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lunedì 11 aprile 2016

Una professione dimenticata, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 3/4/16 

Quando lo scriba era bambino, il termine “chirrín” equivaleva a dar per conclusa qualunque cosa: un gioco di bocce o una relazione di amicizia. Voleva dire: c’è stato uno scivolone in terza base  e Chirrín! È finita la partita, o lei ha insistito che sua sorella la accompagnasse e chirrin!, finita la passeggiata. Alcuni, per enfatizzare l’azione, aggiungevano al chirrín un altro vocabolo: “chirrán” e quando veniva al caso dicevano, per esempio: chirrín chirrán ed è finita; cirrín chirrán  non ti amo più...come dice Juan Formell in una delle sue gustose composizioni.
Il vocabolo “chirrín” ha senza dubbio un’altra accezione. Lo scriba ignora fino a che punto è un cubanismo. In verità non appare nel Nuevocatauro di Fernando Ortíz, pubblicato nel 1974 e che è il più attualizzato e in quanto al tema chi scrive lo ha nella sua biblioteca.
Se in Colombia chirringo è sinonimo di piccolo, a Cuba si chiamava chirrín una aereo di poca capienza, qualcosa come un aeroplanino; e chirrinero era chi lo occupava. Si trattava di aerei con un motore solo che spostavano passeggeri o merci tra località interne dell’Isola dove non arrivava l’aviazione commerciale e che servivano anche per la ricreazione.
L’informazione me l’ha data l’amico e lettore Gabriel Valdés, un maestro in pensione che risiede nella città della Florida di Wellington e che conserva a fior di pelle le sue radici cubane, nonostante la sua lunga permanenza all’estero.
Conversavamo in un ristorante di Pompano Beach mentre, tra grandi boccali di birra scura, degustavamo un piatto tipicamente irlandese. Non per niente il pranzo occorse li passato 17 marzo, Giorno di San Patrizio, patrono degli irlandesi, quando la tradizione obbliga a mettersi qualcosa di verde addosso, a rischio di prendere un pizzicotto e si preferisce la birra scura o verde.
Chirrines – riferisce Gabriel con memoria invidiabile – erano gli aeroplanini di marca Aeronca, Luscombe, Taylorcraft e naturalmente, Super Piper Cruiser, Stinson e Cessna. Di questi ultimi, il Super Piper poteva trasportare due passeggeri più il pilota, mentre gli altri contavano di quattro sedili compreso quello dell’aviatore, sviluppavano una più velocità e potevano raggiungere una maggior distanza senza rifornirsi di carburante.
Il chirrín per eccellenza era il Piper J-3 per un solo passeggero. Questo aeroplanino fabbricato negli U.S.A. misurava poco più di 35 piedi da punta a punta mentre le ali, altri 23 di apertura; contava di 65 cavalli di forza e una velocità di crocera di 75 miglia, anche se poteva raggiungere una velocità massima maggiore. Il suo peso totale era di 1.200 libbre a pieno carico, pilota compreso.
Gabriel Valdés apporta un dettaglio interessante: i piloti di Cessna, Stinson e il Super Piper avevano una categoria superiore a quelli del Piper j-3. Ma erano tutti chirrineros e gli apparecchi erano chirrines.
Vivere dell’aria
“Chirrinero era chiunque viveva, quasi, in un chirrín. E che dotato di una licenza di aviatore civile (non tutti l’avevano in quei momenti) si guadagnava la vita onestamente. Che viveva dell’aria. Non era tutta ironia, in realtà era una vita avventurosa. I costi delle operazioni erano alti: caro il carburante, costosi i pezzi di ricambio, carissimi i materiali di manutenzione e ricostruzione.
E bisognava tenere i prezzi bassi. Ma si passavano i giorni in un clima quasi di allegria, godendo di emozioni che giungevano dal dominio degli orizzonti, della libertà di movimento e dal gusto intenso che mette al palato dell’uomo l’avventura impossibile. E non tutto era romanzo,come diceva quel grande aviatore francese, Antonio de Saint Exupéry, sotto quelle nuvole bianche e belle ci puó aspettare l’eternità”, scrisse il chirrinero Raoul García nelle memorie che dette a conoscere nel 1975.
