Translate

Il tempo all'Avana

+28
°
C
H: +28°
L: +23°
L'Avana
Lunedì, 24 Maggio
Vedi le previsioni a 7 giorni
Mar Mer Gio Ven Sab Dom
+28° +29° +29° +28° +29° +29°
+24° +24° +24° +24° +24° +24°

lunedì 23 marzo 2015

Presto per valutare l'impatto dell'apertura


Fonte El Nuevo Herald/AFP
Es pronto para evaluar impacto de apertura hacia Cuba, dice EEUU
AFP
Aún es pronto para evaluar el impacto de medidas que relajaron algunas sanciones contra Cuba tomadas por el gobierno de Estados Unidos dentro de su apertura hacia la isla, afirmó este viernes en Miami el secretario del Tesoro norteamericano, Jacob Lew.
“Las estamos implementando, son muy recientes y es un poco pronto para decir cuáles han sido sus impactos”, dijo Lew, durante un evento en el Miami Dade College de esta ciudad de Florida, que visitó para promover los planes comerciales del gobierno del presidente Barack Obama.
Dentro de la histórica apertura hacia Cuba anunciada en diciembre pasado, el gobierno estadounidense emitió nuevas regulaciones en enero para facilitar el comercio, sobre todo en materia de telecomunicaciones, y el envío de remesas y viajes de estadounidenses a la isla.
Pero Lew recordó que “tenemos leyes vigentes que restringen cuánta relación comercial” podemos tener, en referencia al embargo económico que rige desde 1962 y que restringe casi todo intercambio. La medida solamente puede ser anulada por el Congreso estadounidense.
“No tenemos relaciones comerciales normales con Cuba y lograrlo requerirá cambio en las leyes, y no veo eso probable en el futuro inmediato”, dijo el secretario del Tesoro.
No obstante, el gobierno cree que, con las medidas que tomó, “pone la presión” sobre Cuba para promover cambios “que esperamos que conforme avance el tiempo haga que se acerquen nuestros dos países”, señaló.
La semana pasada Washington y La Habana sostuvieron su tercera reunión de alto nivel dentro de sus esfuerzos por reabrir sus embajadas para restablecer las relaciones diplomáticas, cortadas por más de medio siglo.

Pronti a sbarcare dalla Florida coi ferries

Fonte El Nuevo Herald:

CubaKat anuncia próximo servicio de ferry a la isla


Malecón de La Habana. Actualmente los visitantes de EEUU solo pueden llegar por avión. CHIP SOMODEVILLA GETTY IMAGES


La compañía de transbordadores del sur de Florida CubaKat confía en comenzar muy pronto a operar viajes por mar a Cuba desde el cayo de Marathon, en el extremo sur del Estado, informó esta empresa.
“El objetivo de CubaKat es ofrecer este año nuestro servicio de ferry desde los cayos de Florida a Cuba. Actualmente, estamos trabajando con funcionarios de ambos países para hacer realidad esta aventura”, señaló la compañía en su página web.
No es la única compañía de Florida interesada en realizar viajes al puerto de La Habana: Havana Ferry Partner, entre otras, con oficinas en Fort Lauderdale, presentó hace tiempo su petición de licencia para el servicio de barcos rápidos a Cuba.
El visto bueno a los proyectos de estas compañías tendrá esperar a que el Gobierno estadounidense autorice la emisión de licencias, sujeta a la normativa vigente del embargo comercial de EE.UU. a Cuba.
A diferencia de varias aerolíneas de vuelos chárter que operan ya vuelos a la isla, todavía no existe ninguna compañía con licencia para trasladar por mar viajeros a Cuba, según la Oficina de Control de Activos Extranjeros (OFAC), dependiente del Departamento del Tesoro de EEUU.
CubaKat podría contar con un rápido catamarán para cubrir el trayecto entre dicho cayo y La Habana, una distancia que tardaría unas cuatro horas en recorrer la embarcación.
“Nuestro deseo es muy simple: queremos proporcionar un viaje a bajo costo, confiable y seguro para los que quieran visitar la isla de Cuba”, ya sea para encontrarse con “familiares, explorar un nuevo país o participar en actividades religiosas o educacionales”, destacó la compañía.
La empresa de servicio de barcos rápidos confía en que el próximo diciembre puedan efectuar el lanzamiento oficial del servicio de “ferry” a la isla.
Si bien “no prestamos servicio de ferry actualmente a la isla, estamos trabajando muy estrechamente con las autoridades de Cuba y EE.UU. y otros socios para lograr la completa aprobación de nuestro servicio”, insistió CubaKat.

Due fortezze dimenticate, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 22/3/15

L’amico e collega Aldo Abuaf – italiano abitante al’Avana – mi invia il seguente messaggio elettronico:
“Vorrei approfittare, se mi è permesso, del suo spazio su questa colonna per fare un suggerimento. Non si tratta di un problema strettamente legato alle colonne dello “scriba”, ma ha qualcosa a che vedere giacché si riferisce a luoghi pieni di storia, cultura e architettura di questa capitale.
Mi stupisce come non si utilizzano o vengano sottoutilizzate alcune fortezze dell’Avana. Mi riferisco nello specifico ai castelli del Principe e di Atarés che come il Morro, la Cabaña, la Real Fuerza, la Punta y la Chorrera, potrebbero aprirsi ai cubani e ai visitatori in un piano turistico-culturale che potrebbe essere di due livelli: uno semplicemente di turismo generalizzato e un’altro per specialisti.
Spero che col suo aiuto e la buona volontà di lettori che possano intervenire in questo senso – e sono sicuro che ci sono -, avremo in breve altri centri d’interesse turistico come succede già nella zona del porto o più in generale all’Avana Vecchia, grazie a quest’uomo straordinario e infaticabile che è Eusebio Leal”.
Sono già diversi anni che chi scrive ha, con riferimanto al Principe e Atarés, lo stesso criterio dell’amico Aldo Abuaf.
Lo scriba ha visitato entrambe le fortezze. Atarés, che paragonata alla Cabaña è quasi una fortezza tascabile regala al visitatore, dall’alto e al cadere della sera, un paesaggio che ricorda la città così ben captata da René Portocarrero nei suoi dipinti. Il Principe, estremamente ben conservato in buona parte delle sue edificazioni, potrebbe essere utilizzato come recinto fieristico, senza contare che alcune delle sue aree potrebbero essere utilizzate  come aule laboratorio, perché lo furono a suo tempo. Avanzerebbe ancora spazio per ospitare una o più istituzioni culturali, diciamo il museo della Polizia che si ebbe a Cuba prima del 1959, nella sede del Gabinetto Nazionale di Identificazione e nell’edificio, demolito, del Buró d’Investigaciones, all’ingresso del ponte Almendares.
In ogni modo, del Principe e di Atarés se ne parla appena e nonostante la prima appartenga al complesso culturale Morro – Cabaña, non apre il suo spazio al pubblico.

