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Dizionario del mare per lupi di terra
BANCHINA: usata nei barchi e ciardini, specialmente dai bensionati
giovedì 28 aprile 2016
mercoledì 27 aprile 2016
domenica 24 aprile 2016
Un vice presidente degli U.S.A. ha giurato a Limonar, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 24/4/16
Il
senatore James Buchanan che con l’andare del tempo (1857) risulterà eletto
presidente degli Stati Uniti, scriveva alla sua amica Cornelia Roosvelt, in
occasione dell’assenza del suo amico, il pure senatore e più tardi vice
presidente della nazione, William Rufus King, ciò che segue: “Adesso sono solo,
solitario, perché non ho compagnia in casa con me. Ho corteggiato diversi
cavalieri, ma non ho avuto successo con nessuno di loro. Sento che per un uomo
non è belloe essere solo e non mi stupirei di trovarmi sposato, un gioeno, con
una zitellona che mi curi quando sono malato, mi faccia dei buoni cibi quando
sto bene e che non si aspetti da me nessuna affetto ardente e romantico”.
Gli
storici nordamericani consumarono molte pagine nell’analisi della relazione fra
questi due ambiziosi uomini politici che nel 1844 decisero di candidarsi come
presidente e vice presidente del Paese, cosa che gli impedì il Partito
Democratico, al quale appartenevano entrambi. Anche se alcuni esperti dicevano
che non c’era niente di strano, all’epoca che due uomini condividessero lo
stesso letto e che i termini affettivi che potevano usare nella corrispondenza
trasmessa tra di loro, non significava nessun indizio romantico e catalogarono
Buchanan e Rufus come “asessuati e scapoloni”, l’amicizia tra i due suscitò la curiosità dei loro compagni al
Congresso che finirono per definirli “ la signorina Nancy” e la “zia Nancy”,
eufemismi usati allora per indicare che un uomo era effemminato. A Buchanan e
Rufus che vennero a sapere di questi commenti, non importò mai molto e
continuarono la loro vita in comune e il loro lavoro di legislatori. Dal 1834
fino a che Rufus fu nominato ambasciatore in Francia – separazione che motivò
la lettera di Buchanan a Cornelia – condiviso lo stesso tetto a Washington e
assistevano assieme agli atti in Campidoglio e agli eventi sociali.
Un
legislatore diceva che Rufus era la “mezza mela” di Buchanan e un altro si
riferiva a loro come ai “gemelli siamesi”, ebbene, stavano sempre assieme.
Rufus diceva che questa amicizia era una “comunione”.
Buchanan
ebbe una fidanzata con cui ruppe prima di arrivare al matrimonio interessato,
sopratutto com’era, alla dote della ragazza. A Rufus non si conobbe nessuna
relazione con donne. Alla morte di entrambi – Rufus morì nel 1853 e Buchanan
nel 1868 – le rispettive famiglie distrussero la corrispondenza fra di loro. Le lettere che
si salvarono, senza dubbio lasciarono molti argomenti interessanti.
Il vice che non fu
Non è
interesse dello scriba e lo esprime, a qualsiasi intimità, come usava dire
un noto avvocato, prima del 1959 mentre si appoggiava con entrambe le mani al
suo bastone, abbondare nell’orientamento sessuale di William Rufus King. Vuole,
sì, sottolineare un fatto inedito nella storia degli Stati Uniti. Rufus,
tredicesimo vice presidente di questo Paese – con Franklin Pierce come
presidente -, giurò per il suo alto incarico nella casa di abitazione dello
zuccherificio Adriadna, a Limonar in provincia di Matanzas. Si avvicinava la
date del giuramento e collaboratori e amici si convinsero che il soggetto che
cercava di recuperarsi a Cuba, non sarebbe arrivato a Washington. Stava tanto
male di salute che per la cerimonia si dovette mantenerlo in piedi sostenendolo
per le due braccia.
Pass diversi giorni in più nella zona e giunse a casa sua il 17 aprile del 1853.
Morì il giorno dopo, nella sua fattoria nella contea di Dallas, in Alabama. Si
mantenne in carica solo un mese. Non poté disimpegnare nessun incarico inerente
alla sua alta investitura.
Fu lo
storico matanzero Raúl Ruíz già deceduto, a portare alla luce, anni fa, questa
storia dimenticata, pagine che compilò in un libro quasi introvabile, Aguas de la ciudad.,
Alla
fine della decade del 1940 o all’inizio del 1950, la Alabama Historial Society,
volle perpetuare il fatto con la collocazione di una targa in una delle colonne
vicine all’entrata principale del Palazzo Municipale matanzero: targa non
conosciuta dallo scriba.
Nonostante
i suoi compagni di emiciclo si burlavano
di un uomo melenso e stravagante che usava coprirsi con parrucche impolverate
che ai suoi tempi erano già fuori moda Rufus fu, si dice, un legislatore capace
e un oratore impressionante. Alla sua morte, Buchanan lo definì “tra i
migliori, più puri e più consistenti uomini pubblici che abbia conosciuto”, ma
l’apprezzamento veniva da molto vicino.
In ogni
modo la sua carriera politica fu folgorante. Discendente di irlandesi e di
ugonotti francesi, William Rufus King nacque nella contea di Sampson, Carolina
del Nord, il 7 aprile 1786. La sua era una famiglia grande, benestante e con
molti buoni contatti. Fece gli studi universitari e nel 1806 fu eletto deputato
alla rappresentanza del suo Stato di nascita. Disimpegnò in tre
occasioni l’atto di Rappresentante alla Camera a Washington e partecipò come
delegato alla convenzione organizzata dal Governo dello Stato dell’Alabama. Nel
1819, nel riconoscere questo territorio come il ventiduesimo Stato dell’Unione,
fu eletto al Senato, camera dove giunse a presiedere la commissione per le
Relazioni Esterne.
Alla
morte del presidente Zachary Taylor, il vice Millar Filmore occupò la prima
magistratura, per cui la vice presidenza rimase vacante. William Rufus King,
già vice presidente del Senato, fu posto, come previsto dalla Costituzione, nella
prima linea di successione presidenziale.
I suoi
contemporanei lo consideravano moderato in temi come la schiavitù, separazione
tra il nord e il sud ed espansione verso l’Ovest. Siccome lui e la sua famiglia
erano proprietari di grandi piantagioni di cotone e di circa 500 schiavi, si
dice che era un difensore della schiavitù.
Il suo
maggior successo fu l’elezione, per il Partito Democratico, alla vice
presidenza degli Stati Uniti.
Un uomo ammalato
In quel
momento era già un uomo molto ammalato. Minato dalla tubercolosi, i medici gli
raccomandarono di andare a Cuba in cerca di un possibile ristabilimento della
salute. Fece il viaggio subito dopo la sua elezione.
All’inizio
del suo soggiorno nell’Isola, alloggiò nella residenza di William Scott Jencks
Updicke, proprietario di uno zuccherificio e suo amico personale. Una magnifica
magione di due piani ubicata a la Cumbre, attuale reparto Versalles, vicino
alla baia matanzera. Era una zona raccomandata dai medici e lì Rufus rimase,
dice l’investigatore Raúl Ruíz, per un periodo di due settimane, fino a che le
moleste perturbazioni del nord con pioggia e freddo, raccomandarono il suo
trasferimento in altro luogo.
Coi due
nipoti che lo accompagnavano e i collaboratori, allora si trasferì allo
zuccherificio Ariadna, nella zona di Limonar, bel lontano dalla costa e con un
clima eccellente, proprietà di JuanChartrand-Dubois, padre di Esteban e Felipe,
gli eccellenti paesaggisti. Era la stessa fabbrica di zucchero dove, nel 1851,
si era installata la svedese Fredrika Bremer, occasione in cui aprofittò di
scfrivere buona parte del suo libro Cartas
desde Cuba che lei stessa illustrò.
Rufus,
nello zuccherificio Ariadna, vide lo stesso panorama che precedentemente aveva
apprezzato la svedese e che lo scriba rivive grazie a lei. Una grande ceiba in pieno vigore e magnificenza. I
margini delle strade bordeggiati, alcune da palme, altre da manghi. I frutteti.
Il ballo dei negri la domenica, quando gli si permetteva una pausa nel duro
lavoro. Il baraccone degli schiavi, una specie di muraglia bassa, costruita
attorno ai quattro lati di un gran patio, col portone su un lato che si
chiudeva la sera. Dentro questa muraglia c;erano le stanze degli schiavi – una
stanza per ogni famiglia e nel centro del patio, la cucina e il lavandino. –
Felipe era sui 25 anni e Esteban che giunse ad essere il più famoso dei due sui
20. La signora della casa, la moglie di Chartrand-Dubois, aveva doti musicali e
una voce che ara un vero piacere ascoltare. Dimostrava un carattere tranquillo e
dolce, come attivo e vivace era quello del marito, un francese oriundo di Santo
Domingo che fece la sua ricchezza grazie alla fortuna, era vivace, ciarliero e
cortese, possedeva grande acume e sagacia.
Con l’Approvazione del Congresso
Gli
investigatori non si mettono d’accordo nel fissare il luogo esatto dove William
Rufus King giurò come vice presidente degli Stati Uniti.
