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lunedì 8 giugno 2015

Appunti di viaggio: Baracoa, in un buon momento, di Ciro Bianchi ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 7/6/15

Si dice che chi si bagna nelle acque deli río Miel, non se ne andrà mai da Baracoa. L’affermazione, indubbiamente esagerata, serve per dare risalto a un fatto sicuro: colui che visiti questa città della regione orientale cubana, avrà sempre il desiderio di tornarci. Sono stato lì per l’ultima volta nel 1995 e senza che possa spiegare il motivo, avevo una voglia matta di tornare. Questo reportage è stato solo un pretesto. Situata a oltre mille chilometri all’est dell’Avana e a 250 da Santiago de Cuba Baracoa, fondata 504 anni fa, è la prima città di Cuba; come si legge nel suo scudo: “La prima nel tempo”. Il suo nome, nella lingua dei primi abitanti della regione, secondo alcuni vuol dire “terra alta” e per altri “esistenza del mare”.
Date le caratteristiche del luogo dove si edificò. Qualunque dei due significati potrebbe essere valido perché Baracoa è incastonata fra l’oceano e le montagne che esibiscono una vegetazione esuberante e lussureggiante.
Uno scenario che unito all’indolenza dei governanti coloniali e repubblicani, condizionò per secoli l’isolamento della zona, il suo ritardo culturale e un’economia agricola ridotta al taglio di alberi, coltivazione di banana e cocco, ma sopratutto il cacao.
Fino al 1965, quando si inaugurò il viadotto de La Farola, il territorio non aveva comunicazione via terra col resto del Paese, salvo quella che si poteva fare a piedi o col mulo per stretti sentieri di montagna. Come se si trattasse di una delle tante isolette dell’arcipelago cubano, vi si arrivava per mare, in una goletta che faceva il viaggio da Santiago de Cuba. Oppure in un aeroplano sgangherato che volava due volte al giorno, sempre che il tempo lo permettesse. Così dire Baracoa, come Cabo San Antonio, all’altro estremo occidentale dell’Isola, era come menzionare la fine del mondo.
Fu fondata nel 1511 e per quattro anni fu la capitale della Colonia, ma quando nel 1518 le si concesse il titolo di città, era già praticamente disabitata. A partire da lì e fino alla vittoria della Rivoluzione nel 1959, visse abbandonata alla sorte. Castigata dai cicloni, le sollevazioni indigene, gli attacchi di corsari e pirati e ancora, per l’indifferenza dei governanti, Baracoa si convertì nella Cenerentola di Oriente. La prima nel tempo era anche la città più abbandonata.

Da lontano del Yunque

La Farola è un’elevazione montagnosa imponente e il viadotto che l’attraversa, un’opera d’impegno: ha diviso nel centro il massiccio Sagua-Baracoa, il più folto e intricato di Cuba. Lo si inserisce fra le sette meraviglie dell’igegneria civile cubana.
Era urgente costruire il viadotto e per questo si adattò alla topografia del terreno. Si cercarono le pendenze meno pericolose e si seguirono per lunghi tratti i passaggi che utilizzavano i contadini. La soluzione finale fu quella di cominciare dal terrreno solido e approfittare dell’appoggio del fianco per collocare lastre aeree e gli 11 ponti che pendono dalla montagna sostenuti da colonne. L’opera si concluse in 18 mesi e da allora Baracoa, capitale del municipio omonimo – 921 km quadrati e 80.000 abitanti; il 57% dei quali vive in zone rurali – fu finalmente, come suol dirsi, a portata di mano.
El Yunque, da lontano, domina il paesaggio. È una montagna la cui forma si presume tracciata dall’erosione delle acque del fiume Toa – il più impetuoso di Cuba – e dei suoi affluenti. Cristoforo Colombo lo menziona nel suo Diario di bordo. Chiama El Yunque “montagna alta e quadrata che sembrava un’isola”.