L'ingegnere belga

La costruzione del castello di Atarés, sulla collina di Soto, in fondo alla baia avanera, fu motivata dalla presa dell’Avana da parte degli inglesi (1762) che evidenziò la necessità di proteggere e difendere le vie che comunicavano la città con le vicine campagne. Così, dopo varie opere provvisorie, si iniziò la costruzione di questa fortezza a 1500 varas ( 1 vara equivale a circa 85 cm, n.d.t.) a sud del recinto delle muraglie, tra il 1763 e il 1767. Il proprietario dei terreni, Agustín de Sotolongo – da lì il nome della collina – li cedette gratuitamente e si iniziò l’opera secondo i progetti dell’ingegnere belga Agustín Cramer.
Anche dopo della costruzione di Atarés, si notavano altre deficienze nella difesa dell’Avana. L’assedio e presa della città da parte degli inglesi metteva in rilievo l’insufficienza del Torreon de la Chorrera per impedire uno sbarco nemico in questo luogo, unico nel quale gli inglesi si approvvigionarono di acqua potabile. C’era urgenza, dice lo storico Pezuela, di coprire gli ingressi dell’Avana nelle sue parti più esposte e al tempo stesso proteggere le truppe che si opponessero allo sbarco, più facile e probabile in quel luogo che in altro punto.
Per evitare questi pericoli si dette anche incarico all’ingegner Cramer per la fortificazione della collina di Aróstegui, Proprietà di Agustín de Aróstegui. Cramer, allora si basò sui progetti dell’ingegner Silvestre Abarca. Le opere cominciarono nel 1767 e non si completarono fino al 1779. Per allora, il brigadiere Luis Huet era tornato a modificare i piani di Abarca.
A questa fortezza si dette il nome di Castillo del Principe per l’allora erede della corona reale spagnola, il principe Carlos che arriverà a regnare, per sfortuna dei suoi sudditi, con il nome di Carlos IV.

Macelleria in Atarés

Ai tempi di Machado, Atarés fu al comando del tristemente celebre capitano Manuel Crespo Moreno ed era la sede del 5° Squadrone della Guardia Rurale, unità addestrata in modo eccellente che copriva coi suoi uomini la scorta del Presidente della Repubblica. Non pochi lottatori antimachadisti furono torturati e assassinati lì. Alcuni di essi, inumati nella stessa area del castello.
In questo luogo, durante la sollevazione dell’8 e 9 novembre del 1933, cercarono rifugio tra mille e 1500 civili, membri dell’organizzazione ABC ed ex ufficiali e militari in attività, tutti opposti al Governo di Ramón Grau San Martín. Li capeggiava il comandante Ciro Leonard. Atarés fu l’ultimo ridotto dei sollevati, dopo aver perso le caserme di Dragones e San Ambrosio con altre posizioni. Leonard aveva rigettato l’idea di rinforzarsi nelle colline di Managua o nella zona di Jaruco, come gli proponevano i suoi subalterni. Preferiva aspettare ad Atarés, diceva, il rinforzo di 5000 uomini promessi da un alto ufficiale e che non arrivarono mai. Aveva fiducia, in realtà, nello sbarco dei marines nordamericani che lo togliessero da quella topaia.
Immediatamente l’esercito si piazzò nei dintorni della fortezza per riconquistarla. Truppe di fanteria si dispiegarono nelle sue immediatezze e alle otto del mattino del giorno 9, cominciò il cannoneggiamento. Un mortaio da trincea tirava sul castello dall’intersezione delle calli Concha e Cristina. Dal Mercato Unico (Generale, n.d.t.) dell’Avana e dalla collina del Burro (Asino, n.d.t.) lo facevano un cannone da 37 millimetri e quattro cannoni Schneider, rispettivamente. L’artiglieria ausiliare appoggiava e dalla baia gli incrociatori Patria e Cuba, della Marina da Guerra, aprivano il fuoco con le loro batterie da tre e quattro pollici.
Da Atarés rispondevano con fuoco nutrito, ma per gli assediati risultavano terribili gli effetti del mortaio...le sue granate che cadevano con precisione matematica nel cortile dell’edificio, causavano danni enormi con i loro 260 pallini all’interno e i frammenti metallici dell’involucro. Il martellamento era tale nel castello che ogni granata che scoppiava causava numerose vittime. Una sola di esse, si dice uccise 20 soldati e causò decine di feriti.
Alle due del pomeriggio la situazione degli assediati era disperata. Si afferma che a quest’ora il comandante Leonard delegò a un ufficiale e amico la missione di comunicarsi per telefono con l’Ambasciata nordamericana per chiedere quando sarebbero sbarcati i marines e saputo che non ci sarebbe stato nessuno sbarco, si tolse la vita con un colpo alla testa.
A quest’ora, dentro al castello gli abecedari specialmente, vociavano per la resa. Alle tre, molti di loro uscirono dalla fortezza e con in mano fazzoletti bianchi si lanciarono giù dalla collina. Fu fatale. Imprigionati tra il fuoco degli assedianti e quello dei loro compagni, i morti e feriti furono numerosi. Dopo questo incidente, gli assediati chiesero di trattare. Alle quattro del pomeriggio, l’esercito recuperava Atarés e metteva fine alla sollevazione.