Alcuni
insistono a dire che la cerimonia si effettuò a la Cumbre, la residenza di
William Updicke, latifondista e interprete della Marina spagnola. Altri su una
nave da guerra che Washington inviò a Matanzas per l’occasione. La versione
ufficiale assicura che questo giuramento si portò a termine all’Avana. È poco
probabile che a questo punto Rufus che era molto malato, in quello stato, si
trasferisse alla capitale dell’Isola. D’altra parte il Fulton, una nave della
Marina Militare nordamericana che lo portò a Matanzas, fu lo stesso che lo
riportò negli Stati Uniti e questa imbarcazione, col suo illustre passeggero a
bordo, salpò dall’Atene di Cuba.
Rimane
quindi l’ipotesi sostenuta da Raúl Ruíz che la cerimonia ebbe luogo nei
possedimenti dei Chartrand.
Si
avvicinava la data della presa di possesso e Rufus capì che gli risultava
impossibile fare il viaggio. I suoi correligionari e amici iniziarono allora le
pratiche per ottenere l’autorizzazione, al fine che il giuramento si
effettuasse a Cuba.
La
petizione contò dell’approvazione del Congresso. In virtù della decisione,
William Sharley, console degli Stati Uniti all’Avana, si sarebbe presentato a
Matanzas e avrebbe preso il giuramento di Rufus nello zuccherificio Adriadna.
Giunto il momento, si dovette sostenerlo per le braccia per compiere le
formalità.
Conclusa
la cerimonia, Rufus King conversò coi presenti e si ritirò in una stanza.
Dodici giorni dopo, partiva di ritorno agli Stati Uniti. Nel porto di Mobile,
una moltitudine aspettava il passeggero che dopo una breve sosta in luogo,
rimontò il fiume Alabama fino alla sua tenuta, di Dallas, dove morì.
La
legislatura territoriale dell’Oregon creò la contea di King a suo nome. Molti
anni dopo, le autorità di questa località emendarono la designazione e il suo
logotipo per onorare la memoria di Martin Luther King, l’eroe afroamericano che
lottò contro la discriminazione razziale.
Un Vicepresidente de EE.UU. juró en Limonar
Ciro Bianchi
Ross • digital@juventudrebelde.cu
23 de Abril del 2016 20:44:44 CDT
El senador James Buchanan que
andando el tiempo (1857) resultaría electo presidente de los Estados Unidos,
escribía a su amiga Cornelia Roosevelt, con motivo de la ausencia de su amigo,
el también senador y más tarde vicepresidente de la nación, William Rufus King,
lo
siguiente: «Ahora estoy solo y
solitario porque no tengo compañía en la casa conmigo. He cortejado a varios
caballeros pero no he tenido éxito con ninguno de ellos. Siento que no es bueno
para un hombre el estar solo, y no me sentiría asombrado de encontrarme un día
casado con una solterona que me cuide cuando estoy enfermo, me provea buenas
comidas cuando estoy bien y que no espere de mí ningún afecto ardiente y
romántico».
Muchas páginas consumieron los
historiadores norteamericanos en el análisis de la relación entre esos dos
ambiciosos políticos que en 1844 decidieron postularse como presidente y vice
del país, lo que les impidió el Partido Demócrata, al que ambos pertenecían.
Aunque algunos conocedores plantean que no había nada raro en la época en que
dos hombres compartieran la misma cama, que los términos afectivos que podían
utilizar en la correspondencia cursada entre ellos no significaba ningún tipo
de apego romántico, y catalogan a Buchanan y a Rufus como «asexuales y
solterones», la amistad entre ambos despertó la curiosidad de sus compañeros en
el Congreso, que terminaron aludiendo a ellos como la «señorita Nancy» y la
«tía Nancy», eufemismos empleados entonces para sugerir que un hombre era
afeminado. A Buchanan y a Rufus, que llegaron a conocer de esos comentarios,
nunca les importó mucho pues prosiguieron su vida en común y su trabajo como
legisladores. Desde 1834 hasta que Rufus fue nombrado embajador en Francia
—separación que motivó la citada carta de Buchanan a Cornelia—, compartieron en
Washington el mismo techo y juntos asistían a las sesiones del Capitolio y a
los actos sociales.
Un legislador decía que Rufus era la
«media naranja» de Buchanan, y otro se refería a ellos como los «hermanos
siameses», pues siempre andaban juntos. Rufus diría que esa amistad era una
«comunión».
Buchanan tuvo una novia con la que
rompió antes de llegar al matrimonio, interesado como estaba sobre todo, se
dice, en la dote de la muchacha. A Rufus no se le conoció ninguna relación con
mujeres. A la muerte de ambos —Rufus falleció en 1853, y Buchanan, en 1868— las
familias respectivas destruyeron la
correspondencia entre ellos. Las cartas que quedaron, sin embargo, dan mucha
tela por donde cortar.
El vice que no fue
No es interés del escribidor, y lo
expresa a toda intimidad, como solía decir un abogado notable antes de 1959
mientras se apoyaba con ambas manos en su bastón, abundar en la orientación
sexual de William Rufus King. Quiere, sí, destacar un hecho inédito y hasta
ahora no repetido en la historia de Estados Unidos. Rufus, décimo tercer
vicepresidente de ese país —con Franklin Pierce como primer mandatario—, juró
su alto cargo en la casa de vivienda del ingenio azucarero Adriadna, en
Limonar, provincia de Matanzas. Se acercaba la fecha del juramento, y amigos y
colaboradores se convencieron de que el sujeto, que intentaba recuperarse en
Cuba, no llegaría a Washington. Estaba tan mal de salud que, para que pudiera
mantenerse en pie durante la ceremonia, hubo que sostenerlo por ambos brazos.
Pasó varios días más en la zona y
llegó a su casa el 17 de abril de 1853. Murió al día siguiente, en su hacienda
del condado de Dallas, en Alabama. Se mantuvo en el cargo apenas un mes. No
pudo desempeñar ninguna de las funciones inherentes a su alta investidura.
Fue el historiador matancero Raúl
Ruiz, ya fallecido, quien sacó a relucir años atrás esta historia olvidada,
páginas que compiló en un libro ya casi inencontrable, Aguas de la ciudad. A
fines de la década de 1940 o a comienzos de la de 1950, la Alabama Historial
Society quiso perpetuar el hecho con la colocación de una tarja en una de las
columnas cercanas a la entrada del Palacio Municipal matancero; tarja de la que
desconoce el escribidor.
Aunque sus compañeros de hemiciclo
se burlaban de un hombre melindroso y cursi, que solía cubrirse con pelucas
empolvadas que en su tiempo estaban ya fuera de moda, Rufus fue, se dice, un
legislador capaz y un orador impresionante. A su muerte, Buchanan lo ubicó
«entre los mejores, más puros y más consistentes hombres públicos que he
conocido», pero la recomendación venía desde muy cerca.
De cualquier manera su carrera
política fue meteórica. Descendiente de irlandeses y de hugonotes franceses,
William Rufus King nació en el condado de Sampson, Carolina del Norte, el 7 de
abril de 1786. Era la suya una familia extensa, acaudalada y con muy buenas
conexiones. Hizo estudios universitarios y en 1806 fue electo diputado a la
legislatura de su estado natal. Desempeñó en tres ocasiones un acta de
Representante a la Cámara en Washington y participó como delegado en la
convención organizada por el Gobierno del estado de Alabama. En 1819, al
reconocerse ese territorio como el vigésimo segundo estado de la Unión, fue
electo al Senado, cámara donde llegó a presidir la comisión de Relaciones
Exteriores.
A la muerte del presidente Zachary
Taylor, el vice Millar Fillmore ocupó la primera magistratura, con lo que la
vicepresidencia quedó vacante. William Rufus King, ya presidente del Senado, se
colocó, como estipulaba entonces la Constitución, en la primera línea de la
sucesión presidencial.
Sus contemporáneos lo consideraron
moderado en temas como esclavitud, separación entre el norte y el sur,
expansión hacia el Oeste. Como él y su
familia eran propietarios de grandes plantaciones de algodón y de unos 500
esclavos, se dice que era un defensor de la esclavitud.
Su mayor éxito fue su elección en
1852, por el Partido Demócrata, a la vicepresidencia de Estados Unidos.
Un hombre enfermo
A esas alturas era ya un hombre muy
enfermo. Minado por la tuberculosis, los médicos le recomendaron que viajara a
Cuba en busca del posible restablecimiento de la salud. Hizo el viaje
inmediatamente después de su elección.
Se alojó, al comienzo de su estancia
en la Isla, en la residencia de William Scott Jencks Updike, propietario de un
ingenio azucarero y su amigo personal. Una magnífica mansión de dos plantas
ubicada en la Cumbre, actual reparto Versalles, junto a la bahía matancera. Era
una zona recomendada por los médicos y allí Rufus permaneció, dice el
investigador Raúl Ruiz, por espacio de dos semanas hasta que los molestos
nortes, con lluvia y frío, recomendaron su traslado a otro sitio.
Con los dos sobrinos que lo
acompañaban y colaboradores se trasladó entonces al ingenio Adriadna, en la
zona de Limonar, bien alejado de la costa y con un clima excelente, propiedad
de Juan Chartrand-Dubois, padre de Esteban y Felipe, los excelentes
paisajistas. Era la misma fábrica de azúcar donde, en 1851, se había instalado
la sueca Fredrika Bremer, ocasión que aprovechó para escribir buena parte de su
libro Cartas desde Cuba, que ella misma ilustró.