Che pista utilizzava? Di che torre si avvaleva? Aveva una radio a bordo per comunicarsi?
Il chirrinero operava su campi d’erba, più che sulle piste pavimentate degli aeroporti. “Un sentiero pulito tra i campi di canna era una pista quasi perfetta”, diceva García e subito chiariva che un chirrinero operava anche in un aeroporto vero e proprio. “Esserlo era come una condizione spirituale. Una specie di boemio moderno, a cui importava di più l’occasione di volare, la tazza di caffè o la chiacchierata senza tempo più che i progetti di arricchimento. L’importante era il cielo aperto; l’odore dei pascoli; lui solo sulle ali; il cielo azzurro nel parabrezza; i cumuli benigni; la brezza muovendo i palmeti e il pennacchio orgoglioso di fumo delle ciminiere degli zuccherifici, conversando coi suoi vortici su vento e la sua direzione”.
Naturalmente di radio non ce n’erano, nella maggior parte dei chirrines. Il chirrinero, come il pescatore, presentiva la tormenta o la perturbazione. Quelli che l’avevano la riservavano per comunicarsi con le torri di controllo degli aeroporti, quando gli affari li portavano dove entravano e uscivano altri velivoli. Ma, precisava García, “eravamo cavallette gialle, rosse o blu portando i nostri carichi, i nostri passeggeri, i nostri entusiasmi per le aziende di raccolta di canna ed enormi recinti di cavalli...”
Dicevo che l’aviazione aveva la sua aria naturale in campagna, fra la gente della savana e dei campi di canna. Mentre, nelle città, avvertiva indifferenza, riguardo e timore, i contadini la ricevevano con meno paura e inibizioni, non solo quando la usavano come mezzo di divertimento.
Giorni di passaggi
Giorni di “passaggi” erano chiamate quelle giornate di festa, generalmente un sabato e preferibilmente una domenica, sempre nel tempo di raccolta della canna, Si arrivava a un accordo col padrone della terra che si sarebbe utilizzata come campo d’aviazione e non mancava chi assumeva l’offerta gastronomica.
Non era raro che si organizzasse una specie di fiera con giochi d’azzardo, tiro al bersaglio e corse di cavalli. Il campo si riempiva di pubblico.
La voce correva e la gente, a piedi, a cavallo o con un carretto, arrivava a volte da luoghi lontani. L’aviatore portava carburante in bidoni da cinque galloni e tramite un panno di camoscio filtrava il combustibile a misura che riforniva il chirrín.
La passeggiata con l’aeroplanino si faceva pagare un peso al minuto ed il tempo in volo era minimo di tre minuti. La gente si illudeva di poter far cadere un messaggio scritto sulla casa della madre, la fidanzata o l’innamorata.
Raoul garcía ricordava nelle sue memorie:
“Volavamo con bambini, donne impaurite che guardavano appena verso terra; ragazze vivaci a cui si strappava l’illusione con la sfida alla grande monotonia dei giorni.
Volavamo con uomini disinibiti e ostentosi che volevano mostrare alle persone lì riunite che loro erano nati per l’eroismo senza timori e che chiedevano, a ogni costo che gli facessimo il ‘salto mortale’. E via con noi a realizzare la classica manovra del ‘looping’ o giro di campana. Pagavano con piacere, con fanfarroneria, ma senza perdere il dettaglio di contare i pesos”.
Con tutto ciò era una affare di centesimi che costrinse i chirrineros ad essere i meccanici delle loro macchine. Le manutenzioni si facevano impagabili e di più se si trattava di una rottura. Gli emolumenti dei meccanici avaneri risultavano molto alti e d’altra parte era molto quello che se ne andava nel mangiare, sigari e bicchieri di birra. I meccanici non tardarono a perdere la loro clientela ebbene il chirrinero, con immaginazione e ingegno, apprese a riparare il suo apparecchio.