Conta dei prigionieri

Il Principe rimase sempre muto con riferimento ad azioni di guerra.
Nel 1796 vi fu rinchiuso Antonio Nariño, precursore dell’indipendenza della Colombia. Fu il primo prigioniero politico che si registra in questa fortezza.
Durante il XIX secolo, si utilizzò come centro di reclusione anche se il Carcere Giudiziario e la Prigione dell’Avana erano situati in Prado e Malecón. Nel 1904 si tolse la prigione dal vecchio edificio e si installò al Principe, ma a partire dal 1926 all'edificarsi la Prigione Modello, nell’Isola dei Pini, rimasero al principe solo il Carcere Giudiziario e il Bivacco. Il Carcere Giudiziario dell’Avana ebbe sede al Principe fino agli anni ’60, quando entrò in funzione il Combinado del Este.
Si dice che per scappare dal Principe bisognava aver aiuto da dentro e da fuori. Un cubano che chiamavano el Hombre Mosca, sfinì tanto le autorità con le sue fughe che un giorno lo “suicidarono” nel Principe. Ramón Arroyo “Arroyito”, il bandito sentimentale, scappò anch’egli da questo penitenziario e catturato di nuovo, fu rimesso al Presidio Modelo. Per garantire che non sarebbe tornato a fuggire i suoi custodi, per ordini superiori, lo assassinarono nel cammino. Il 21 novembre 1951, Policarpo Soler e altri pistoleri, furono protagonisti di una fuga sensazionale dal Castillo del Principe. Fuori, gli uomini di Orlando León Lemus, el Colora’o, appoggiavano l’evasione.
Non sono queste le prime evasioni famose dal Principe che la cronaca cubana registra. Già prima, nel 1888, fece storia quella di cui furono protagonisti, alla vigilia della loro esecuzione, il noto bandito Victoriano Machín e suo fratello.
Machín, con la sua banda, seminava terrore e morte a Pinar del Río e nelle zone ovest dell’Avana. Davanti all’indifferenza della polizia, attuava con assoluta impunità fino che in un giorno del mese di agosto del citato anno, Francisco Fajardo, un onesto cittadino di Guanajay, condusse le autorità fino al luogo in cui si nascondevano i delinquenti e li lasciò senza alternative. Il 28 dello stesso mese, giudicarono Machín nel Castillo de la Fuerza e lo sentenziarono alla pena di morte. Uguale condanna la ricevette suo fratello catturato in sua compagnia. Sarebbero stati giustiziati il 7 novembre...Il giorno 3, invece, quando si effettuava la conta dei prigionieri del Principe, il sotterraneo 16 e mezzo che occupavano i Machín, era vuoto. Limarono le sbarre del piccolo lucernario che si alzava a 11 “varas” da terra e i fuggitivi scivolarono verso i fossati calandosi con una corda di cotone cerato di meno di un dito di diametro. Siccome risultava impossibile che i reclusi, anche se arrampicati uno sull’altro potessero raggiungere il lucernario, si dimostrava che non agirono senza l’aiuto dei custodi. Il Governo coloniale dispose immediatamente l’arresto del capo della prigione e appena un mese dopo, la Corona spagnola, decise la destituzione del governatore generale dell’Isola Sabás Marín, quando Machín apparso a Guanajay, a piena luce del giorno e a vista di tutti, dette la morte a colpi di machete all’uomo che lo aveva denunciato.
Non rimarrà senza castigo. Il tenente generale Manuel Salamanca – rigido, inflessibile, severo e onesto – all’assumere il comando della colonia responsabilizzò le autorità civili e militari e naturalmente la polizia, di tutti gli atti che i banditi potesserto commettere. Poco dopo, Victoriano Machín era detenuto nella città di Cienfuegos e trasferito all’Avana dove, alla Cabaña, aspettò il giorno in cui si sarebbe compiuta la sua sentenza.


Davanti a una moltitudine che non si era mai vista nella capitale, per presenziare a un atto come questo, si portò a termine l’esecuzione di Machín. Il terribile bandito che aveva oltre 30 omicidi sulle sue spalle si comportò, giunto il suo momento, come un vigliacco: piangeva, supplicava, si inginocchiava, strisciava per terra...Dovettero prenderlo in braccio per sederlo al “garrote” e una volta lí, con le mani legate, cercò di mordere il boia che tanto o più vigliaccamente della vittima, cadde al suolo svenuto.

Dos fortalezas olvidadas
Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
21 de Marzo del 2015 

El amigo y colega Aldo Abuaf --italiano avecindado en La Habana-- remite
el siguiente mensaje electrónico:
“Quisiera aprovechar, si me es permitido, su espacio en esta columna
para hacer una sugerencia. No se trata de un problema estrictamente
ligado a las columnas del "escribidor", pero algo tiene que ver ya que
alude a lugares cargados de historia, cultura y arquitectura de esta
capital.
Me asombra cómo se desaprovechan o subestiman algunas fortalezas de
La Habana. Me refiero, en lo esencial, a los castillos del Príncipe y
de Atarés, que, al igual que el Morro, la Cabaña, la Real Fuerza, la
Punta y La Chorrera, pudieran abrirse a los cubanos y a los visitantes
en un plan turístico-cultural que bien pudiera ser de dos niveles: uno
simplemente de turismo generalizado y otro, para especialistas.
Espero que con su ayuda y la buena voluntad de los lectores que
puedan intervenir en este sentido --y estoy seguro de que los hay --,
tengamos pronto otros centros de interés turístico como ocurre ya en
la zona del puerto y, en general, en La Habana Vieja, gracias a ese
hombre extraordinario e infatigable que es Eusebio Leal”.
Hace ya varios años que quien esto escribe tiene, con relación  al
Príncipe y Atarés, el mismo criterio que el del amigo Aldo Abuaf.
El escribidor ha visitado ambas fortalezas. Atarés, que comparada con
la Cabaña es casi una fortaleza de bolsillo, regala desde lo alto al
visitante, a la caída de la tarde, un paisaje que remeda la ciudad tan
bien captada por René Portocarrero en sus pinturas. El Príncipe,
extremadamente bien conservado en buena parte de sus edificaciones,
podría utilizarse como recinto ferial, sin contar que algunas de sus
áreas podrían rehabilitarse como aulas y talleres, porque lo fueron en
su momento. Aún sobraría espacio para dar albergue a una o varias
instituciones culturales, digamos el museo de la Policía, que lo hubo
en Cuba, antes de 1959, en la sede del Gabinete Nacional de
Identificación y en el demolido edificio del Buró de Investigaciones,
a la entrada del puente Almendares.
De cualquier manera, sobre el Príncipe y Atarés apenas se habla y
aunque la primera pertenece al complejo cultural Morro-Cabaña, no abre
al público sus espacios.

El ingeniero belga
La construcción del castillo de Atarés, en la loma de Soto, al fondo
de la bahía habanera, fue motivada por la toma de La Habana por los
ingleses (1762) que evidenció la necesidad de resguardar y defender
los caminos que comunicaban a la ciudad con los campos vecinos. Así,
luego de varias obras provisionales, se acometió la edificación de esa
fortaleza a 1 500 varas al sur del recinto amurallado, entre 1763 y
1767. El propietario de los terrenos, Agustín de Sotolongo --de ahí el
nombre de la loma-- los cedió gratuitamente y se acometió la obra según
los planos del ingeniero belga Agustín Cramer.
Aun después de construido  Atarés, se notaban otras deficiencias en la
defensa de La Habana. El asedio y toma de La Habana por los ingleses
también pondría de relieve la insuficiencia del torreón de La Chorrera
para impedir un desembarco enemigo por ese sitio, único en el cual los
ingleses se proveyeron de agua potable. Había urgencia, dice el
historiador Pezuela, de cubrir los aproches de La Habana por su parte
más expuesta y, al mismo tiempo, proteger a las tropas que se
opusieran a un desembarco, más fácil y probable por aquel lugar que
por cualquier otro sitio.
Para evitar esos peligros se encargó igualmente al ingeniero Cramer la
fortificación de la loma de Aróstegui, propiedad de Agustín de
Aróstegui. Cramer se basó entonces en los planos del ingeniero
Silvestre Abarca. Las obras comenzaron en 1767 y no se completaron
hasta 1779. Para entonces, el brigadier Luis Huet había vuelto a
modificar los planos de Abarca.
A esa fortaleza se le dio el nombre de castillo del Príncipe por el
entonces heredero de la corona real española, el príncipe Carlos que
llegaría a reinar, para desdicha de sus súbditos, con el nombre de
Carlos IV.