Rufus, en el ingenio Adriadna, ve el
mismo paisaje que antes apreció la sueca y que el escribidor revive gracias a
ella. Una gran ceiba en pleno vigor y magnificencia. Las guardarrayas
bordeadas, unas de palmas y otras, de mangos. Los frutales. El baile de los
negros los domingos, cuando se les permite un alto en el duro trabajo. El
barracón de los esclavos, una especie de muralla baja, construida en torno a
los cuatro lados de un gran patio, con un portón por un lado, que se cierra por
la noche. Dentro de esa muralla están las viviendas de los esclavos —una
habitación para cada familia, y en el centro del patio, la cocina y el lavadero.
Felipe anda por los 25 años, y Esteban, que llegaría a ser el más famoso de los
dos, por los 20. La señora de la casa, la esposa de Chartrand-Dubois, tiene
dotes musicales y una voz que es verdaderamente un placer escuchar. Da muestras
de un carácter tan tranquilo y suave, como activo y vivaz es el del marido, un
francés oriundo de Santo Domingo que hizo su fortuna gracias a la suerte, y es
vivo, charlatán y cortés, y posee gran agudeza y sagacidad.
Con la aprobación del congreso
No se ponen de acuerdo los
investigadores al fijar el lugar exacto donde William Rufus King juró como
vicepresidente de los Estados Unidos.
Algunos insisten en que la ceremonia
se efectuó en la Cumbre, la residencia de William Updike, hacendado e intérprete
de la Marina española. Otros, en un barco de guerra que Washington envió a
Matanzas para la ocasión. La versión oficial asegura que ese juramento se llevó
a cabo en La Habana. Es poco probable porque a esas alturas Rufus se encontraba
muy enfermo y en ese estado no se trasladaría a la capital de la Isla. Por otra
parte, el Fulton, un buque de la Marina de Guerra norteamericana, que lo llevó
a Matanzas, fue el mismo que lo regresó a Estados Unidos, y esa embarcación,
con su ilustre pasajero a bordo, zarpó de la bahía de la Atenas de Cuba.
Queda entonces la hipótesis
sostenida por Raúl Ruiz, de que la ceremonia del juramento tuvo lugar en el
predio de los Chartrand.
Se acercaba la fecha de la toma de
posesión, y Rufus comprendió que le resultaría imposible hacer el viaje. Sus
correligionarios y amigos inician entonces las gestiones para lograr la
autorización, a fin de que el juramento se efectuara en Cuba.
La petición contó con la aprobación
del Congreso. En virtud de la decisión, William Sharley, cónsul de Estados
Unidos en La Habana, se personaría en Matanzas y tomaría juramento a Rufus en
el ingenio Adriadna. Llegado el momento, hubo que sostenerlo por los brazos
para cumplir con las formalidades.
Concluida la ceremonia, Rufus King
conversó con los asistentes y se retiró a una habitación. Doce días después
partía de regreso a Estados Unidos. En el puerto de Mobile una multitud
aguardaba al viajero que, tras una breve estancia en el lugar, remontó el río
Alabama hasta su hacienda, en Dallas, donde murió.
La legislatura territorial de Oregón
creó el condado King en su nombre. Muchos años después, las autoridades de esa
localidad enmendaron la designación y su logo para honrar la memoria de Martin
Luther King, el héroe afroamericano que luchó contra la discriminación racial.
Ciro Bianchi
Ross
sabato 23 aprile 2016
venerdì 22 aprile 2016
giovedì 21 aprile 2016
mercoledì 20 aprile 2016
sabato 16 aprile 2016
venerdì 15 aprile 2016
giovedì 14 aprile 2016
È mancato Julio García Espinosa, un pezzo di storia del Cinema cubano
In questo “bisesto” 2016,
continuano i lutti nel campo della Cultura cubana e in particolare nella
Cinematografia, dopo la scomparsa la settimana scorsa del regista, soggettista
e sceneggiatore Rogélio París, ieri
pomeriggio è mancato, all’età di 89 anni, Julio García Espinosa. Uno dei
grandi, tra i primissimi fondatori del nuovo cinema cubano, assieme ad Alfredo
Guevara e Tomàs Gutiérrez Alea (Titón) ed Enrique Pineda Barnet e Santiago
Álvarez.
Julio ha frequentato il CSC
di Roma tra il 1951 e il 1954, dove ha incontrato Gabriel García Márquez col
quale ha conservato un’amicizia per la vita e con lui ed altri, come Alfredo,
ha creato la Fondazione del Nuovo Cine Latinoamericano e la Scuola
Internazionale di Cine e TV di San Antonio de los Baños.
A Roma ha anche stretto una
lunghissima amicizia con Cesare Zavattini che è proseguita epistolarmente per
molti anni.
È stato fondatore e
presidente dell’ICAIC e del Festival del Nuovo Cine Latinoamericano che già da
oltre tre decadi, porta il Cinema di questo continente, ma non solo, in una
grande festa con centinaia di proiezioni nei cinema di tutto il Paese,
accompagnate da eventi, conferenze e dibattiti, dove non mancano prestigiosi
esponenti della cinematografia mondiale.
Nel 2013, Julio ha ricevuto,
per mano dell’Ambasciatore italiano, la Stella al merito della Repubblica
Italiana, in occasione del suo 83° compleanno.
Alla sua compagna di vita,
per tantissimi anni, Dolores Calviño “Lola”, vadano le più sentite
condoglianze.
martedì 12 aprile 2016
Pennellate avanere, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 10/4/16
Lo sapevate che la Plaza di
San Francisco in una certa occasione ha avuto il nome ufficiale di Plaza de Key
west? Ebbens sì. Successe nel 1947, ai tempi del sindaco Nicolás Castellanos
Rivero e seppure si collocò in quello spazio una targa con la nuova
denominazione, gli avaneri sembrarono non essersene accorti e continuarono
chiamandola Plaza de San Francisco.
De San Francisco? All’inizio
non poteva avere questo nome, ebbene la piazza esisteva dal 1559 e non fu fino
al 1584 quando cominció a costruirsi il convento, un edificio di grandi
proporzioni le cui opere furno concluse nel 1591, nonostante non fu pronto fino
a dopo una grande riforma che si estese tra il 1731 e il 1738, per essere
consacrato l’anno seguente.
Nel 1841 il Governo spagnolo
confiscó i beni delle comunità religiose e i frati francescani dovettero
abbandonarlo; allora cercarono a Guanabacoa e nella chiesa del convento di San
Augustín, oggi di Sna Francisco, all’angolo di Cuba e Amargura. Il vecchio
convento con il suo tempio diventó deposito di merci e dal 1856 funzionarono,
nella sua area, l”Archivio Generale dell’Isola e la Dogana dell’Avana. Nel 1907
fu occupato dalla direzione delle Poste e Telegrafi e dopo un buon restauro
ospitò la Direzione delle Comunicazioni, poi chiamata Segreterie e poi Ministero,
fino al suo trasloco alla Plaza Cívica, oggi della Rivoluzione, nel 1957,
quando si inaugurò il cosiddetto Palazzo delle Comunicazioni.
Dopo il 1959 si pensò di
trasferirvi l’idea di installarvi un Museo Coloniale. Non si fece niente in
questo senso e l’edificio servì da magazzino fino a che ospitò la Scuola
Laboratorio Gaspar Melchor de Jovellanos, dell’Ufficio dello Storico dellla
Città che lo restaurò con grande zelo.
Il 17 novembre del 1955, si
conclusro i restauri del claustro nord del convento che gli restituirono
l’aspetto originario.
Prima, il 4 ottobre del
1994, terminò il restauro della Basilica Minore di San Francesco di Assisi.
Oggi il convento ospita il
Museo di Arte Sacra, con una prezioas collezione che comprende,
fondamentalmente, immagini del XVIII° secolo, cosí come pezzi di caratttere
religioso come le pantofole e la cappa impermeabile di Dionisio Rezino y
Ormachea, primo Vescovo Ausiliare di Cuba, ricamate in Messico nel VII° secolo,
in seta,fili d’oro e pietre preziose. La mostra ha importanti pezzi d’avorio (secoli
XVII e XIX) e una collezione di ritrovamenti archeologici, provenienti in buona
misura negli scavi realizzati nel medesimo edificio e un’ampia rappresentazione
di oreficeria e mobili religiosi di epoche passate.
La Basilica Minore di San
Francesco di Assisi, dedicata alla musica corale e da camera è una delle
migliori sale da concerto della città. (vi si è esibita anche Katia Ricciarelli
in una Settimana della Cultura italiana. n.d.t.).
Col
nome di Céspedes
La Plaza de San Francisco si
chiamò, per breve tempo e pure senza esito, Plaza de Fernando VII°. La Plaza de
Armas fu originariamente la Plaza de la Iglesia, per la Parrochiale Maggiore
che vi si affacciava e che occupava lo spazio dove poi si eresse il Palazzo dei
Capitani Generali.