Riserva e patrimonio mondiali

È, dicono i naviganti, un faro naturale. El Yunque si avvista a gran distanza dal mare e serve da guida ai marinai che cercano di arrivare a Baracoa. I suoi fianchi, coperti di boschi, sono l’habitat di non poche specie endemiche e in essi si sono trovati numerosi resti archeologici taínos, etnia con una forte presenza nella zona.
In una metafora visiva fatta conoscere da The Natura Conservancy, una pubblicazione scentifica nordamericana, si suppone che la dimensione di un Paese lo determinerebbe la sua biodiversità. Cuba allora avrebbe un’estensione territoriale maggiore che tutta l’America del nord e lascerebbe piccoli l’America Latina e i Caraibi. Il peso maggiore di questa affermazione ipotetica, secondo gli specialisti, lo deciderebbe Baracoa, regione che riporta la maggior endemicità di flora e fauna dell’arcipelago cubano. Per questo Baracoa e la regione geografica in cui si trova, le cosiddette Cuchillas del Toa, sono Riserva Mondiale della Biosfera e Patrimonio dell’Umanità.
Il bosco pluviale si alterna con il chascarral (pianta endemica) n.d.t.) e il pino cubano e conserva oltre cento specie autoctone, fra le altre alcune cocotrinas, l’ocuje colorado e tre dei quattro tipi di palme cubane. È l’ultimo rifugio del picchio reale, minacciato d’estinzione e dell’almiquì, fossile vivente ugualmente in pericolo. Molto ricca é la sua varietà di vertebrati. È anche l’ambiente esclusivo della polymita, piccola chiocciola di grande bellezza e colori senza uguali, unica al mondo.

La croce della vite

Un soggiorno a Santiago de Cuba propiziò che lo scriba saltasse a Baracoa. Un viaggio di quattro ore per strada. La prima città è lunga e stretta. Vista sulla carta fa l’impressione di una gronda che esce sul lungomare della città, per estensione la terza del Paese, superata dall’Avana e Cienfuegos. Le case, generalmente, sono dai soffitti alti, con tetti spioventi e tegole francesi. Le finestre sono spagnole. La maggior parte delle edificazioni non sono molto antiche, ma la città mantiene il tracciato coloniale della sue strade e piazze. Si sono ristrutturate molte abitazioni. Il boulevard dona nuova vita alla città, su di esso si affacciano commerci privati che assieme al turismo, contribuiscono al rinnovamento del territorio. Un albergo nuovo è stato costruito sul lungomare.
Ai due estremi della città sorgono imponenti fortezze coloniali. Quella di Matachín, nella baia de Miel e La Punta, nell’insenatura di Porto Santo. Entrambi baluardi sono complemento del castello di Seboruco, che si erge un po’ all’interno della costa, su una collina di una quarantina di metri di altezza.
Quando la capitale dell’Isola passò a Santiago de Cuba, Baracoa cadde in una dimenticanza dalla quale emerse nel XVIII quando, per ragioni di geopolitica, acquisì valore strategico. Fu allora, tra il 1739 e il 1743 che si costruirono i tre fortini menzionati e la città divenne, poi, il territorio meglio difeso della colonia dopo l’Avana.
Il Museo Municipale, installato nel forte Matachín, merita una visita. Come la chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione di Baracoa. In questo tempio si conserva il simbolo più antico della cristianità in America, La cosiddetta Croce della Vite, una delle oltre venti che lasciò Colombo nel suo primo viaggio e l’unica che è giunta a noi. Fu confezionata in legno di uvetta, un albero americano e le prove di carbonio 14 le confermano un’antichità che corrisponde con la scoperta del Nuovo Mondo. Le sue quattro estremità si dovettero foderare con latta argentata per evitare che i fedeli strappassero delle schegge per tenerle di ricordo. Perfino il dittatore Fulgencio Batista, al suo momento, prese il suo pezzettino.

Riso col cocco

A Baracoa si ascoltano e si ballano ancora il nengón e il kiribá, due delle maniere più remote del son tradizionale cubano. Vi è unforte movimento della cultura popolare. È molto diffuso un artigianato che lavora esclusivamente risorse naturali. Abbondano gli intagliatori del legno e i pittori naif.
A Baracoa c’è una cucina originale che si conosce appena nel resto del Paese. Il riso col cocco i baracoensi lo hanno come piatto tipico anche se, come a Barranquilla, Cartagena de Indias e altre città dei Caraibi. È un piatto delicatissimo, così come lo sono i pesci e frutti di mare cucinati in salsa di cocco. Per confezionare detta salsa, si macina la polpa del frutto e poi si spreme con un panno sottile. Poi le si aggiunge prezzemolo, silantro, cipolla, peperoncino piccante, origano, sale e si mette a fuoco lento fino a che si ispessisce e si ottenga la salsa.
La suprema è la tortina in foglie di Santo Domingo, ma a Baracoa – e quì sta la differenza – si cucina con latte di cocco. È come un tamal tradizionale, ma si utilizza la banana invece del mais. Questo latte da un tocco peculiare al calalú, cibo dei santi e degli dei che si elabora come in qualsiasi parte, con i germogli di tutti i tubercoli. Il frangollo non è altro che polpa di banana verde tostata e macinata. Il cucurucho, un dolce finissimo, è di cocco macinato e mescolato con arancia, ananas, papaya o miele, pasta che si avvolge nella fibra vegetale del cocco. La bola de cañon è come la patata ripiena, ma di banana acerba o matura. E il chorote non è altro che il conosciuto e apprezzato cioccolato ingrassato, questo sì, con amidi naturali.
Lo scriba e sua moglie hanno fatto un pranzo memorabile al Rancho Toa, sulla riva del fiume di questo nome, il più impetuoso di Cuba: ajiaco criollo, maiale arrosto allo spiedo, riso congrí, malanga e banane bollite e condite con un sughetto di cipolla...

