne, uno degli uomini di Tro. Un’altra scena riprende Pérez Dulzaides, tenente della Polizia Nazionale azionando la sua mitragliatrice contro gli arresi, in particolare Tro quando, in ginocchio, cercava di alzare il corpo agonizzante della moglie di Morín Dopico. Dulzaides venne interrogato a Columbia con tanta violenza che perse conoscenza in due occasioni. Il cadavere del capitano Arcadio Méndez apparve nella sala della casa, appena cominciarono a dissiparsi i gas lacrimogeni lanciati all’interno dell’abitazione.
Il fatto, esecrabile, di sparare contro persone già arrese, provocò una grave rissa tra gli assedianti dal momento che molti di loro discrepavano dai loro compagni per aver attuato in questo modo. In ogni modo l’Esrecito impedì che proseguisse il massacro, pretese la consegna immediata delle armi e Landeira procedette alla detenzione di Salabarría e di non pochi agenti ai suoi ordini. Immediatamente, il plenario del Tribunale Superiore della Giurisdizione di Guerra e Marina stabilì la causa 95 del 1947 dello Stato Maggiore Generale dell’Esercito contro Mario Salabarría Aguiar, Antonio Morín Dopico e numerosi ufficiali, per il delitto di omicidio, disordine pubblico, attentato e danni alla proprietà. Anche un buon numero di civili rimase a disposizione dei tribunali ordinari. Cucú Hernández Vega, secondo capo della Polizia Segreta, si presentò volontariamente davanti al colonnello Oscar Díaz, ufficiale investigatore della causa, ma si dovette ordinare l’arresto del comandante Meoqui Lezama per non comparire alla chiamata di una citazione giudiziaria. Orlando León Lemus, Il Rosso, scomparve. Nella foga di trovarlo l’Esercito occupò, senza successo, l’hotel Sevilla dove si supponeva si nascondesse e poi la Guardia Rurale lo cercò all’interno dell’Isola. Si saprà successivamente che rimase nascosto nella casa del senatore Paco Prío fino alla sua partenza clandestina per il Messico.
Il 16 settembre, 24 ore dopo la tragedia, circa 3000 persone seguirono fino al cimitero di Colón il corteo funebre delle vittime. Attorno alle otto di sera, alla luce dei fari delle automobili, ebbe fine la sepoltura. Per garantire l’ordine, forze dell’Esercito si disposero lungo il percorso e circondarono il cimitero.
Prima, nella notte dello stesso 15, nel discendere da un autobus nella calle San Lázaro, era ultimato a colpi d’arma da fuoco Raúl Adán Daurry, agente del Servizio di Investigazioni Speciali e Straordinarie che dirigeva Mario Salabarría. La vendetta per i fatti di Orfila era cominciata. (Continua)



Los sucesos de Orfila (III)

Ciro Bianchi Ross

El día en que lo iban a matar --15 de septiembre de 1947--, Emilio Tro Rivero desayunó en compañía de su madre en la humilde habitación que compartían en la casa de vecindad marcada con el número 409 de la calle San Rafael, en Centro Habana. Horas después, ya sobre las 12, se comunicaba por teléfono con la anciana para decirle que no lo esperara a almorzar. Estaba invitado a hacerlo en la residencia de Antonio Morín Dopico, suspendido desde meses antes en sus funciones de jefe de la Policía de Marianao, a causa de un escándalo que protagonizó en Guanabacoa. Lo acompañarían Luis Padierne, Arcadio Méndez y Alberto Díaz González, todos miembros de la Unión Insurreccional Revolucionaria (UIR).
No precisa el escribidor si a esa altura Tro conocía de la orden de detención que por la muerte del capitán Rafael (Lechoncito) Ávila pesaba sobre él y que había sido confiada al comandante Mario Salabarría Aguiar. El vigilante que estaba de posta fija en el domicilio de Morín declararía que sobre las tres de la tarde, Tro y dos de sus compañeros se hallaban sentados en el portal de la casa en actitud pacífica y desprevenida, cuando los vio ponerse de pie de manera precipitada, trasladarse al interior de la vivienda y cerrar la puerta principal.
Fue entonces que advirtió que de dos automóviles descendían hombres armados con ametralladoras que se posesionaban en la calle para de inmediato comenzar a tirotear la casa, agresión que fue ripostada desde el interior del inmueble, sito en calle 8 y D, reparto Benítez, una zona conocida como Orfila por una farmacia existente en la zona.
La agresión --puntualizó el vigilante-- partió de los recién llegados; aseveración que ratificó la sirvienta de Morín Dopico. Entre los agresores figuraban Orlando León Lemus (El Colorado); Rogelio Hernández Vega (Cucú), segundo jefe de la Policía Secreta; José Fallat o Fayat (El Turquito); el teniente Roberto Pérez Dulzaides; el comandante Roberto Meoqui Lezama y muchos más hasta completar una tropa de unos 200 hombres, todos allegados a Salabarría, pero no todos pertenecientes al Servicio de Investigaciones Especiales y Extraordinarias, la dependencia policial que aquel dirigía. Esto, a juicio del investigador Humberto Vázquez García, <>, que fue reportada en directo por Radio Reloj, grabada íntegramente por el locutor Germán Pinelli --quien luego la transmitió en su programa Repórter Canada Dry, de la CMQ-- y filmada por Guayo, del Noticiero Nacional de Cine.