A parire dal 1581 si fanno
sentire le gravi differenze tra Gabriel de Luján, governatore dell’Isola e
Diego Fernández de Quiñones, reggente del Castillo de la Fuerza, per la
supremazia e il comando della guarnigione che ra già di 200 elementi, Quiñones
occupò la Plaza de la Iglesia perché la truppa vi facesse le sue esercitazioni
militari e i luogo cominciò a chiamarsi Plaza de Armas, con la delusione del
vicinato che perse lo spazio che dedicava al commercio e alla ricreazione.
Fu allora che il Comando
politico decise l’acquisto di un terreno per la collocazione della nuova
piazza, ma l’acquisto non si fece per mancanza di soldi. La piazza continuò ad
essere la de Armas anche quando, passato il tempo, i soldati de La Fuerza
cessarono di farvi le loro esercitazioni e il destino che spinse il bellicoso
Quiñones, vi lasciò solo il nome.
Nel 1955 si sloggiò dal
centro de la Plaza de Armas la statua di Ferdinando VII°, il re fellone, il più
odiato dei regnanti spagnoli, situata lì nel 1834. Al suo posto si collocò
l’immagine scultorica di Carlos Manuel de Céspedes, Padre della Patria, opera
del cubano Sergio López Mesa: una statua di marmo, dimensioni rispettabili,
nella quale il personaggio appare in piedi, con i vestiti dell’epoca e la testa
scoperta, eretta sul medesimo piedestallo della statua del re che prima si
conservò nei magazzini del Museo della Città e poi si collocò nel portico del
Palazzo del Secondo Capo, fino a che passò a quello del citato Museo.
Céspedes, duole dirlo, non
ha all’Avana un monumento degno della sua grandezza. Nel 1900 si creò
l’Associazione Pro Monumento a Céspedes e Martí, ma si elevò solo quello
dell’Apostolo nel Parque Central avanero. Nel 1919, per iniziativa di don Cosme
de la Torriente, colonnello dell’Esercito di Liberazione e cancelliere della
Repubblica, il Congresso votò una legge nella quale si finanziavano 175.000
pesos per erigere il monumento. Non se ne fece nulla. Nel 1923 il Municipio
dell’Avana accordò, su proposta della rivista Cuba Contemporánea, di dare il
nome di Carlos manuel de Céspedes alla Plaza de Armas.
Piazza
nuova o vecchia?
La piazza che noi chiamiamo
Vecchia fu, a suo tempo, La Plaza Nueva. Si formò, dice lo storico Arrate, nel
1559, quando sesitevano già la Plaza de la Iglesia e quella di San Francisco.
Lo storico Pérez Beato afferma che la Plaza Nueva fu rispetto a quella de la
Iglesia perché quella di San Francisco non esisteva. Forse esisteva, come
afferma un’altro storico, Emilio Roig, solo che San Francisco al suo inizio,
non era altro che una frangia di terra senza edifici.
L’autore de La Habana: apuntes históricos:
“Un’angusta frangia di terreno sita tra le calli Oficios e quella della Marina,
a modo di spiaggia, frangia che si estendeva tra l’atrio della Chiesa e la
calle Lamparilla”.
Roig assicura che San Francisco
fu il mercato pubblico fino a che questi, su richiesta dei francescani, si
traferì all’attuale Plaza Vieja.
Nonostante fosse andato via
da lì il vero mercato, San Francisco fu il centro commercial e di ogni
transazione, durante la Colonia, “luogo di attesa, carico e scarico dei
carrettoni che si recavano al molo e ai magazzini che circondavano quel luogo;
deposito di merci e frutta...Su di essa sbarcarono anche gli immigranti che
venivano, dalla Penisola, a fare soldi in America o a morire di febbre gialla
senza aver raggiunto le loro speranze di ricchezza”.
Come quella di San
Francisco, anche questa, anche questa port il nome di Fernando VII°. Per la verità ha avuto non pochi nomi lungo la sua
lunga esistenza: Plaza Nueva, Plaza Real, Plaza Mayor, Plaza de Roque Gil,
Plaza del Mercado, Plaza de la Verdura, Plaza de la Constitución, Plaza de
Cristina, Plaza de la Concordia, Plaza Vieja e Parque Juan Bruno Zayas. Nel
1835 il governatore Miguel Tacón costruì al centro della Piazza un edificio
quadrangolare di mattoni che si sarebbe destinato a mercato: il Mercato di
Cristina, in omaggio all’allora regina spagnola. La Plaza Nueva cominciò a
essere Vieja quando, a partire dal 1640 si costruì la Plaza Nueva del Cristo.
Dal 1814 vi funzionò, in modo extra ufficiale un mercato e nel 1836, Tacón
dispose che si chiamasse Mercato del Cristo, l’insieme di posteggi che ordinò
di costruirvi.
A San Francisco si trovava
la cosiddetta casa de Aróstegui, residenza dei governatori spagnoli dal 1763 fino a che si costruì il Palazzo dei
Capitani Generali. All’angolo tra Oficios e Amargura si trova la palazzina che
fu dei successori del IV marchese di San Felipe Y Santiago, dove nel 1878 si
alloggiò parte della comitiva dei duchi di Orleáns che più tardi avrebbero
occupato il trono di Francia. Oggi è l’albergo Marqués de San Felipe y
Santiago.
Il
più ricco
Non poche famiglie
principali della Colonia risiedettero nella Plaza Vieja. Si distingue fra di
loro quella dei conti di San Juan de Jaruco.
Il terzo conte, don Juaquín
de Santa Cruz y Cárdenas fu, al suo tempo (1769-1807) l’uomo più ricco di Cuba.
Ma era illuso e poco pratico. Fondò grandi aziende e quasi tutte fracassarono;
nonostante fosse carente di scrupoli, il suo capitale diminuiva e i debiti
aumentavano. Quando morì. Lasciò l’immensa fortuna, per quell’epoca, di nove
milioni di pesos, condizionata da un debito di sette milioni che il testamento
lo obbligava ad onorare. Don Joaquín è il padre della celeberrima Contessa di
Merlin autrice, nel 1844 di un libro delizioso, frutto di una breve visita
all’Isola, Viaje a La Habana.
Ad opinione di specialisti,
nella Plaza Vieja si edificarono alcune delle più belle magioni coloniali.
Alcune di esse resistettero al passare del tempo. La sua armonia costruttiva e
dignità architettonica, ben meritano il lavoro di restauro a cui si sotommise
negli anni ’90, quando la demolizione di un parcheggio sotterraneo che vi si costruì nel 1952, dette la spinta
ai lavori di rimodernizzazione del centro storico. I suoi abitanti la considerarono
sempre come la piazza principale della città.
In essa si fecero i proclami
reali fino agli inizi del XIX° secolo ed ebbero luogo molti avvenimenti che
segnarono i giorni della città. Nel 1942 si propose che vi si erigesse un
monumento ai massoni caduti nelle lotte per l’indipendenza, giacché questo fu
lo spazio dove, nel 1820, i membri della massoneria manifestarno, con i loro
attributi, al fine di proclamare pubblicamente la loro adesione alla libertò e
alla giustizia.
El
Caballero de París
Si è lavorato molto in
queste piazze. La Plaza de la Catedral rimane per una prossima pagina. In
quella de las Armas si è appena terminato di restaurare il Palazzo del Secondo
Capo. L’Hotel Marqués de San Felípe y Santiago de Bejucal apre le sue porte in
San Francisco, come l’edificio della Loggia del Commercio, costruito nel 1909 e
trasformato, nel 1996, in un immobile intelligente con una superficie
affittabile di 9.000 metri quadrati.
Il Planetario e la Camera
Oscura, nella Plaza Vieja, entusiasmano grandi e piccoli. Lì inoltre ci sono la
Fototeca di Cuba e il Centro di Sviluppo delle Arti Visive e in via di
restaurazione, il caffè El Escorial e la Factoría de Maltas y Cervesas così
come la Victrola, esercizio, non statale di successo dove si conciliano la buona
cucina e il buon gusto.
I resti mortali del
Caballero de París, personaggio popolare dell’Avana di sempre, furono inumati
nel convento di San Francisco.
In una delle porte di questo
edificio cha da alla calle Oficios, si è posta una scultura in bronzo in cui
l’artista cubano José Villa Soberón catturò il personaggio. Una nuova leggenda
è nata nell’Avana Vecchia a partire da allora. si dice che a chi, da dietro la
statua, riesce a toccargli la punta della barba con una mano e con l’altra la
punta delle se dita, verrà arriso dalla fortuna. Sembra che non sia facile
farlo, ma vale la pena di provarci.
Brochazos habaneros
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
9 de Abril del 2016 21:14:17 CDT
¿Sabía usted que la Plaza de San
Francisco recibió en cierta ocasión el nombre oficial de Plaza de Key West?
Pues sí. Ocurrió en 1947, en tiempos del alcalde Nicolás Castellanos Rivero, y
aunque se colocó en dicho espacio una tarja con la nueva denominación, los
habaneros parecieron no enterarse de ella y continuaron llamándole Plaza de San
Francisco.
¿De San Francisco? En sus comienzos
no pudo llevar ese nombre, pues la plaza existía antes de 1559 y no fue hasta
1584 cuando comenzó a construirse el convento, un edificio de grandes
proporciones cuyas obras concluyeron en 1591, aunque no quedó listo hasta después
de una amplia reforma que se extendió entre 1731 y 1738, para ser consagrado al
año siguiente.