Carnicería en Atarés
En tiempos de Machado, Atarés estuvo bajo el mando del tristemente
célebre capitán Manuel Crespo Moreno, y era la sede del Escuadrón 5 de
la Guardia Rural, unidad excelentemente adiestrada que cubría con sus
hombres la escolta del Presidente de la República. No pocos luchadores
antimachadistas fueron allí torturados y asesinados, y algunos de
ellos inhumados en las propias áreas del castillo.
En ese lugar, durante la sublevación del 8-9 de noviembre de 1933
buscaron refugio entre mil y 1 500 civiles, miembros de la
organización ABC, y ex oficiales y militares en activo, opuestos todos
al Gobierno de Ramón Grau San Martín. Los mandaba el comandante Ciro
Leonard. Atarés fue el último reducto de los sublevados, luego de
perder los cuarteles de Dragones y San Ambrosio y otras posiciones.
Leonard había rechazado la idea de hacerse fuerte en las lomas de
Managua o en la zona de Jaruco, como le proponían sus subordinados.
Prefería esperar en Atarés, aseguraba, el refuerzo de 5 000 hombres
prometidos por un ex alto oficial y que nunca llegaron. Confiaba, en
verdad, en el desembarco de los marinos norteamericanos que lo sacaran
de aquella ratonera.
Enseguida el ejército se emplazó en los alrededores de la fortaleza
para recobrarla. Tropas de infantería se desplegaron en sus
inmediaciones y a los ocho de la mañana del día 9 comenzó el cañoneo.
Un mortero de trinchera tiraba sobre el castillo desde la intersección
de las calles Concha y Cristina, y desde el Mercado Único de La Habana
y la loma del Burro, lo hacían un cañón de 37 milímetros y cuatro
cañones Schneider, respectivamente. Apoyaba la artillería auxiliar, y
desde la bahía los cruceros Patria y Cuba, de la Marina de Guerra,
abrían fuego con sus baterías de tres y cuatro pulgadas.
Desde Atarés respondían con fuego nutrido, pero resultaban terribles
para los sitiados los efectos del mortero. Sus granadas, que caían con
precisión matemática en el patio del edificio, causaban estragos
enormes con los 260 perdigones de su interior y los fragmentos
metálicos de la cubierta. El hacinamiento era tal en el castillo que
cada granada al estallar ocasionaba numerosas víctimas. Una sola de
ellas, se dice, mató a 20 soldados y causó decenas de heridos.
A las dos de la tarde, la situación de los sitiados se hacía
desesperada. Se afirma que a esa hora el comandante Leonard delegó en
un oficial amigo la misión de comunicarse por teléfono con la Embajada
norteamericana para preguntar cuándo desembarcarían los marinos; y
enterado de que no habría desembarco alguno, se privó de la vida con
un balazo en la cabeza.
A esa hora, dentro del castillo, los abecedarios, sobre todo, clamaban
por la rendición. A las tres, muchos de ellos salieron de la fortaleza
y, con pañuelos blancos en las manos, se lanzaron ladera abajo. Fue
fatal. Apresados entre el fuego de los sitiadores y el de sus
compañeros, los muertos y heridos fueron numerosos. Tras ese
incidente, pidieron parlamento los sitiados. A las cuatro de la tarde
el ejército recuperaba Atarés y ponía fin a la sublevación.

Conteo de presos
El Príncipe permaneció siempre mudo en lo que a acciones de guerra se refiere.
En 1796 estuvo recluido allí Antonio Nariño, precursor de la
independencia de Colombia. Fue el primer preso político que se
registra en esa fortaleza.
Durante el siglo XIX se utilizó como centro de reclusión, aunque la
Cárcel y el Presidio de La Habana estaban instalados en Prado y
Malecón. En 1904 se sacó el Presidio del viejo edificio y se instaló
en el Príncipe, pero a partir de 1926, al edificarse el Presidio
Modelo, en Isla de Pinos, solo quedaron en el Príncipe la Cárcel y el
Vivac. La Cárcel de La Habana radicó en el Príncipe hasta los años 60,
cuando entró en funciones el Combinado del Este.
Se dice que para fugarse del Príncipe había que tener ayuda de dentro
y de fuera. A un cubano al que apodaban el Hombre mosca agobió tanto a
las autoridades con sus fugas que un día lo “suicidaron” en el
Príncipe. Ramón Arroyo, “Arroyito”, el Bandolero sentimental, escapó
también de esa penitenciaría y, capturado de nuevo, fue remitido al
Presidio Modelo. Para garantizar que no volvería a fugarse, sus
custodios, por órdenes superiores, lo asesinaron en el camino. El 21
de noviembre de 1951, Policarpo Soler y otros pistoleros
protagonizaban en el Castillo del Príncipe una fuga sensacional.
Fuera, los hombres de Orlando León Lemus, el Colora'o, apoyaban la
evasión.
No son esas las primeras evasiones famosas que del Príncipe registra
la crónica cubana. Ya antes, en 1888, hizo historia la que
protagonizaron, en vísperas de su ejecución, el notorio bandido
Victoriano Machín y su hermano.
Machín, con su banda, sembraba el terror y la muerte en Pinar del Río
y en zonas del oeste de La Habana. Ante la indiferencia policial,
actuaba con impunidad absoluta, hasta que un día del mes de agosto del
año señalado, Francisco Fajardo, un honesto ciudadano de Guanajay,
condujo a las autoridades hasta el lugar donde se ocultaban los
delincuentes y las dejó sin alternativa. El 28 del propio mes juzgaron
a Machín en el Castillo de la Fuerza y lo sentenciaron a muerte, e
igual condena recibió su hermano, que había sido capturado en su
compañía. Serían ejecutados a garrote el 7 de noviembre...
El día 3, sin embargo, cuando se llevaba a cabo el conteo de presos en
el Príncipe, el calabozo 16 y medio, que ocupaban los Machín, estaba
vacío. Limaron los barrotes de la pequeña claraboya que se alzaba a 11
varas del suelo y los fugitivos se escurrieron  hacia los fosos
deslizándose por una cuerda de algodón encerada de menos de un dedo de
diámetro. Como resultaba totalmente imposible que los reclusos, aun
encaramado uno sobre otro, pudiesen alcanzar la claraboya, lo que
demostraba que no actuaron sin ayuda de los custodios, el Gobierno
colonial dispuso de inmediato la detención del jefe de la prisión y
apenas un mes después la Corona española decidió la destitución del
gobernador general de la Isla, Sabás Marín, cuando Machín, personado
en Guanajay, a plena luz del día y a la vista de todos, dio muerte a
machetazos al hombre que lo había delatado.
No quedaría sin castigo. El teniente general Manuel Salamanca --rígido,
inflexible, severo y honesto-- al asumir el mando de la colonia
responsabilizó a las autoridades civiles y militares y, desde luego, a
la policía, con todos los actos que los bandidos pudiesen cometer.
Poco después, Victoriano Machín era detenido en la ciudad de
Cienfuegos y trasladado a La Habana donde, en la Cabaña, esperaría el
día en que se cumpliría su sentencia.
Ante una multitud que nunca antes se vio en la capital para presenciar
un acto como ese, se llevaría a cabo la ejecución de Machín. El
terrible bandido, que tenía más de 30 asesinatos sobre sus espaldas,
se portó, llegado el caso, como un cobarde; lloraba, suplicaba, se
arrodillaba, se arrastraba por el suelo... Tuvieron que cargarlo para
sentarlo en el garrote, y una vez allí, con las manos atadas, trató de
morder al verdugo que, tan o más acobardado que la víctima, cayó al
suelo desmayado.

Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/



domenica 22 marzo 2015

Pregiudizio

PREGIUDIZIO: procedimento a carico di un sacerdote

sabato 21 marzo 2015

Preferito

PREFERITO: sacerdote infortunato

venerdì 20 marzo 2015

Italia, invitata d'onore alla Fiera del Turismo 2015 di Cuba, prossima visita di imprenditori

Fonte TTC
Imprenditori italiani a FITCuba 2015




Il ministro degli Esteri italiano e della Cooperazione Internazionale, Paolo Gentiloni Silveri ha considerato che la cooperazione tra il suo Paese e Cuba può aumentare significativamente

Una delegazione di piccole e medie imprese, capeggiata dal vice ministro dell’Industria italiana, sarà presente al FITCuba 2015, come ha annunciato il ministro Paolo Gentiloni Silveri.
La visita a Cuba ai primi di maggio, dell’importante delegazione di imprenditori, risponde al fatto che l’Italia sarà il Paese ospite d’onore alla prossima Fiera Internazionale del Turismo a Cuba.
L’informazione è stata data dal cancelliere italiano in conferenza stampa a coronamento della sua visita ufficiale di due giorni  a Cuba, durante la quale è stato ricevuto dal presidente del Consiglio di Stato e dei Mininistri dell’Isola, Generale d’Armata Raúl Castro Ruz, dopo aver effettuato un colloquio con il cancelliere bruno Rodríguez Parrilla, i ministri dell’Energia e delle Miniere edel Commercio Estero, così come col Cardinale Jaime Ortega.
Gentiloni ha riferito che le conversazioni col presidente Raúl e il cancelliere Rodríguez hanno toccato, tra altri temi, sull’ampliamento della collaborazione con le piccole e medie imprese e cooperative italiane, specialmente nel settore del turismo. Anche con aziende maggiori, specialmente nel campo delle energie rinnovabili nel quale sono già ampi i contatti col Paese europeo, ha affermato il ministro.
Più avanti ha affermato che l’Italia considera molto importante che l’Unione Europea mantenga contatti più frequenti con Cuba e ha affermato che spera di veder sviluppare i vincoli, a favore dei quali il suo paese cercherà di influire.
L’Italia è la seconda nazione europea esportatrice a Cuba e “può aumentare il volume di cooperazione in modo significativo”. Prima dell’estate, ha proseguito, l’Istituto di Commercio con l’Estero italiano aprirà un ufficio a Cuba.
Has fattom presente che l’Italia considera che il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Cuba e gli Stati Uniti e l’accordo economico fra Cuba e l’Unione Europea sono due processi di grande importanza, uno nel politico e l’altro sul piano economico che non devono essere vincolati, ma che entrambi devono “marciare avanti senza ostruirsi reciprocamente”.
Ha manifestato “la speranza che il processo che con grande coraggio hanno annunciato i presidenti Castro e Obama possa completarsi e che si concluda in modo naturale con la fine dell’embargo a Cuba”.
Nel suo intervento davanti alla stampa ha reso noto di aver esteso un invito al Presidente Castro per andare in Italia e ha menzionato diversi momenti specialmente suscettibili, includendo la Expo Milano 2015.

“Speriamo di migliorare la cooperazione economica tenendo in conto le facilitazioni che ci offre il processo di attualizzazione del modello economico che si sta sviluppando a Cuba (...) il Governo italiano ha manifestato soddisfazione per questi incontri”.

Predestinato

PREDESTINATO: alla carriera ecclesiastica

giovedì 19 marzo 2015

Predominio

PREDOMINIO: supremazia ecclesiastica

mercoledì 18 marzo 2015

Riaperti i voli (charter) tra New Orleans, New York e l'Avana

Dopo 57 anni è tornato all'Avana un volo proveniente da New Orleans con rotta di andata e ritorno tra gli aeroporti Luis Armstrong e José Martí, mentre è stato ripristinato anche il volo da e per New York. Entrambi i voli sono charter settimanali, quindi non sono normali voli "commerciali" e ne possono usufruire solo i cittadini statunitensi e cubani aventi i relativi nulla osta per i viaggi nei due sensi. NON sono ammessi cittadini di altre nazionalità.

Predare

PREDARE: fare un'offerta al parroco

martedì 17 marzo 2015

The Cuban Hamlet su RAI Italia per l'America


Il prossimo 20 marzo alle 23.45 (ora di Cuba) andrà in onda, via satellite su RAI Italia il documentario "The Cuban Hamlet", in cui Tomás "Monnezza" Milián racconta la sua vita.  L'ora è riferita alla sola zona del continente americano. Per gli altri continenti consultare gli orari nel sommario delle trasmissioni.



Precorrente

PRECORRENTE: sacerdote atletico

lunedì 16 marzo 2015

Una tappa obbligata: la Plaza de la Revolución

Qualunque visitatore dell'Avana non può esimersi dalla visita alla Plaza de la Revolución, località ricca di storia recente e dove si svolgono le manifestazioni più importanti a carattere nazionale o internazionale. Se poi viene raggiunta su una decapottabile degli anni '50...il valore aggiunto della visita aumenta...