"El presidente está enfermo"

Los hombres de Salabarría sometieron la casa a un verdadero barraje con armas ligeras y recurrieron en determinado momento a los gases lacrimógenos. Los sitiados respondieron al fuego con vigor. La batalla dejaría un saldo de seis muertos y ocho heridos. La primera víctima fue el oficial Mariano Puerta Yergo, de la 11na. Estación de Policía.
Enterado de los sucesos del reparto Benítez tomó un automóvil, junto con otros dos vigilantes, con la intención de luchar junto a su amigo Tro. No llegó a su destino. Lo fulminó una ráfaga de ametralladora cuando trataba de ganar la casa sitiada.
Cuando la sangrienta pelea se hallaba en su clímax, Tro logró comunicarse por teléfono con el teniente Armando Correa. Le pidió que se dirigiera al campamento militar de Columbia y gestionara la intervención del Ejército, pues él y sus amigos temían ser ejecutados de caer en manos de Salabarría. Correa cumplió el encargo y en compañía de otros miembros de la UIR se personó en la sede del Estado Mayor de las Fuerzas Armadas. El general Ruperto Cabrera, que los recibió, dispuso la retención de los visitantes a fin de evitar
--aseveró-- su participación en la refriega.
Mientras tanto, otras gestiones se hacían en favor de los sitiados.
Miembros de la UIR y elementos vinculados a Tro acudieron al Palacio Presidencial. No pudieron ver a Grau. Lograron, sí, entrevistarse con Paulina Alsina, primera dama de la República, que les aseguró haber obtenido del Presidente la autorización para que el Ejército interviniera en el altercado. Los rectores del Senado y la Cámara, el Ministro de Gobernación (Interior), el Jefe de la Policía, el Viceministro de Defensa, parlamentarios..., todos los que visitaron Palacio a fin de conocer la opinión del mandatario sobre aquella balacera o, al menos, adivinarla en su lenguaje epigramático o leerla en la chispa maliciosa de sus ojos, recibieron la misma respuesta: <>.
Se ha especulado sobre esa actitud de Grau. Muchos años después Salabarría revelaría un detalle desconocido y que en su momento fue casi secreto de Estado. El mandatario sufría de epilepsia, y cada ataque le provocaba pérdida de memoria. Mientras transcurría lo de Orfila, estaba en una de sus crisis, lo que impidió que se le diera noticia de los sucesos. Alguien avisó al general Genovevo Pérez, jefe del Ejército, de visita en Washington, de lo que sucedía, y el obeso y bien vitaminado militar dispuso desde allá el empleo de los blindados para poner fin a la matanza.