Per San Ramón
Gli aneddoti che Raoul García riscatta nel suo libro, sono molti e di diverse sfaccettature. Giocosi, tristi, riflessivi...lo dimostra quanto segue.
Un primo pomeriggio bollente di uno di quei giorni in cui non c’è niente da fare, un uomo si avvicinó al chirrinero che si riparava dal sole sotto un’ala del Piper e gli chiese il prezzo di una “corsa” a San Ramón, vicino a Viana. Erano nelle vicinanze dello zuccherificio Resulta, nella regione centrale dell’Isola e l’aviatore, dopo aver calcolato la distanza disse: dieci pesos.
- Caspita! È carissimo! Con dieci pesos vado in automobilina a Santa Clara.
García gli spiegò che un aeroplanino non era un’automobilina, né un carro di buoi che si aggiustava con un pezzo di filo di ferro. Il gallone di carburante costava 50 centesimi e si doveva ricorrere al pegno ogni volta che si rompeva un pezzo.
Il nuovo arrivato lo guardò con simpatia. Scese dal suo cavallo, lo legò dove potette ed estrasse una borsa di carta dalle tasche di pelle della sella. Porse all’aviatore un foglio spiegazzato e un mozzicone di matita. Supponeva che il chirrinero avesse una calligrafia migliore della sua e gli chiese che scrivesse il poema che gli avrebbe dettato. Poema che assieme alla borsa di carta piena di dolci avrebbe fatto cadere quando il velivolo sorvolasse la casa della sua fidanzata. Passati gli anni, García ricordava solo una strofa di quel poema. Diceva: “Martina, i dolci sono/costumi dell’amore che impera,/ma invece di quelli vorrei/ buttarti il mio cuore”.
L’uomo, non senza sforzo, si accomodó sul sedile posteriore dl Piper e non gli piacque dover mettersi il cinturone di sicurezza che chiamò cimice, ma lo fece. L’aviatore commentò che giunto il momento, sarebbe stato lui a lanciare i dolci e il poema. Iniettò carburante al motore  e da dietro, dalla cabina, con una mano sull’acceleratore e con la destra agganciata alla punta dell’elica, dette una spinta e avvió l’apparecchio, Era una tecnica nuova che permetteva controllare la potenza senza pericolo che l’aeroplanino schizzasse privo di pilota, come era successo a molti.
La casa ha un mulino ad acqua, diceva l’uomo e descriveva una costruzione che si differenziava leggermente dalle altre della zona. Volavano a 600 piedi sulla torrida campagna quando il chirrinero credette di avvertire un interesse inusitato in una delle case. Una donna, vestita di rosso, si affacciava a un portone e attorno a lei correvano bambini e c’erano altre donne. Senza commentare niente al suo passeggero, fece una picchiata sul luogo e gli passó a meno di 200 piedi. Sentì l’agitazione alle sue spalle. L’uomo aveva riconosciuto il suo adorato tormento e dava manate al pilota gridando contemporaneamente: È li! È lì. Il contadino, nervoso, sporgeva le due mani dal finestrino prorompendo con urla. Il pilota virò per affrontare il vento mentre riduceva il motore. Il passeggero affondò nel sedile tenendosi il cappello. L’aviatore leanciò il pacchetto coi dolci e il poema, tirò la cloche e dette motore per tornare al luogo di partenza.
Una volta lì, il passeggero cercò ancora nelle sue tasche per riunire in biglietti da uno, i dieci pesos che doveva all’aviatore. Sudava copiosamente e il pomo di Adamo gli saliva e scendeva con sete da gallo secco. García volle sapere di più sul suo passeggero e gli chiese da dove veniva. Impacciato, con un mezzo sorriso, rispose:
-Io vengo da San Ramón.
-E adesso dove va?
-E dove devo andare? A prendere la giumenta per andare a San Ramón.