Preconoscenza

PRECONOSCENZA: cultura ecclesiastica

Machín, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 15/3/15

Solo la morte riuscì a strapparlo agli scenari. L’età non influì sulle sue facoltà vocali nnella sua capacità lavorativa. La sua popolarità si mantenne alta fino alla fine, scrive il suo biografo José Luis Pérez Machado. Anche da vecchio faceva in modo che il pubblico riempisse i teatri e gli piovevano i contratti per i casinò più esclusivi e gli spazi più popolari di radio e televisione.
Giunse così il 7 giugno del 1977. Il suo recital di quella sera in un teatro dell’Anadalusia si svolse nel modo previsto. Dopo aver interpretato gli ultimi due pezzi previsti dal programma, soddisfò le richieste degli spettatori. Scese il telone e il cantante cubano Antonio Machín rimase in attesa di uscire a salutare il pubblico che continuava ad applaudirlo calorosamente. Non gli fu possibile. Una stanchezza imensa lo avvolse al’improvviso e gli impedì di farlo. A partire da lì, la sua salute andò di male in peggio. Solo due mesi più tardi, il 4 agosto, la notizia della sua morte a Madrid occupava spazi da prima pagina nella stampa spagnola e motivava programmi radiofonici e televisivi speciali che risaltavano il significato della sua arte.
“È morto il re del bolero”. “Il bolero è in lutto”, “Addio al grande Machín”, ripetevano i mezzi di comunicazione della Penisola, mentre il suo funerale nella necropoli di San Fernando di Siviglia – luogo scelto dal cantante perché vi riposassero i suoi resti – si convertiva in una manifestazione impressionante di lutto popolare.
Dopo la sua morte, la fama di Machín continuò a spirale, dice il già citato Pérez Machado. Gli si dedicarono molteplici spettacoli musicali, si evocò il suo nome nelle più diverse maniere si affondò in sfaccettature della sua arte e si cercò l’uomo, nelle testimonianze che porsero su di lui familiari e amici. Un omaggio formidabile lo costituì, al Palazzo dello Sport di Barcellona, il concerto dove Juan Manuel Serrat, Moncho, Peret e Jaime Sisa, fra altri cantanti, interpretarono davanti a quattromila spettatori, il repertorio cubano più significativo. L’incasso di questo spettacolo fu destinata ad erigere un monumento ad Antonio Machín, nel cimitero di Siviglia. Una lapide di marmo nero dove si legge il suo nome, copre la sua tomba e su di essa, in un dado, si apprezza l’effigie del cantante. Sopra questo dado si alza la figura di un angelo; sicuramente quello è l’angelo protettore che gli ispirò una delle sue composizioni.
Lì succede qualcosa di significativo. Quando artisti cubani provenienti dall’Isola visitano Siviglia, si recano alla necropoli di San Fernando. Cantano son e boleri vicino alla tomba di Machín e versano grappa su di essa in segno di omaggio fraterno a un esponente imprescindibile della musica cubana.
El manisero
Antonio Abad Lugo Machín. Chi è quest’uomo che nacque a Sagua la Grande, nell’antica provincia di Las Villas, il 17 gennaio del 1903, da madre cubana e padre spagnolo e fece fuori da Cuba la maggior parte della sua carriera?
A parere di Alejo Carpentier, la musiva cubana trovò in Machín un interprete coscienzioso e conoscitore che sapeva eseguire con la stessa sorte una rumba trepidante o un teme pieno di nostalgia. Dopo aver elogiato il suo repertorio, “vasto e diverso”. L’autore de Els siglo de las luces fa risaltare che l’artista, pieno di curiosità e amore per la sua terra,toglieva dal dimenticatoio decime e canzoni antiche il cui ricordo cominciava a cancellarsi, trasferendogli una nuova vita. Fa presente carpentier, infine: “Pieno di gravità e unzione, interpreta le melodie del tropico con un’eloquenza irresistibile. Buona prova del suo talento è che sia riuscito a convincere due pubblici tanto differenti come gli inglesi e i francesi”.
L’erudito Radamés Giro precisa che la carriera di Machín cominciò con il suo ingresso, come clarinettista, nella banda municipale del suo paese natale. Nel 1924 è già all’Avana, dove compose un duo con Miguel Zaballa e come prima voce e suonatore di maracas, fece parte del trio Luna e più tardi del settetto Agabama. Nel 1926 si inserì nell’orchestra  di Don Azpiazu, con cui nel 1930 si recò a New York. Lì incise la sua prima versione de  El manisero, di Moisés Simons, fra altri numeri. Il suo passaggio nella catena di teatri del RKO fece si che il pezzo citato, uno dei primi successi internazionali della musica cubana, diventasse popolare negli Stati Uniti. Prima, con Don Azpiazu aveva lavorato nell’esclusivo Casinò Nazionale del Country Club dell’Avana.
Il musicologo cubano residente a Porto Rico, Cristóbal Ayala asserisce: “Gran parte del successo di Azpiazu si dovette al suo cantante Antonio Machín...Il coraggioso Antonio, sorto in un ambiente molto umile, era arrivato ad essere il primo negro a cantare nel lussuoso Casinò Nazionale...La sua voce e la sua presenza fisica, cantando El manisero erano state decisive a New York. Ma Machín aveva ambizioni. Parallelamente alle incisioni con l’orchestra nel 1930 e 1931, organizzò un quartetto con tre compagni del gruppo di Azpiazu e conseguì che la Victor li facesse incidere. Se Azpiazu era un successo fra i “gringos”, Machín non fu da meno fra gli ispano americani. Già nel 1932 non era più con l’orchestra e fra luglio del 1930 e novembre del 1935, quando si imbarcò definitivamente per l’Europa, aveva inciso oltre 150 numeri col suo quartetto e varie orchestre, per la Victor e altre marche. Probabilmente nemmeno Bing Crosby che era già una stella, negli Stati Uniti, incise tanto in quel periodo che fu precisamente di depressione economica in quel Paese. Non si tratta solo di avere talento, bisogna anche sapersi vendere”.

Angioletti negri

Nel 1935 fece un giro per l’Europa e comiciò, così, una carriera vertiginosa. A Londra convinse il pubblico con la sua interpretazione di Lamento esclavo, di Eliseo Grenet. A Parigi partecipò nella rivista Canto a los trópicos che dirigeva Simons. Poi, con la sua orchestra Habana, percorse Norvegia, Svezia, Danimarca, Olanda, Germania, Romania e Italia, per tornare a Parigi. Nell.aprile 1939, cinque mesi prima che scoppiasse la II Guerra Mondiale, si stabilí in Spagna. Con l’orchestra Los Miura di Sobré, con la quale rimase fino al 1946, incise Angelitos negros, con testo di Andrés Eloy Blanco e musica di Manuel Álvarez Maciste, uno dei suoi grandi successi. Si vendettero migliaia di dischi di quel brano e famosi vocalisti ne fecero la propria versione. Angelitos negros trasformò il cubano in un idolo dentro e fuori dalla Spagna e fece si che ottenesse il soprannome de “Il divo” della canzone.
In quei giorni dichiarò: “Io baso i miei successi su due buoni pilastri: i testi delle mie canzoni e il modo in cui li dico. Tutti li capiscono e vibrano con essi...Un prete rurale argentino ha fatto dipingere nella sua chiesa degli angioletti scuri, dopo aver sentito Angelitos negros”.
Ha successo nel teatro musicale, genere molto gradito in Spagna. Partecipa in non poche pellicole ivi prodotte nelle quali interpreta le sue canzoni e svolge ruoli di caratterista. Si ascolta anche in decine di colonne sonore di film spagnoli. È autore di un centinaio di canzoni.
Si è detto che fu il cantante preferito dal generalissimo Francisco Franco. Il suo biografo José Luis Pérez Machado afferma che Machíin fu un coltivatore della canzone romantica e che la sua arte non fu una rottura col franchismo, ma nemmeno una riaffermazione. Nel suo repertorio esistevano pezzi di contenuto sociale -Negrito de qué, Tabú, Del mismo color, Angelitos negros...-  che denunciavano “vecchie sequele razziali”. Senza dubbio questo cantante mulatto e straniero per giunta,non fu censurato né limitato nel progetto culturale spagnolo. Era arrivato in Spagna pima che finisse la Guerra Civile e aveva condiviso con gli spagnoli i cosiddetti Anni della Fame in un Paese distrutto dalla guerra, divorato dall’incertezza e asfissiato dall’embargo economico.
Pérez Machado scrive; “Apparentemente, Machín fu uno dei ‘capriccetti’ di Franco perché la sua proposta artistica poté coesistere e sopravvivere i 39 anni della dittatura. Il suo repertorio allegro, di temi amorosi, domestici, intimisti e felici non “disturbarono” il dittatore che fece sparire centinaia di creatori, di diverse manifestazioni artistiche, dallo scenario culturale iberico. Machín fu rifugio spirituale per lo sconforto degli spagnoli, perché cantò all’amore, alla speranza, allla fede e anche all’uguaglianza, alla sincerità e la fedeltà. Fu, a detta di molti, un buffetto angelico in quelle guance meste.