Tra il sogno e la realtà

Degno di apprezzarsi da vicino e il miscuglio dei baracoensi. A differenza del resto del Paese, a Baracoa non vi furono grandi dotazioni di schiavi. Il bianco si è mescolato con discendenti di aborigeni e la forte presenza francese, a partire della Rivoluzione Haitiana, dette un altro tocco singolare. Dopo, già nel XX secolo, arriva a Cuba oltre mezzo milione di caraibici in cerca di lavoro come tagliatori di canna. Questa immigrazione, però, non arriva a Baracoa. Tutto questo origina una immobilità centenaria nella mescolanza, con caratteristiche specifiche che la distinguono dall’Avana e Santiago de Cuba.
Nel territorio sono radicate oltre 60 famiglie dal cognome francese. I loro antenati imposero alla città le loro mode e i loro usi, la lor filosofia e la loro letteratura controllando l’economia locale. Rivitalizzarono l’industria zuccheriera, che sparirà col tempo e introdussero nuove varietà nella semina del caffè.
Con lo sviluppo della banana (1902-1946) Baracoa tornò a conoscere un certo rifiorire per sommergersi nuovamente nella miseria e la disperazione quando le piaghe della pintadilla e la sigatoca rovinarono la maggior parte delle coltivazioni.
Nel pieno splendore bananifero, nel 1929, giunse in città la russa Magdalena Menasses. Suo padre, uno dei consiglieri dello zar venne fucilato, come il suo re, dopo la vittoria dell Rivoluzione di Ottobre. Lei vagò per il mondo fino ad arrivare a Cuba con suo marito Albert, pure russo, che dovette fuggire dal Paese in seguito all’attentato a Lenin, protagonizzato dalla terrorista Kaplan. Nessuno seppe mai perché si stabilirono a Baracoa, forse per sfuggire alla mano lunga del KGB. Ci riuscirono e lì stabilirono primam un caffè e poi un albergo che si mantiene tutt’ora aperto.
La si ricorda ancora come una “donna bivalente, doppia, sospetta”, come un essere “tratenuto tra il sogno e la realtà”. Alejo Carpentier la pres come riferimento quando concepì Vera, de La consagración de la primavera, uno dei personaggi più intriganti delle lettere cubane.

In un buon momento

Baracoa è un gioiello. Cayamba, “il trovatore dalla voce più brutta del mondo”, come lui stesso si definiva, chiamò la sua città “tesoro nascosto in uno scrigno di montagne”. L’immagine è giusta, ma incompleta. Perchè il tesoro sono anche le colline; i fiumi impetuosi che è possibile attraversare in canoa; il mare, la gente...
Sorprende il calore col quale si accoglie il visitatore in casa di qualsiasi contadino o pescatore. All’appena sopraggiunto non si dice “buon giorno” né “molto piacere” o “incantato”. Gli si dice solo: “in buon momento”. Ciò significa che l’arrivo è opportuno, ben ricevuto e che l’anfitrione è disposto a dividere il poco o tanto con chi lo visita.



Apuntes de viaje: Baracoa a buen tiempo
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
6 de Junio del 2015 20:38:40 CDT