 Una profesión olvidada

Ciro Bianchi Ross
2 de Abril del 2016 22:39:41 CDT

Cuando el escribidor era niño, el término «chirrín» equivalía a dar por concluido un asunto, cualquier cosa: un juego de bolas o una relación amistosa. Podía decirse: hubo un roletazo por tercera y ¡chirrín!, acabó el juego, o ella insistió en que su hermana la acompañara y ¡chirrín!, terminó el paseo. Algunos, para enfatizar la acción añadían al chirrín otro vocablo: chirrán, y llegado el caso expresaban, por ejemplo: chirrín chirrán, que ya se acabó; chirrín chirrán, que ya no te quiero…, como lo dice Juan Formell en una de sus gustadas composiciones.
El vocablo «chirrín» tiene, sin embargo, otra acepción. Desconoce el escribidor hasta qué punto es un cubanismo. En verdad no aparece en el Nuevocatauro, de Fernando Ortiz, publicado en 1974, que es lo más actualizado que, en cuanto al tema, tiene quien esto escribe en su biblioteca.
Si chirringo es en Colombia sinónimo de chiquito, chirrín se llamaba en Cuba al avión de muy pequeño porte, algo así como una avioneta; y chirrinero era quien lo tripulaba. Se trataba de aparatos de un solo motor que movían pasaje o carga entre puntos del interior de la Isla donde no tocaba la aviación comercial, y que servían asimismo para la recreación.
La información me la ofreció el amigo y lector Gabriel Valdés, un maestro jubilado que reside en la ciudad floridana de Wellington y que mantiene a flor de piel sus raíces cubanas, pese a la larga permanencia en el exterior. Conversamos en un restaurante de Pompano Beach, mientras entre grandes vasos de cerveza negra degustábamos una comida típicamente irlandesa. No en balde el almuerzo transcurrió el pasado 17 de marzo, Día de San Patricio, patrón de los irlandeses, cuando la tradición obliga a lucir algo verde en el atuendo, so pena de merecer un pellizco, y se prefiere la cerveza negra o verde.
Chirrines —refiere Gabriel con envidiable memoria— eran las avionetas marca Aeronca, Luscombe, Taylorcraft y, por supuesto, Piper Súper Cruiser, Stinson y Cessna. De estos últimos, el Piper Súper Cruiser podía llevar dos pasajeros más el piloto, en tanto que los dos restantes contaban con cuatro asientos, incluido el del aviador, desplegaban una velocidad mayor y podían alcanzar distancias mayores sin reabastecerse de combustible.
El chirrín por excelencia era el Piper J-3, para un pasajero solitario. Esa avioneta fabricada en EE.UU. medía algo más de 35 pies de punta a punta de las alas y otros 23 de fuselaje; contaba con 65 caballos de fuerza y cruzaba a 75 millas, aunque podía alcanzar una velocidad máxima mayor. Su peso total era de 1 200 libras, cifra que incluía el peso del piloto, el pasajero y el combustible.
Un detalle interesante aporta Gabriel Valdés: los pilotos del Cessna, el Stinson y el Piper Súper tenían más categoría que los del Piper J-3. Pero todos seguían siendo chirrineros y todos los aparatos eran chirrines.