En 1841 el Gobierno español confiscó
los bienes de las comunidades religiosas y los frailes franciscanos debieron
abandonarlo; buscaron asiento entonces en Guanabacoa y en la iglesia y convento
de San Agustín, hoy, de San Francisco, en la esquina de Cuba y Amargura. El
viejo convento, con su templo, pasó a ser depósito de mercancías y desde 1856
funcionaron en sus áreas el Archivo General de la Isla y la Aduana de La
Habana. En 1907 fue ocupado por la Dirección de Correos y Telégrafos y, luego
de una acertada restauración, albergó la Dirección de Comunicaciones, llamada
después Secretaría y luego Ministerio, hasta su traslado a la Plaza Cívica, hoy
de la Revolución, en 1957, cuando se inauguró el llamado Palacio de las
Comunicaciones.
Después de 1959 se manejó la idea de
instalar allí un museo de historia colonial. Nada se hizo en ese sentido y el
edificio sirvió de almacén hasta que dio albergue a la Escuela Taller Gaspar
Melchor de Jovellanos, de la Oficina del Historiador de la Ciudad, que lo
restauró con esmero.
El 17 de noviembre de 1995
concluyeron las obras de restauración del claustro norte del convento, que le
devolvieron su aspecto original.
Antes, el 4 de octubre de 1994,
terminó la restauración de la Basílica Menor de San Francisco de Asís.
Hoy el convento da albergue al Museo
de Arte Sacro, con una valiosa colección que incluye, en lo fundamental,
imágenes del siglo XVIII, así como piezas de carácter religioso como las
zapatillas y la capa pluvial de Dionisio Rezino y Ormachea, primer Obispo
Auxiliar de Cuba, bordadas en México en el siglo XVII, en seda, hilos de oro y
piedras preciosas. La muestra tiene importantes piezas de marfil (siglos XVIII
y XIX), una colección de hallazgos arqueológicos, procedentes en buena medida
de las excavaciones realizadas en el propio edificio, y una amplia
representación de la orfebrería y el mobiliario religiosos de épocas pasadas.
La Basílica Menor de San Francisco
de Asís, dedicada a la música coral y de cámara, es una de las mejores salas de
concierto de la ciudad.
Con el nombre de Céspedes
La Plaza de San Francisco también se
llamó, por breve tiempo e igualmente sin éxito, Plaza de Fernando VII. La Plaza
de Armas fue originalmente la Plaza de la Iglesia, por la Parroquial Mayor que
se asomaba a ella y que ocupaba el espacio donde se erigió después el Palacio
de los Capitanes Generales.
A partir de 1581 se hacen sentir las
graves diferencias entre Gabriel de Luján, gobernador de la Isla, y Diego
Fernández de Quiñones, alcaide del Castillo de la Fuerza, por la supremacía en
el mando de la guarnición de la fortaleza, que era ya de 200 elementos.
Quiñones ocupó la Plaza de la Iglesia para que la tropa hiciera sus ejercicios
militares y el lugar empezó a llamarse Plaza de Armas, con el desconsuelo de la
vecinería, que perdió el espacio que dedicaba al comercio y a la recreación.
Fue entonces que el Cabildo decidió
la compra de un terreno para el asiento de una nueva plaza, pero la adquisición
no se efectuó por falta de dinero. La plaza siguió siendo la de Armas, aun
cuando pasado el tiempo, los soldados de la Fuerza dejaron de hacer allí su
entrenamiento y del destino a la que la forzó el belicoso Quiñones no quedó más
que el nombre.
En 1955 se desalojó del centro de la
Plaza de Armas la estatua de Fernando VII, el rey felón, el más odiado de los
monarcas españoles, emplazada allí en 1834. En su lugar se colocó la imagen de
bulto de Carlos Manuel de Céspedes, Padre de la Patria, obra del cubano Sergio
López Mesa; una estatua de mármol, de tamaño heroico, en la que el personaje
aparece de pie, con la indumentaria de su época y la cabeza descubierta,
erigida sobre el mismo pedestal de la estatua del monarca, que se guardó primero
en los almacenes del Museo de la Ciudad y se colocó luego en el portal del
Palacio del Segundo Cabo, hasta que pasó al portal del mencionado museo.
Céspedes, duele decirlo, no tiene en
La Habana el monumento digno de su grandeza. En 1900 se creó la Asociación Pro
Monumento a Céspedes y Martí, pero se levantó solo el del Apóstol, en el Parque
Central habanero. En 1919, a iniciativa de don Cosme de la Torriente, coronel
del Ejército Libertador y canciller de la República, el Congreso votó una ley
en la que se consignaban 175 000 pesos para erigirle el monumento. Nada se
hizo. En 1923 el Ayuntamiento de La Habana acordó, a propuesta de la revista
Cuba Contemporánea, dar el nombre de Carlos Manuel de Céspedes a la Plaza de
Armas.
¿Plaza nueva o vieja?
La plaza que nosotros llamamos Vieja
fue, en su tiempo, la Plaza Nueva. Se formó, dice el historiador Arrate, en
1559, cuando ya existían la Plaza de la Iglesia y la de San Francisco. El
historiador Pérez Beato afirma que fue Plaza Nueva con relación a la de la
Iglesia, porque San Francisco no existía. Quizá existiera, comenta otro
historiador, Emilio Roig, solo que San Francisco, en sus comienzos, no era más
que una pequeña faja de tierra sin edificios.
Precisa el autor de La Habana:
Apuntes históricos: «una angosta faja de terreno situada entre la calle de los
Oficios y la Marina, a modo de playa, faja que se extendía entre el atrio de la
iglesia y la calle de la Lamparilla».
Asegura Roig que San Francisco fue
el mercado público hasta que este, por petición de los franciscanos, se
trasladó a la actual Plaza Vieja.
A pesar de haber salido de allí el
verdadero mercado, San Francisco fue durante la Colonia el centro de la vida
comercial y de toda clase de transacciones, «lugar de espera, carga y descarga
de los carretones que acudían al muelle y a los almacenes que rodean aquel
lugar; depósito de mercancías y frutos… Por ella desembarcaban también los
inmigrantes que venían de la Península a hacer dinero en América o a morir de
fiebre amarilla sin haber logrado sus ansias de riqueza».
Como la de San Francisco, también
llevó esta el nombre de Fernando VII. En verdad, ha tenido no pocos nombres a
lo largo de su dilatada existencia: Plaza Nueva, Plaza Real, Plaza Mayor, Plaza
de Roque Gil, Plaza del Mercado, Plaza de la Verdura, Plaza de la Constitución,
Plaza de Cristina, Plaza de la Concordia, Plaza Vieja y Parque Juan Bruno
Zayas. En 1835 el gobernador Miguel Tacón construyó en el centro de la plaza un
edificio cuadrangular de mampostería que se destinaría a mercado: el Mercado de
Cristina, en homenaje a la entonces reina española. La Plaza Nueva empezó a ser
Vieja cuando a partir de 1640 se construyó la Plaza Nueva del Cristo. Desde
1814 funcionó aquí, de manera extraoficial, un mercado, y en 1836 Tacón dispuso
que se llamara Mercado del Cristo al conjunto de casillas que ordenó construir
en el lugar.
En San Francisco se localizaba la
llamada Casa de Aróstegui, residencia de los gobernadores españoles desde 1763
hasta que se construyó el palacio de los Capitanes Generales. Y en la esquina
de Oficios y Amargura se halla el palacete que fue de los sucesores del IV
Marqués de San Felipe y Santiago, donde en 1798 se alojó parte de la comitiva
de los duques de Orleáns, que más tarde ocuparían el trono de Francia. Hoy es
el hotel Marqués de San Felipe y Santiago.
El más rico
No pocas familias principales de la
Colonia residieron en la Plaza Vieja. Sobresale entre ellas la de los condes de
San Juan de Jaruco.
El tercer conde, don Joaquín de
Santa Cruz y Cárdenas, fue en su tiempo (1769-1807) el hombre más rico de Cuba.
Pero era iluso y poco práctico. Acometió grandes empresas y casi todas
fracasaron; pese a que carecía de escrúpulos, su capital decrecía y las deudas
aumentaban. Cuando falleció, legó a su hijo mayor la inmensa fortuna, para la
época, de nueve millones de pesos, condicionada por una deuda de siete millones
que en el testamento le obligaba a honrar. Don Joaquín es el padre de la muy
célebre Condesa de Merlin, autora, en 1844, de un libro delicioso, fruto de una
breve visita a la Isla, Viaje a La Habana.
En opinión de especialistas, en la
Plaza Vieja se edificaron algunas de las más bellas mansiones coloniales.
Algunas de ellas resistieron el paso del tiempo. Su armonía constructiva y
dignidad arquitectónica bien merecen el trabajo de restauración al que las
sometieron en los años de 1990, cuando la demolición de un parque soterrado que
allí se construyó en 1952 dio impulso a las labores de remozamiento del centro
histórico. Sus vecinos la tuvieron siempre como la principal plaza de la villa.
En ella se hicieron las
proclamaciones reales hasta los comienzos del siglo XIX y tuvieron lugar
múltiples hechos que matizaron el día de la ciudad. En 1942 se propuso que se
erigiera allí un monumento a los masones caídos en las luchas por la
independencia, ya que fue ese el espacio donde, en 1820, los miembros de la
masonería, portando todos sus atributos, salieron en manifestación a fin de
proclamar públicamente su adhesión a la libertad y la justicia.