Con Cuba

Di Isolina Carrillo interpretò Dos gardenias; di Osvaldo Farrés, Madrecita e Tres palabras; di Julio Brito. Mira que eres linda…Altri compositori cubani presenti nel repertorio di Machín sono Juan Arrondo, Luis Marquetti, René Márquez, Orlando de la Rosa, Adolfo Guzmán, Ignacio Piñeiro. Leopoldo Ulloa e Margarita Lecuona, fra molti altri di cui intrpretò le opere con la sua voce leggera e carezzevole, fatta di zucchero e di mare. Fu quello che introdusse il cha cha cha in Spagna.
Nel 1958 venne a Cuba e condivise con familiari e amici a Sagua la Grande. Anche se venne in visita privata accettò volentieri il riconoscimento che la CMQ, Canale 6 e altre importanti emittenti gli fecero per il suo lavoro di diffusione della musica cubana all’estero.
Nel 1943 si sposò, in Spagna, con una spagnola e lì nacque la sua unica figlia. Si considerò un uomo con due patrie e la sua fedeltà ad entrambe fece che si che lo si qualificasse come “il più spagnolo dei cubani e il più cubano degli spagnoli”.
Nel 1972 riaffermò alla stampa la sua condizione di cubano quando, senza che nessuno se lo aspettasse, si presentò al Padiglione di Cuba della Fiera Internazionale di Barcellona e si presentò col duo Los Compadres. Un anno dopo condivise la scena con una delegazione artistica dell’Isola di cui facevano parte Pacho Alonso e la sua orchestra, Los Papines e l’interprete Ela Calvo che stavano effettuando una tournée in Spagna. Nel febbraio 1977, poco prima della sua morte, si recò a Barcellona per condividere con Carlos Puebla.

Machín diceva che nessuno gli aveva insegnato a cantare. Las sua musica fu sempre cubana e lasciò in Spagna un’immagine artistica permanente. Di lui, dirà il famoso regista spagnolo Pedro Almodóvar: “Fu lui che mi mise il bolero nel sangue”.



Machín
Ciro Bianchi Ross * 
digital@juventudrebelde.cu
14 de Marzo del 2015 21:26:41 CDT

Solo la muerte logró arrancarlo de los escenarios. La edad no melló
sus facultades  vocales ni su capacidad de trabajo, y su popularidad
se mantuvo “arriba” hasta el final, escribe su biógrafo José Luis
Pérez Machado. Viejo ya seguía haciendo que el público abarrotara los
teatros y le llovían los contratos para los casinos más exclusivos y
los más populares espacios de radio y televisión.
Llegó así el 7 de junio de 1977. Su recital de esa noche en un teatro
de Andalucía transcurrió de la manera prevista. Tras interpretar la
última de las piezas contempladas en el programa, complació peticiones
de los espectadores. Cayó el telón y el cantante cubano Antonio Machín
quedó a la espera para salir a saludar al público que seguía
aplaudiéndolo a rabiar. No le fue posible. Un cansancio insuperable lo
invadió de improviso y le imposibilitó hacerlo. A partir de ahí su
salud fue de mal en peor. Apenas dos meses más tarde, el 4 de agosto,
la noticia de su muerte, en Madrid, ocupaba espacios de primera plana
en la prensa española y motivaba programaciones radiales y televisivas
especiales que resaltaban la significación de su quehacer.
“Ha muerto el rey del bolero”, “El bolero está de luto”, “Adiós al
gran Machín”, repetían los medios de comunicación de la Península,
mientras que su entierro en la necrópolis de San Fernando de Sevilla
--sitio escogido por el cantante para que reposaran sus restos-- se
convertía en una manifestación de luto popular impresionante.
Después de su muerte, la fama de Machín siguió en espiral, dice el ya
aludido Pérez Machado. Se le dedicaron múltiples espectáculos
musicales, se evocó su nombre de disímiles maneras, se ahondó en
facetas de su arte y se buscó al hombre en los testimonios que sobre
él brindaron familiares y amigos. Un homenaje formidable lo
constituyó, en el Palacio de los Deportes, de Barcelona,  el concierto
donde Joan Manuel Serrat, Moncho, Peret y Jaime Sisa, entre otros
cantantes, interpretaron, ante cuatro mil espectadores, lo más
representativo del repertorio del cubano.
La recaudación de ese espectáculo se destinó a erigirle un monumento a
Antonio Machín en el cementerio de Sevilla. Una lápida de mármol negro
donde se lee su nombre cubre su tumba, y sobre ella, en un dado, se
aprecia la efigie del cantante. Encima de ese dado se alza la figura
de un ángel; de seguro ese ángel protector que le inspiró una de sus
composiciones.
Ocurre allí algo significativo. Cuando artistas cubanos provenientes
de la Isla visitan Sevilla, acuden a la necrópolis de San Fernando.
Cantan sones y boleros junto a la tumba de Machín y vierten
aguardiente sobre ella en señal de fraterno homenaje a un exponente
imprescindible de la música cubana.