Vivir del aire

«Chirrinero era todo aquel que casi vivía en un chirrín. Y que dotado de una licencia de aviador civil (no todos la tenían en algún momento) se buscaba la vida honradamente. Que vivía del aire. No todo era ironía, pues en verdad era un vivir aventurado. Los costos de operación eran altos: cara la gasolina, costosas las piezas de recambio, carísimos los materiales de mantenimiento y reconstrucción.
Y había que mantener los precios bajos. Pero se pasaban los días en un clima casi de alegría, disfrutando emociones que venían del dominio de los horizontes, de la libertad de movimiento y del regusto que pone en el paladar del hombre la aventura posible. Y no todo era romance, pues como decía aquel gran aviador francés, Antonio de Saint Exupéry, debajo de esas nubes blancas y bellas nos puede esperar la eternidad», escribió el chirrinero Raoul García en las memorias que dio a conocer en 1975.
¿Qué pistas utilizaba? ¿De qué torres de control se valía? ¿Tenía a bordo un radio para comunicarse?
El chirrinero operaba sobre campos de yerba, más que sobre las pistas pavimentadas de los aeropuertos. «Una guardarraya limpia entre los cañaverales era una pista casi perfecta», decía García y aclaraba enseguida que en aeropuertos propiamente dichos también operaba el chirrinero. «Serlo era como una condición espiritual. Una clase de bohemia modernizada, en que importaba más la ocasión de volar, la taza de café o la charla sin tiempo que los planes de enriquecimiento. Lo importante era el cielo abierto; el olor a pastizales; el solo sobre las alas; el cielo azul en el parabrisas; los cúmulos benignos; la brisa moviendo los palmares y el penacho orgulloso del humo de las chimeneas de los centrales, conversando con sus remolinos sobre el viento y su rumbo».
Radio, por supuesto, no había en la mayor parte de los chirrines. El chirrinero, al igual que los pescadores, presentía la tormenta o el frente frío. Los que lo tenían, lo reservaban para comunicarse con las torres de control de los aeropuertos, cuando el negocio los llevaba a terminales en las que entraban y salían otras naves. Pero, precisaba García, «éramos saltamontes amarillos, rojos o azules llevando nuestros encargos, nuestros pasajeros, nuestros entusiasmos por bateyes, campos de caña y enormes potreros…».
Expresaba que la aviación tenía su aire natural en el campo, entre la gente de la sabana y de los cañaverales. Mientras en las ciudades advertía indiferencia, recelo y temor, los campesinos la asumían con menos miedo e inhibiciones, no solo cuando la usaban por necesidad, sino también cuando, en determinados fines de semana, la utilizaban como un medio de diversión.


Días de boteo

Días de «boteo» llamaban a esas jornadas de fiesta, por lo general un sábado y preferentemente un domingo, y siempre en tiempos de zafra. Se llegaba a un arreglo con el dueño de la tierra que se utilizaría como campo de aviación y no faltaba quien asumiera la oferta gastronómica.
No era raro que se organizara una suerte de feria con juegos de azar, tiros al blanco y carreras de caballo. El campo se colmaba de público.
Se corría la voz y la gente, a pie, a caballo o en carreta, llegaba a veces de lugares distantes. El aviador llevaba la gasolina en latas de cinco galones y a través de un paño de gamuza filtraba el combustible a medida que abastecía el chirrín.
El paseo en la avioneta se cobraba a peso el minuto y era de tres minutos el mínimo de tiempo en el aire. La gente se ilusionaba con la posibilidad de dejar caer un mensaje escrito sobre la casa de la madre, la novia o la enamorada.
Recordaba Raoul García en sus memorias:
«Volábamos niños, mujeres amedrentadas que apenas miraban hacia la tierra; muchachas atrevidas que se les arrebataba la ilusión con el desafío a la gran monotonía de los días. Volábamos a hombres desembarazados y presumidos que querían demostrarle al personal allí congregado que ellos habían nacido para la heroicidad sin temblores, y que pedían, a cualquier costo, que le diéramos “el salto mortal”. Y allá se iban con nosotros a realizar la clásica maniobra del “looping”
o vuelta de campana. Y pagaban con gusto, con fanfarronería, pero sin perder el detalle del cuento de los pesos».
Con todo, era un negocio de centavos que obligó a los chirrineros a ser los mecánicos de sus máquinas. Los mantenimientos se hacían incosteables, y más cuando se trataba de una rotura. Resultaban muy altos los emolumentos de los mecánicos habaneros y era mucho lo que por otra parte se iba en comidas, tabacos y vasitos de cerveza. No demoró el mecánico en perder su clientela, pues el chirrinero, con imaginación e ingenio, aprendió a componer su aparato.