Tres horas después

Habían transcurrido tres horas desde el inicio del combate, cuando por las ventanas de la casa se dejaron ver trapos blancos y gritos de <<¡No tiren! ¡No tiren! ¡Van a salir niños y mujeres!>>. La gente de Salabarría respondió con epítetos violentos. Pero Tro y sus compañeros insistieron hasta que al fin se efectuó la salida, lo que coincidió con la llegada de tropas del Ejército equipadas con tanques, camiones blindados y armas como para una batalla de gran envergadura. Al frente de los militares llegaban el general Gregorio Querejeta, el coronel Oscar Díaz y el teniente coronel Lázaro Landeira, jefe de los tanques.
El primero en salir de la casa fue Morín Dopico, quien llevaba en brazos, herida a sedal, a su hija Miriam, de apenas diez meses de nacida. El Ejército lo conduciría al Hospital Militar en calidad de detenido. Luego salió Aurora Soler de Morín, en estado de gestación, y detrás Emilio Tro. Todo parecía haber terminado cuando se escuchó de nuevo el tableteo de una ametralladora, y la esposa de Morín cayó al suelo herida de muerte. Un policía la tomó por los brazos para levantarla, y Tro trató de alzarla por los tobillos con el propósito de sacarla a la calle. No pudo concluirse la gestión, porque apenas llegados a la acera se escuchó una ráfaga más y Tro se desplomó cosido a balazos. Tenía 15 perforaciones en el tórax, dos en la región escapular, seis a flor de piel, tres en el hombro, una en el muslo y otra más en la cara que le destrozó el maxilar superior y le vació el ojo derecho.
Las imágenes cinematográficas captadas por Guayo para el Noticiero Nacional pusieron en evidencia o corroboraron la culpabilidad de algunos de los hombres de Salabarría en los sucesos. En el documental se aprecia cómo El Turquito dispara sobre la señora Soler y Emilio Tro, hiere de pasada al chofer de este y al capitán De la Osa, ayudante del Jefe de la Policía, y fulmina al teniente Padierne, uno de los hombres de Tro. Otra escena capta a Pérez Dulzaides, teniente de la Policía Nacional, encañonando con su ametralladora a los rendidos, en especial a Tro cuando, de rodillas, trataba de levantar el cuerpo agonizante de la esposa de Morín Dopico. Dulzaides fue entrevistado en Columbia con tanta violencia que perdió el conocimiento en dos ocasiones. El cadáver del capitán Arcadio Méndez apareció en la sala de la casa, apenas empezaron a disiparse los gases lacrimógenos lanzados al interior de la vivienda.
El hecho execrable de disparar contra personas ya rendidas provocó una grave riña entre los sitiadores, ya que muchos de ellos increparon a sus compañeros por haber actuado de esa forma. De cualquier manera, el Ejército impidió que prosiguiera la matanza, exigió la entrega inmediata de las armas, y Landeira procedió a la detención de Salabarría y de no pocos agentes a sus órdenes. De inmediato el pleno del Tribunal Superior de la Jurisdicción de Guerra y Marina radicó la causa 95 de 1947 del Estado Mayor General del Ejército contra Mario Salabarría Aguiar, Antonio Morín Dopico y numerosos oficiales, por los delitos de homicidio, desorden público, atentado y daños a la propiedad. También un buen número de civiles quedaba a disposición de los tribunales ordinarios. Cucú Hernández Vega, segundo jefe de la Policía Secreta, se personó voluntariamente ante el coronel Oscar Díaz, oficial investigador de la causa, pero hubo que ordenar el arresto del comandante Meoqui Lezama por no comparecer al llamado de una citación judicial. Orlando León Lemus, El Colorado, se esfumó. En su afán de encontrarlo, el Ejército ocupó, sin éxito, el hotel Sevilla, donde se le suponía escondido, y luego la Guardia Rural lo buscó por el interior de la Isla. Se sabría después que permaneció oculto en la casa del senador Paco Prío hasta su salida clandestina hacia México.
El 16 de septiembre, 24 horas después de la tragedia, unas 3 000 personas siguieron hasta la necrópolis de Colón el cortejo fúnebre de las víctimas. Sobre las ocho de la noche, a la luz de los faros de los automóviles, terminó el sepelio. Para garantizar el orden, fuerzas del Ejército se situaron a lo largo del trayecto y rodearon el cementerio.
Antes, en la noche del propio lunes 15, al descender de un ómnibus en la calle San Lázaro, era ultimado a balazos Raúl Adán Daumy, agente del Servicio de Investigaciones Especiales y Extraordinarias que dirigía Mario Salabarría. La venganza por los sucesos de Orfila había comenzado. (Continuará)

Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
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