Se dice que quien se baña una vez en las aguas del río Miel, no se
marcha nunca más de Baracoa. La afirmación, sin duda exagerada, sirve
para resaltar un hecho cierto: el que visite una vez esa ciudad de la
región oriental cubana, sentirá siempre el deseo de regresar. Estuve
allí por última vez en 1995 y, sin que pueda explicar los motivos, me
mataban las ganas de volver. Este reportaje fue solo un pretexto.
Situada a más de mil kilómetros del este de La Habana y a 250 de
Santiago de Cuba, Baracoa, que tiene 504 años de fundada, es la ciudad
primada de Cuba; como se lee en su escudo: «La primera en el tiempo».
Su nombre, en lengua de los primitivos pobladores de la región, quiere
decir, según unos, «tierra alta», y, para otros, «existencia de mar».
Dadas las características del lugar donde se ubicó, cualquiera de los
dos significados podría ser válido porque Baracoa está encajonada
entre el océano y las montañas que exhiben una vegetación tan
exuberante y lujuriosa.
Un escenario que, unido a la indolencia de los gobernantes coloniales
y republicanos, condicionó durante siglos el aislamiento de la zona,
su atraso cultural y una economía agrícola asentada en la tala de
árboles y los cultivos del plátano, el coco y, sobre todo, el cacao.
Hasta 1965, cuando se inauguró el viaducto La Farola, el territorio no
tuvo comunicación terrestre con el resto del país, salvo aquella que
podía hacerse a pie o en mulo por estrechos caminos de montaña. Como
si se tratase de una de las tantas isletas del archipiélago cubano, se
llegaba allí por mar, en una goleta que hacía el viaje desde Santiago
de Cuba. O en un avión destartalado que volaba dos veces al día
siempre que el tiempo lo permitiera. Así, decir Baracoa, al igual que
el Cabo de San Antonio, en el extremo occidental de la Isla, era
mentar el fin del mundo.
Se fundó en 1511 y fue durante cuatro años la capital de la Colonia,
pero cuando en 1518 se le concedió el título de ciudad, estaba ya
prácticamente despoblada. A partir de ahí y hasta el triunfo de la
Revolución en 1959 vivió abandonada a su suerte. Castigada por los
ciclones, las sublevaciones indígenas, los ataques de corsarios y
piratas y, más aún, por la indiferencia de los gobernantes, Baracoa se
convirtió en la Cenicienta de Oriente. La primera en el tiempo era
también la ciudad más preterida.

A lo lejos, el Yunque

La Farola es una elevación montañosa que impone y el viaducto que la
atraviesa una obra de envergadura: partió por su centro el macizo
Sagua-Baracoa, el más abrupto e intrincado de Cuba. Se le conceptúa
entre las siete maravillas de la ingeniería civil cubana.
Urgía construir el viaducto y por eso se adaptó a la topografía del
terreno. Se buscaron las pendientes menos peligrosas y se siguieron en
muchos tramos los trillos que utilizaban los campesinos. La solución
final fue la de partir del firme y aprovechar el apoyo de la ladera
para colocar las placas voladizas y los 11 puentes que cuelgan de la
montaña sostenidos por columnas. La obra concluyó en 18 meses y desde
entonces Baracoa, capital del municipio del mismo nombre —921
kilómetros cuadrados y 80 000 habitantes; el 57 por ciento de los
cuales vive en zonas rurales— estuvo al fin, como quien dice, al
alcance de la mano.
El Yunque, a lo lejos, domina el paisaje. Es una montaña cuya forma se
supone trazada por la erosión de las aguas del río Toa —el más
caudaloso de Cuba— y sus afluentes. Cristóbal Colón lo menciona en su
Diario de navegación. Llama a El Yunque «montaña alta y cuadrada que
parecía isla».

Reserva y patrimonio mundiales

Es, dicen los navegantes, un faro natural. El Yunque se divisa a gran
distancia mar adentro y sirve de guía a los marinos que buscan llegar
a Baracoa. Sus laderas, cubiertas de bosques son el hábitat de no
pocas especies endémicas y en ellas se han encontrado numerosos restos
arqueológicos taínos, etnia con una fuerte presencia en la zona.
En una metáfora visual dada a conocer por The Natura Conservancy, una
publicación científica norteamericana, se sugiere que si el tamaño de
un país lo determinara su biodiversidad, Cuba tendría entonces una
extensión territorial mayor que toda Norteamérica y dejaría pequeños a
la América Latina y el Caribe. El peso mayor de esa afirmación
hipotética, según los especialistas, lo decidiría Baracoa, región que
reporta el endemismo mayor de la flora y la fauna del archipiélago
cubano. Por eso Baracoa y la región geográfica donde se encuentra, las
llamadas Cuchillas del Toa, son Reserva Mundial de la Biosfera y
Patrimonio de la Humanidad.
El bosque pluvial alterna allí con el chascarral y el pino cubano y
guarda más de cien especies autóctonas, entre otras, algunas
cocotrinas, el ocuje colorado y tres de los cuatro tipos de palmas
cubanas. Es el último reducto del carpintero real, amenazado de
extinción, y del almiquí, fósil viviente igualmente en peligro. Muy
rica es su variedad de vertebrados. Y es también el ámbito exclusivo
de la polymita, pequeño caracol de gran belleza y colorido sin igual,
único en el mundo.