El Caballero de París
Mucho se ha trabajado en estas
plazas. La Plaza de la Catedral queda para una página posterior. En la de Armas
acaba de restaurarse el palacio del Segundo Cabo. El hotel Marqués de San
Felipe y Santiago de Bejucal abre sus puertas en San Francisco, al igual que el
edificio de la Lonja del Comercio, construido en 1909 y transformado en 1996 en
un inmueble inteligente, con una superficie rentable de 9 000 metros cuadrados.
El Planetario y la Cámara Oscura, en
la Plaza Vieja, entusiasman a grandes y chicos. Allí están además la Fototeca
de Cuba y el Centro de Desarrollo de las Artes Visuales, y, en el orden de la
restauración, el café El Escorial y la Factoría de Maltas y Cervezas, así como
La Victrola, exitoso establecimiento del sector no estatal donde se concilian
la buena cocina, un mejor servicio y el buen gusto.
Los restos mortales del Caballero de
París, personaje popular de La Habana de siempre, fueron inhumados en el
convento de San Francisco.
En una de las puertas de ese
edificio que da a la calle Oficios, se colocó la escultura en bronce en la que
el artista cubano José Villa Soberón atrapó al personaje. Una nueva leyenda le
surgió a La Habana Vieja a partir de ella. Se dice que a quien, desde detrás de
la estatua, logre tocarle con una mano la punta de la barba y con la otra uno
de sus dedos, le sonreirá la fortuna. Parece que no es fácil conseguirlo, pero
vale la pena intentarlo.
Ciro Bianchi
Ross
Come ho visto crescere e svilupparsi il turismo a Cuba, contenuto in sintesi
Il
testo percorre, con una breve premessa su quello che era il turismo a Cuba ,
prima del 1959, quello che è diventato dopo la metà degli anni ’70 del secolo
scorso, considerando che nella decade del ’60 di turismo non se ne parlava
proprio per necessità contingenti del Paese.
Si
tratta di documentazioni e aneddoti in prima persona, oltre ad alcune altre
avute da chi è stato presente al momento vero e proprio dell’inizio dei viaggi di italiani,
primi in Europa, a visitare Cuba dopo l'avvento dell'era rivoluzionaria.
Un
percorso che va dagli anni dei primi “pionieri” con relativi disagi dovuti ai trasporti
aerei e interni, oltre che alle precarie situazioni di alloggio, al giorno
d’oggi dove il Paese si è messo in linea con moltissimi altri ed offre
alternative che fino a non molto tempo fa erano impensabili.
Si
conclude con la recente visita di Barack Obama all’Avana e le prospettive che
si possono aprire anche prima, ma
sopratutto dopo, dell’abolizione totale dell’embargo economico imposto dagli
Stati Uniti a Cuba che ha anche aspetti extra territoriali chiaramente contrari alle norme di Diritto Internazionale.
lunedì 11 aprile 2016
Ri - nascita del turismo a Cuba (visto da un italiano) - 3.000 candeline
Oggi ho registrato il "saggio" (si fa per dire), di cui al titolo, alla Società Cubana per i Diritti di Autore col numero di protocollo 1169-04-2016. Ho sfoderato un castigliano che nemmeno Cervantes...
In questi giorni sarò impegnato a fare giri di visite con relativo DVD, flash memory e qualche copia "casereccia" su carta, pertanto non sarò presentissimo, ma se non domani, per dopo c'è l'ultimo "Ciro Bianchi" per i suoi affezionati lettori.
Mi spiace non poter pubblicare il mio testo per insufficienza cronica di internet, spero invece di trovare qualche editore cubano o della Florida. Mai dire mai, diceva Bond, James, Bond.
P.S.: questo è il post n° 3.000 del blog, giusto per la statistica.
P.S.: questo è il post n° 3.000 del blog, giusto per la statistica.
Una professione dimenticata, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 3/4/16
Quando
lo scriba era bambino, il termine “chirrín” equivaleva a dar per conclusa
qualunque cosa: un gioco di bocce o una relazione di amicizia. Voleva dire: c’è
stato uno scivolone in terza base e
Chirrín! È finita la partita, o lei ha insistito che sua sorella la accompagnasse
e chirrin!, finita la passeggiata. Alcuni, per enfatizzare l’azione,
aggiungevano al chirrín un altro vocabolo: “chirrán” e quando veniva al caso
dicevano, per esempio: chirrín chirrán ed è finita; cirrín chirrán non ti amo più...come dice Juan Formell in una
delle sue gustose composizioni.
Il
vocabolo “chirrín” ha senza dubbio un’altra accezione. Lo scriba ignora fino a
che punto è un cubanismo. In verità non appare nel Nuevocatauro di Fernando Ortíz, pubblicato nel 1974 e che è il più
attualizzato e in quanto al tema chi scrive lo ha nella sua biblioteca.
Se in
Colombia chirringo è sinonimo di piccolo, a Cuba si chiamava chirrín una aereo
di poca capienza, qualcosa come un aeroplanino; e chirrinero era chi lo
occupava. Si trattava di aerei con un motore solo che spostavano passeggeri o merci
tra località interne dell’Isola dove non arrivava l’aviazione commerciale e che
servivano anche per la ricreazione.
L’informazione
me l’ha data l’amico e lettore Gabriel Valdés, un maestro in pensione che
risiede nella città della Florida di Wellington e che conserva a fior di pelle
le sue radici cubane, nonostante la sua lunga permanenza all’estero.
Conversavamo
in un ristorante di Pompano Beach mentre, tra grandi boccali di birra scura,
degustavamo un piatto tipicamente irlandese. Non per niente il pranzo occorse
li passato 17 marzo, Giorno di San Patrizio, patrono degli irlandesi, quando la
tradizione obbliga a mettersi qualcosa di verde addosso, a rischio di prendere
un pizzicotto e si preferisce la birra scura o verde.
Chirrines
– riferisce Gabriel con memoria invidiabile – erano gli aeroplanini di marca
Aeronca, Luscombe, Taylorcraft e naturalmente, Super Piper Cruiser, Stinson e
Cessna. Di questi ultimi, il Super Piper poteva trasportare due passeggeri più
il pilota, mentre gli altri contavano di quattro sedili compreso quello
dell’aviatore, sviluppavano una più velocità e potevano raggiungere una maggior
distanza senza rifornirsi di carburante.
Il
chirrín per eccellenza era il Piper J-3 per un solo passeggero. Questo
aeroplanino fabbricato negli U.S.A. misurava poco più di 35 piedi da punta a
punta mentre le ali, altri 23 di apertura; contava di 65 cavalli di forza e una
velocità di crocera di 75 miglia, anche se poteva raggiungere una velocità
massima maggiore. Il suo peso totale era di 1.200 libbre a pieno carico, pilota
compreso.
Gabriel
Valdés apporta un dettaglio interessante: i piloti di Cessna, Stinson e il Super
Piper avevano una categoria superiore a quelli del Piper j-3. Ma erano tutti
chirrineros e gli apparecchi erano chirrines.
Vivere dell’aria
“Chirrinero
era chiunque viveva, quasi, in un chirrín. E che dotato di una licenza di
aviatore civile (non tutti l’avevano in quei momenti) si guadagnava la vita
onestamente. Che viveva dell’aria. Non era tutta ironia, in realtà era una vita
avventurosa. I costi delle operazioni erano alti: caro il carburante, costosi i
pezzi di ricambio, carissimi i materiali di manutenzione e ricostruzione.
E
bisognava tenere i prezzi bassi. Ma si passavano i giorni in un clima quasi di
allegria, godendo di emozioni che giungevano dal dominio degli orizzonti, della
libertà di movimento e dal gusto intenso che mette al palato dell’uomo
l’avventura impossibile. E non tutto era romanzo,come diceva quel grande
aviatore francese, Antonio de Saint Exupéry, sotto quelle nuvole bianche e
belle ci puó aspettare l’eternità”, scrisse il chirrinero Raoul García nelle
memorie che dette a conoscere nel 1975.
Che
pista utilizzava? Di che torre si avvaleva? Aveva una radio a bordo per
comunicarsi?
Il
chirrinero operava su campi d’erba, più che sulle piste pavimentate degli
aeroporti. “Un sentiero pulito tra i campi di canna era una pista quasi perfetta”,
diceva García e subito chiariva che un chirrinero operava anche in un aeroporto
vero e proprio. “Esserlo era come una condizione spirituale. Una specie di
boemio moderno, a cui importava di più l’occasione di volare, la tazza di caffè
o la chiacchierata senza tempo più che i progetti di arricchimento.
L’importante era il cielo aperto; l’odore dei pascoli; lui solo sulle ali; il
cielo azzurro nel parabrezza; i cumuli benigni; la brezza muovendo i palmeti e
il pennacchio orgoglioso di fumo delle ciminiere degli zuccherifici, conversando
coi suoi vortici su vento e la sua direzione”.