El manisero

Antonio Abad Lugo Machín. ¿Quién es este hombre que nació en Sagua la
Grande, en la antigua provincia de Las Villas, el 17 de enero de 1903,
de madre cubana y padre español, e  hizo fuera de Cuba  la mayor parte
de su carrera?
En opinión de Alejo Carpentier, la música cubana halló en Machín un
intérprete concienzudo y conocedor que sabía acometer con igual
fortuna una rumba trepidante que un tema lleno de nostalgia. Luego de
elogiar su repertorio “vasto y diverso”, el autor de El siglo de las
luces resalta que el artista, pleno de curiosidad y amor por su
tierra, sacaba del olvido décimas y canciones antiguas cuyo recuerdo
empezaba a borrarse, comunicándoles nueva vida. Señala Carpentier
finalmente: “Lleno de gravedad y unción, interpreta las melodías del
trópico con una elocuencia irresistible. Buena prueba de su talento es
que ha logrado convencer sin dificultad a dos públicos tan disímiles
como el inglés y el francés”.
Precisa el erudito Radamés Giro que la carrera de Machín comenzó con
su ingreso como clarinetista en la banda municipal de su región natal.
En 1924 está ya en La Habana, donde hizo dúo con Miguel Zaballa y,
como voz prima y maraquero, formó parte del trío Luna y más tarde del
septeto Agabama. Se sumó, en 1926, a la orquesta de Don Azpiazu, con
la que en 1930 viajó a Nueva York. Allí grabó su primera versión de El
manisero, de Moisés Simons, entre otros números. Su paso por la cadena
de teatros de la RKO hizo que la pieza mencionada, uno de los primeros
éxitos internacionales de la música cubana, se popularizara en Estados
Unidos. Antes, con Don Azpiazu había actuado en el exclusivo Casino
Nacional del reparto Country Club, de La Habana.
Afirma Cristóbal Díaz Ayala, musicógrafo cubano radicado en Puerto Rico:
<<Gran parte del éxito de Azpiazu se debía a su cantante Antonio
Machín... El corajudo Antonio, surgido en un medio muy humilde, había
llegado a ser el primer negro en cantar en el lujoso Casino Nacional...
Su voz y su presencia física cantando El manisero habían sido
decisivas en Nueva York. Pero Machín tenía ambiciones. Paralelo con
las grabaciones de la orquesta en 1930 y 1931, organizó un cuarteto
con tres compañeros del conjunto de Azpiazu y consiguió que la Víctor
le grabara. Si Azpiazu era un éxito entre los gringos, Machín no lo
fue menos entre los hispanoamericanos. Ya para 1932 no estaba con la
orquesta, y entre julio de 1930 y noviembre de 1935, cuando embarca
definitivamente para Europa, grabó más de 150 números con su cuarteto
y varias orquestas para la Víctor y otros sellos. Posiblemente ni Bing
Crosby, que ya era una estrella en los Estados Unidos, grabó tanto en
aquella época, que fue precisamente de depresión económica en ese
país. Y es que no es solo tener talento, sino saber venderse>>.

Angelitos negros
Hizo en 1935 una gira por Europa e inició así una carrera vertiginosa.
En Londres convenció al público con su interpretación de Lamento
esclavo, de Eliseo Grenet. Participó en París en la revista Canto a
los trópicos, que dirigía Simons. Luego, con su orquesta Habana, viajó
por Noruega, Suecia, Dinamarca, Holanda, Alemania, Rumania e Italia,
para volver a París. En abril de 1939, cinco meses antes de que
estallara la II Guerra Mundial, se radicó en España. Con la orquesta
Los Miura, de Sobré, con la que permaneció hasta 1946, grabó Angelitos
negros, con letra de Andrés Eloy Blanco y música de Manuel Álvarez
Maciste, uno de sus grandes éxitos. Se vendieron miles de discos de
esa pieza, y famosos vocalistas hicieron sus propias versiones.
Angelitos negros convirtió al cubano en un ídolo dentro y fuera de
España, e hizo que ganara el sobrenombre de El divo de la canción.
Declaró por aquellos días: “Yo baso mis triunfos sobre dos buenos
pilares: las letras de mis canciones y la forma como las digo. Todo el
mundo las entiende y vibra con ellas... Un cura rural de la Argentina ha
hecho pintar, en su iglesia, unos ángeles morenos después de conocer
Angelitos negros”.
Triunfa en el teatro musical, género muy gustado en España. Interviene
en no pocas películas producidas allí, en las que interpreta sus
canciones y representa personajes de reparto. También se escucha en
las bandas sonoras de decenas de filmes españoles. Es autor de unas
cien canciones.
Se ha dicho que fue el cantante preferido del generalísimo Francisco
Franco. Afirma su biógrafo José Luis Pérez Machado que Machín fue un
cultivador de la canción romántica y que su arte no fue de ruptura con
el franquismo, pero tampoco de reafirmación. En su repertorio existían
piezas de contenido social --Negrito de qué, Tabú, Del mismo color,
Angelitos negros...-- que denunciaban “viejas secuelas raciales”. Sin
embargo, este cantante mulato y extranjero por añadidura no fue
censurado ni limitado en el proyecto cultural español. Había llegado a
España antes de que  finalizara la Guerra Civil y había compartido con
los españoles los llamados Años del Hambre en un país arrasado por la
guerra, devorado por la incertidumbre y asfixiado por el bloqueo
económico.
Escribe Pérez Machado: “Aparentemente, Machín fue uno de los
caprichitos’ de Franco porque su propuesta artística pudo coexistir y
sobrevivir los 39 años de dictadura. Su repertorio alegre, de temas
amorosos, domésticos, intimistas y felices no ‘molestaron’ al
dictador, quien desapareció a cientos de creadores de diversas
manifestaciones artísticas del escenario cultural ibérico. Machín fue
refugio espiritual para el desaliento de los españoles, porque les
cantó al amor, a la esperanza, a la fe, y también a la igualdad, a la
sinceridad y a la fidelidad, fue, al decir de muchos, una salvadora
palmada de ángel en aquellas mejillas apesadumbradas”.

Con Cuba

De Isolina Carrillo interpretó Dos gardenias; de Osvaldo Farrés,
Madrecita y Tres palabras; de Julio Brito, Mira que eres linda...Otros
compositores cubanos presentes en el repertorio de Machín son Juan
Arrondo, Luis Marquetti, René Márquez, Orlando de la Rosa, Adolfo
Guzmán, Ignacio Piñeiro, Leopoldo Ulloa y Margarita Lecuona, entre
otros muchos, cuyas obras interpretó con su voz suave y acariciadora,
hecha de azúcar y de mar. Fue él quien introdujo el chachachá en
España.
En 1958 estuvo en Cuba y compartió en Sagua la Grande con familiares y
amigos. Aunque vino en visita privada aceptó gustoso el reconocimiento
que la CMQ-Canal 6 e importantes radioemisoras le hicieron por su
labor de difusión de la música cubana en el exterior.
En 1943 se casó en España con una española y allí nació su única hija.
Se consideró un hombre con dos patrias y su fidelidad a ambas hizo que
popularmente se le calificara como “el más español de los cubanos y el
más cubano de los españoles”.
En 1972 reafirmó ante la prensa su condición de cubano cuando, sin que
nadie lo esperara, se personó en el Pabellón Cuba de la Feria
Internacional de Barcelona y se presentó con el dúo Los Compadres. Un
año después compartió la escena con una delegación artística de la
Isla que conformaban Pacho Alonso y su orquesta, Los Papines y la
intérprete Ela Calvo, quienes hacían una gira por España. Y en febrero
de 1977, poco antes de su muerte, viajó a Barcelona para departir con
Carlos Puebla.
Machín decía que nadie lo había enseñado a cantar. Su música fue
siempre cubana y dejó en España una imagen artística perdurable. De él
diría el famoso realizador español Pedro Almodóvar: “Él fue quien me
metió el bolero en la sangre”.

Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/