Pa’ San Ramón

Las anécdotas que Raoul García rescata en su libro son muchas y de muy diverso matiz. Jocosas, tristes, reflexivas… Va de muestra la que sigue.
Un mediodía hirviente de uno de esos días en que no había nada que hacer, un hombre se acercó al chirrinero que se resguardaba del sol bajo una de las alas del Piper y le preguntó por el precio de una «carrera» a San Ramón, cerca de Viana. Estaban en las inmediaciones del central Resulta, en la región central de la Isla, y el aviador, luego de calcular la distancia, dijo: diez pesos.
—¡Caray, eso está muy caro! Con diez pesos me voy en fotingo a Santa Clara.
Explicó García que una avioneta no era un fotingo, ni una carreta de bueyes que se arreglaba con un pedazo de alambre de cerca. El galón de gasolina costaba 50 centavos y debía empeñarse cada vez que se rompía una pieza.
El recién llegado lo miró con simpatía. Descendió de su cabalgadura, la amarró donde pudo y sacó una bolsa de papel de una de las alforzas de la montura. Extendió al aviador un pedazo de papel de estraza y un mocho de lápiz. Suponía que el chirrinero tenía mejor letra que la suya y le pidió que escribiera el poema que le dictaría. Poema que junto con la bolsa de papel llena de dulces dejaría caer cuando la nave sobrevolara la casa de su novia. Pasados los años, García solo recordaba una estrofa de aquel poema. Decía: «Martina, los dulces son/ prenda del amor que impera;/ pero en vez de ellos quisiera/ tirarte mi corazón».
El hombre, no sin esfuerzo, se acomodó en el asiento trasero del Piper y le desagradó tener que ajustarse el cinturón de seguridad, que llamó cincha, pero lo hizo. El aviador comentó que, llegado el momento, sería él quien lanzaría los dulces y el poema. Cebó el motor y desde atrás, desde la cabina, con una mano en el acelerador y con la derecha agarrada a la punta de la hélice, le dio un tirón y arrancó el aparato. Era una técnica novedosa que permitía controlar la potencia sin el peligro de que la avioneta se «disparase» sin piloto, como le había ocurrido a muchos.
La casa tiene un molino de agua, decía el hombre y describía una vivienda que en poco se diferenciaba de las otras de la zona. Volaban a 600 pies sobre la tórrida campiña cuando el chirrinero creyó advertir un interés inusitado en una de las viviendas. Una mujer vestida de rojo se asomaba a un portón y a su alrededor corrían niños y otras mujeres. Sin comentar nada con su pasajero, «picó» hacia el lugar y le pasó a menos de 200 pies. Sintió el alborozo a sus espaldas. El hombre había reconocido a su adorado tormento y daba manotazos al piloto al tiempo que gritaba: ¡Es ahí! ¡Es ahí! El guajiro, nervioso, sacaba las dos manos por la ventanilla y prorrumpía en grandes gritos. El piloto giró para enfrentar lo que hubiese de viento mientras cortaba el motor. El pasajero se hundió en el asiento agarrándose el sombrero. El aviador lanzó el cartucho con los dulces y el poema y tiró de la palanca y «dio» motor para regresar al lugar de donde partieron.
Ya allí, el pasajero rebuscó en sus bolsillo hasta juntar en billetes de a uno los diez pesos que debía al aviador. Sudaba copiosamente y la nuez le bajaba y subía con sed de gallo seco. Quiso García saber más sobre su pasajero y preguntó de dónde venía. Cohibido, con una media sonrisa, respondió:
—Yo vine de San Ramón.
—Y ahora, ¿a dónde va?
—¿Pues a dónde voy a ir? Cogeré la yegua pa’ San Ramón.

Ciro Bianchi Ross



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