Naturalmente
di radio non ce n’erano, nella maggior parte dei chirrines. Il chirrinero, come
il pescatore, presentiva la tormenta o la perturbazione. Quelli che l’avevano
la riservavano per comunicarsi con le torri di controllo degli aeroporti,
quando gli affari li portavano dove entravano e uscivano altri velivoli. Ma,
precisava García, “eravamo cavallette gialle, rosse o blu portando i nostri
carichi, i nostri passeggeri, i nostri entusiasmi per le aziende di raccolta di
canna ed enormi recinti di cavalli...”
Dicevo
che l’aviazione aveva la sua aria naturale in campagna, fra la gente della
savana e dei campi di canna. Mentre, nelle città, avvertiva indifferenza,
riguardo e timore, i contadini la ricevevano con meno paura e inibizioni, non
solo quando la usavano come mezzo di divertimento.
Giorni di passaggi
Giorni
di “passaggi” erano chiamate quelle giornate di festa, generalmente un sabato e
preferibilmente una domenica, sempre nel tempo di raccolta della canna, Si
arrivava a un accordo col padrone della terra che si sarebbe utilizzata come
campo d’aviazione e non mancava chi assumeva l’offerta gastronomica.
Non era
raro che si organizzasse una specie di fiera con giochi d’azzardo, tiro al
bersaglio e corse di cavalli. Il campo si riempiva di pubblico.
La voce
correva e la gente, a piedi, a cavallo o con un carretto, arrivava a volte da
luoghi lontani. L’aviatore portava carburante in bidoni da cinque galloni e
tramite un panno di camoscio filtrava il combustibile a misura che riforniva il
chirrín.
La
passeggiata con l’aeroplanino si faceva pagare un peso al minuto ed il tempo in
volo era minimo di tre minuti. La gente si illudeva di poter far cadere un
messaggio scritto sulla casa della madre, la fidanzata o l’innamorata.
Raoul
garcía ricordava nelle sue memorie:
“Volavamo
con bambini, donne impaurite che guardavano appena verso terra; ragazze vivaci
a cui si strappava l’illusione con la sfida alla grande monotonia dei giorni.
Volavamo
con uomini disinibiti e ostentosi che volevano mostrare alle persone lì riunite
che loro erano nati per l’eroismo senza timori e che chiedevano, a ogni costo
che gli facessimo il ‘salto mortale’. E via con noi a realizzare la classica
manovra del ‘looping’ o giro di campana. Pagavano con piacere, con fanfarroneria,
ma senza perdere il dettaglio di contare i pesos”.
Con tutto
ciò era una affare di centesimi che costrinse i chirrineros ad essere i
meccanici delle loro macchine. Le manutenzioni si facevano impagabili e di più
se si trattava di una rottura. Gli emolumenti dei meccanici avaneri risultavano
molto alti e d’altra parte era molto quello che se ne andava nel mangiare,
sigari e bicchieri di birra. I meccanici non tardarono a perdere la loro
clientela ebbene il chirrinero, con immaginazione e ingegno, apprese a riparare
il suo apparecchio.
Per San Ramón
Gli
aneddoti che Raoul García riscatta nel suo libro, sono molti e di diverse
sfaccettature. Giocosi, tristi, riflessivi...lo dimostra quanto segue.
Un
primo pomeriggio bollente di uno di quei giorni in cui non c’è niente da fare,
un uomo si avvicinó al chirrinero che si riparava dal sole sotto un’ala del
Piper e gli chiese il prezzo di una “corsa” a San Ramón, vicino a Viana. Erano
nelle vicinanze dello zuccherificio Resulta, nella regione centrale dell’Isola
e l’aviatore, dopo aver calcolato la distanza disse: dieci pesos.
-
Caspita! È carissimo! Con dieci pesos vado in automobilina a Santa Clara.
García
gli spiegò che un aeroplanino non era un’automobilina, né un carro di buoi che
si aggiustava con un pezzo di filo di ferro. Il gallone di carburante costava
50 centesimi e si doveva ricorrere al pegno ogni volta che si rompeva un pezzo.
Il
nuovo arrivato lo guardò con simpatia. Scese dal suo cavallo, lo legò dove
potette ed estrasse una borsa di carta dalle tasche di pelle della sella. Porse
all’aviatore un foglio spiegazzato e un mozzicone di matita. Supponeva che il
chirrinero avesse una calligrafia migliore della sua e gli chiese che scrivesse
il poema che gli avrebbe dettato. Poema che assieme alla borsa di carta piena
di dolci avrebbe fatto cadere quando il velivolo sorvolasse la casa della sua
fidanzata. Passati gli anni, García ricordava solo una strofa di quel poema.
Diceva: “Martina, i dolci sono/costumi dell’amore che impera,/ma invece di
quelli vorrei/ buttarti il mio cuore”.
L’uomo,
non senza sforzo, si accomodó sul sedile posteriore dl Piper e non gli piacque
dover mettersi il cinturone di sicurezza che chiamò cimice, ma lo fece.
L’aviatore commentò che giunto il momento, sarebbe stato lui a lanciare i dolci
e il poema. Iniettò carburante al motore
e da dietro, dalla cabina, con una mano sull’acceleratore e con la
destra agganciata alla punta dell’elica, dette una spinta e avvió l’apparecchio,
Era una tecnica nuova che permetteva controllare la potenza senza pericolo che
l’aeroplanino schizzasse privo di pilota, come era successo a molti.
La casa
ha un mulino ad acqua, diceva l’uomo e descriveva una costruzione che si
differenziava leggermente dalle altre della zona. Volavano a 600 piedi sulla
torrida campagna quando il chirrinero credette di avvertire un interesse
inusitato in una delle case. Una donna, vestita di rosso, si affacciava a un
portone e attorno a lei correvano bambini e c’erano altre donne. Senza
commentare niente al suo passeggero, fece una picchiata sul luogo e gli passó a
meno di 200 piedi. Sentì l’agitazione alle sue spalle. L’uomo aveva
riconosciuto il suo adorato tormento e dava manate al pilota gridando contemporaneamente:
È li! È lì. Il contadino, nervoso, sporgeva le due mani dal finestrino
prorompendo con urla. Il pilota virò per affrontare il vento mentre riduceva il
motore. Il passeggero affondò nel sedile tenendosi il cappello. L’aviatore leanciò
il pacchetto coi dolci e il poema, tirò la cloche e dette motore per tornare al
luogo di partenza.
Una
volta lì, il passeggero cercò ancora nelle sue tasche per riunire in biglietti
da uno, i dieci pesos che doveva all’aviatore. Sudava copiosamente e il pomo di
Adamo gli saliva e scendeva con sete da gallo secco. García volle sapere di più
sul suo passeggero e gli chiese da dove veniva. Impacciato, con un mezzo
sorriso, rispose:
-Io
vengo da San Ramón.
-E
adesso dove va?
-E dove
devo andare? A prendere la giumenta per andare a San Ramón.
Ciro
Bianchi Ross
2 de Abril
del 2016 22:39:41 CDT
Cuando el
escribidor era niño, el término «chirrín» equivalía a dar por concluido un
asunto, cualquier cosa: un juego de bolas o una relación amistosa. Podía
decirse: hubo un roletazo por tercera y ¡chirrín!, acabó el juego, o ella
insistió en que su hermana la acompañara y ¡chirrín!, terminó el paseo.
Algunos, para enfatizar la acción añadían al chirrín otro vocablo: chirrán, y
llegado el caso expresaban, por ejemplo: chirrín chirrán, que ya se acabó;
chirrín chirrán, que ya no te quiero…, como lo dice Juan Formell en una de sus
gustadas composiciones.
El vocablo
«chirrín» tiene, sin embargo, otra acepción. Desconoce el escribidor hasta qué
punto es un cubanismo. En verdad no aparece en el Nuevocatauro, de Fernando
Ortiz, publicado en 1974, que es lo más actualizado que, en cuanto al tema,
tiene quien esto escribe en su biblioteca.
Si
chirringo es en Colombia sinónimo de chiquito, chirrín se llamaba en Cuba al
avión de muy pequeño porte, algo así como una avioneta; y chirrinero era quien
lo tripulaba. Se trataba de aparatos de un solo motor que movían pasaje o carga
entre puntos del interior de la Isla donde no tocaba la aviación comercial, y
que servían asimismo para la recreación.
La
información me la ofreció el amigo y lector Gabriel Valdés, un maestro jubilado
que reside en la ciudad floridana de Wellington y que mantiene a flor de piel
sus raíces cubanas, pese a la larga permanencia en el exterior. Conversamos en
un restaurante de Pompano Beach, mientras entre grandes vasos de cerveza negra
degustábamos una comida típicamente irlandesa. No en balde el almuerzo
transcurrió el pasado 17 de marzo, Día de San Patricio, patrón de los
irlandeses, cuando la tradición obliga a lucir algo verde en el atuendo, so
pena de merecer un pellizco, y se prefiere la cerveza negra o verde.
Chirrines
—refiere Gabriel con envidiable memoria— eran las avionetas marca Aeronca,
Luscombe, Taylorcraft y, por supuesto, Piper Súper Cruiser, Stinson y Cessna.
De estos últimos, el Piper Súper Cruiser podía llevar dos pasajeros más el
piloto, en tanto que los dos restantes contaban con cuatro asientos, incluido
el del aviador, desplegaban una velocidad mayor y podían alcanzar distancias
mayores sin reabastecerse de combustible.
El chirrín
por excelencia era el Piper J-3, para un pasajero solitario. Esa avioneta
fabricada en EE.UU. medía algo más de 35 pies de punta a punta de las alas y
otros 23 de fuselaje; contaba con 65 caballos de fuerza y cruzaba a 75 millas,
aunque podía alcanzar una velocidad máxima mayor. Su peso total era de 1 200
libras, cifra que incluía el peso del piloto, el pasajero y el combustible.
Un detalle
interesante aporta Gabriel Valdés: los pilotos del Cessna, el Stinson y el
Piper Súper tenían más categoría que los del Piper J-3. Pero todos seguían
siendo chirrineros y todos los aparatos eran chirrines.
Vivir del aire
«Chirrinero
era todo aquel que casi vivía en un chirrín. Y que dotado de una licencia de
aviador civil (no todos la tenían en algún momento) se buscaba la vida
honradamente. Que vivía del aire. No todo era ironía, pues en verdad era un
vivir aventurado. Los costos de operación eran altos: cara la gasolina,
costosas las piezas de recambio, carísimos los materiales de mantenimiento y
reconstrucción.
Y había
que mantener los precios bajos. Pero se pasaban los días en un clima casi de
alegría, disfrutando emociones que venían del dominio de los horizontes, de la
libertad de movimiento y del regusto que pone en el paladar del hombre la
aventura posible. Y no todo era romance, pues como decía aquel gran aviador
francés, Antonio de Saint Exupéry, debajo de esas nubes blancas y bellas nos
puede esperar la eternidad», escribió el chirrinero Raoul García en las
memorias que dio a conocer en 1975.
¿Qué
pistas utilizaba? ¿De qué torres de control se valía? ¿Tenía a bordo un radio
para comunicarse?
El
chirrinero operaba sobre campos de yerba, más que sobre las pistas pavimentadas
de los aeropuertos. «Una guardarraya limpia entre los cañaverales era una pista
casi perfecta», decía García y aclaraba enseguida que en aeropuertos
propiamente dichos también operaba el chirrinero. «Serlo era como una condición
espiritual. Una clase de bohemia modernizada, en que importaba más la ocasión
de volar, la taza de café o la charla sin tiempo que los planes de
enriquecimiento. Lo importante era el cielo abierto; el olor a pastizales; el
solo sobre las alas; el cielo azul en el parabrisas; los cúmulos benignos; la
brisa moviendo los palmares y el penacho orgulloso del humo de las chimeneas de
los centrales, conversando con sus remolinos sobre el viento y su rumbo».
Radio, por
supuesto, no había en la mayor parte de los chirrines. El chirrinero, al igual
que los pescadores, presentía la tormenta o el frente frío. Los que lo tenían,
lo reservaban para comunicarse con las torres de control de los aeropuertos,
cuando el negocio los llevaba a terminales en las que entraban y salían otras
naves. Pero, precisaba García, «éramos saltamontes amarillos, rojos o azules
llevando nuestros encargos, nuestros pasajeros, nuestros entusiasmos por
bateyes, campos de caña y enormes potreros…».
Expresaba
que la aviación tenía su aire natural en el campo, entre la gente de la sabana
y de los cañaverales. Mientras en las ciudades advertía indiferencia, recelo y
temor, los campesinos la asumían con menos miedo e inhibiciones, no solo cuando
la usaban por necesidad, sino también cuando, en determinados fines de semana,
la utilizaban como un medio de diversión.
Días de boteo
Días de
«boteo» llamaban a esas jornadas de fiesta, por lo general un sábado y
preferentemente un domingo, y siempre en tiempos de zafra. Se llegaba a un
arreglo con el dueño de la tierra que se utilizaría como campo de aviación y no
faltaba quien asumiera la oferta gastronómica.
No era
raro que se organizara una suerte de feria con juegos de azar, tiros al blanco
y carreras de caballo. El campo se colmaba de público.
Se corría
la voz y la gente, a pie, a caballo o en carreta, llegaba a veces de lugares
distantes. El aviador llevaba la gasolina en latas de cinco galones y a través
de un paño de gamuza filtraba el combustible a medida que abastecía el chirrín.
El paseo
en la avioneta se cobraba a peso el minuto y era de tres minutos el mínimo de
tiempo en el aire. La gente se ilusionaba con la posibilidad de dejar caer un
mensaje escrito sobre la casa de la madre, la novia o la enamorada.
Recordaba
Raoul García en sus memorias:
«Volábamos
niños, mujeres amedrentadas que apenas miraban hacia la tierra; muchachas
atrevidas que se les arrebataba la ilusión con el desafío a la gran monotonía
de los días. Volábamos a hombres desembarazados y presumidos que querían
demostrarle al personal allí congregado que ellos habían nacido para la
heroicidad sin temblores, y que pedían, a cualquier costo, que le diéramos “el
salto mortal”. Y allá se iban con nosotros a realizar la clásica maniobra del
“looping”
o vuelta
de campana. Y pagaban con gusto, con fanfarronería, pero sin perder el detalle
del cuento de los pesos».
Con todo,
era un negocio de centavos que obligó a los chirrineros a ser los mecánicos de
sus máquinas. Los mantenimientos se hacían incosteables, y más cuando se
trataba de una rotura. Resultaban muy altos los emolumentos de los mecánicos
habaneros y era mucho lo que por otra parte se iba en comidas, tabacos y
vasitos de cerveza. No demoró el mecánico en perder su clientela, pues el
chirrinero, con imaginación e ingenio, aprendió a componer su aparato.
Pa’ San Ramón
Las
anécdotas que Raoul García rescata en su libro son muchas y de muy diverso
matiz. Jocosas, tristes, reflexivas… Va de muestra la que sigue.
Un
mediodía hirviente de uno de esos días en que no había nada que hacer, un hombre
se acercó al chirrinero que se resguardaba del sol bajo una de las alas del
Piper y le preguntó por el precio de una «carrera» a San Ramón, cerca de Viana.
Estaban en las inmediaciones del central Resulta, en la región central de la
Isla, y el aviador, luego de calcular la distancia, dijo: diez pesos.
—¡Caray,
eso está muy caro! Con diez pesos me voy en fotingo a Santa Clara.
Explicó
García que una avioneta no era un fotingo, ni una carreta de bueyes que se
arreglaba con un pedazo de alambre de cerca. El galón de gasolina costaba 50
centavos y debía empeñarse cada vez que se rompía una pieza.
El recién
llegado lo miró con simpatía. Descendió de su cabalgadura, la amarró donde pudo
y sacó una bolsa de papel de una de las alforzas de la montura. Extendió al
aviador un pedazo de papel de estraza y un mocho de lápiz. Suponía que el
chirrinero tenía mejor letra que la suya y le pidió que escribiera el poema que
le dictaría. Poema que junto con la bolsa de papel llena de dulces dejaría caer
cuando la nave sobrevolara la casa de su novia. Pasados los años, García solo
recordaba una estrofa de aquel poema. Decía: «Martina, los dulces son/ prenda
del amor que impera;/ pero en vez de ellos quisiera/ tirarte mi corazón».
El hombre,
no sin esfuerzo, se acomodó en el asiento trasero del Piper y le desagradó
tener que ajustarse el cinturón de seguridad, que llamó cincha, pero lo hizo.
El aviador comentó que, llegado el momento, sería él quien lanzaría los dulces
y el poema. Cebó el motor y desde atrás, desde la cabina, con una mano en el
acelerador y con la derecha agarrada a la punta de la hélice, le dio un tirón y
arrancó el aparato. Era una técnica novedosa que permitía controlar la potencia
sin el peligro de que la avioneta se «disparase» sin piloto, como le había ocurrido
a muchos.
La casa
tiene un molino de agua, decía el hombre y describía una vivienda que en poco
se diferenciaba de las otras de la zona. Volaban a 600 pies sobre la tórrida
campiña cuando el chirrinero creyó advertir un interés inusitado en una de las
viviendas. Una mujer vestida de rojo se asomaba a un portón y a su alrededor
corrían niños y otras mujeres. Sin comentar nada con su pasajero, «picó» hacia
el lugar y le pasó a menos de 200 pies. Sintió el alborozo a sus espaldas. El
hombre había reconocido a su adorado tormento y daba manotazos al piloto al
tiempo que gritaba: ¡Es ahí! ¡Es ahí! El guajiro, nervioso, sacaba las dos
manos por la ventanilla y prorrumpía en grandes gritos. El piloto giró para
enfrentar lo que hubiese de viento mientras cortaba el motor. El pasajero se
hundió en el asiento agarrándose el sombrero. El aviador lanzó el cartucho con
los dulces y el poema y tiró de la palanca y «dio» motor para regresar al lugar
de donde partieron.
Ya allí,
el pasajero rebuscó en sus bolsillo hasta juntar en billetes de a uno los diez
pesos que debía al aviador. Sudaba copiosamente y la nuez le bajaba y subía con
sed de gallo seco. Quiso García saber más sobre su pasajero y preguntó de dónde
venía. Cohibido, con una media sonrisa, respondió:
—Yo vine
de San Ramón.
—Y ahora,
¿a dónde va?
—¿Pues a
dónde voy a ir? Cogeré la yegua pa’ San Ramón.
Ciro
Bianchi Ross
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