La cruz de la parra

Una estancia en Santiago de Cuba propició que el escribidor saltara a
Baracoa. Un viaje de cuatro horas por carretera. La ciudad primada es
alargada y estrecha. Vista en el mapa, causa la impresión de un alero
que le sale al malecón de la ciudad, en extensión el tercero del país,
 superado por los de La Habana y Cienfuegos.  Las casas, por lo
general, son de puntal alto, con techos a dos aguas y tejas francesas.
Las ventanas son  españolas. La mayoría de las edificaciones no son
muy antiguas, pero la ciudad sí mantiene el trazado colonial de sus
calles y plazas. Se remozaron numerosas viviendas. Nueva vida otorga a
la ciudad el bulevar, al que se asoman comercios privados que, junto
con el turismo, contribuyen a la renovación del territorio. Un nuevo
hotel se construyó en el malecón.
En ambos extremos de la villa se levantan sendas fortalezas
coloniales. La de Matachín, en la bahía de Miel, y La Punta, en la
ensenada de Porto Santo. Ambos baluartes complementan al castillo de
Seboruco, que se erige un poco retirado de la costa, sobre una loma de
unos 40 metros de altura.
Cuando la capital de la Isla pasó a Santiago de Cuba, Baracoa cayó en
un olvido del que emergió en el siglo XVIII cuando, por razones de
geopolítica, adquirió valor estratégico. Fue entonces, entre 1739 y
1743, que se construyeron los tres fuertes antes mencionados y la
ciudad pasó a ser el territorio mejor defendido de la colonia después
de La Habana.
El Museo Municipal, instalado en el fuerte Matachín, merece una
visita. Al igual que la iglesia de Nuestra Señora de la Asunción de
Baracoa. En este templo se conserva el símbolo más antiguo de la
cristiandad en la América, la llamada Cruz de la Parra, una de las
veintitantas que dejó Colón en su primer viaje y la única que ha
llegado a nosotros. Fue confeccionada con madera de uvilla, un árbol
americano, y las pruebas de carbono 14 le confirman una antigüedad que
se corresponde con el descubrimiento del Nuevo Mundo. Sus cuatro
extremos hubo que forrarlos con latón plateado para evitar que los
feligreses arrancaran astillas para llevarlas de recuerdo. Hasta el
dictador Fulgencio  Batista, en su momento, agarró su pedacito.

Arroz con coco

Todavía se escuchan y se bailan en Baracoa el nengón y el kiribá, dos
de las formas más remotas del son tradicional cubano. Hay allí un
fuerte movimiento de cultura popular.  Es muy extendida una artesanía
que trabaja en exclusiva los recursos naturales. Abundan los
talladores de madera y los pintores naif.
Hay en Baracoa una cocina original que apenas se conoce en el resto
del país. Al arroz con coco los baracoesos lo tienen como un plato
típico, aunque se come además en Barranquilla,  Cartagena de Indias y
otras ciudades caribes. Es un plato delicadísimo como lo son asimismo
los pescados y mariscos cocinados en salsa de coco. Para confeccionar
dicha salsa, se muele la masa del fruto y se exprime luego con un paño
fino. Se le añade después  achote (bija),  culantro, cebolla, ají
picante, orégano y su punto de sal y se pone a fuego lento hasta que
espese y se obtenga la salsa.
El bacán es el pastel en hojas de Santo Domingo, pero en Baracoa —y en
eso está la diferencia— se cocina con leche de coco. Es como el tamal
tradicional, pero utiliza plátano en vez de maíz. Esa leche da un
toque peculiar al calalú, comida de santos y de dioses que se elabora
allí como en cualquier parte, con los tallos de todos los tubérculos.
El frangollo no es más que la masa de plátano verde tostado y molido.
El cucurucho, un dulce finísimo, es de coco molido y mezclado con
naranja, piña, papaya o miel, masa que se envuelve en la fibra vegetal
del coco. La bola de cañón es como la papa rellena, pero de plátano
pintón o maduro. Y el chorote no es más que el conocido y gustado
chocolate, engordado, eso sí, con almidones naturales.
El escribidor y su esposa hicieron un almuerzo memorable en Rancho
Toa, a orillas del río de ese nombre, el más caudaloso de Cuba: ajiaco
criollo, puerco asado en púa, arroz congrí, malanga y plátanos
hervidos y aliñados con un mojo de cebolla…

Entre el sueño y la vida

Digno de apreciarse de cerca es el mestizaje del baracoeso. A
diferencia del resto del país, no hubo en Baracoa grandes dotaciones
de esclavos. El blanco se mezcló con descendientes de aborígenes, y la
fuerte presencia francesa, a partir de la Revolución Haitiana, dio
otro toque singular. Luego, ya en el siglo XX, vienen a Cuba más de
medio millón de caribeños en busca de trabajo como macheteros en los
cortes de caña. Pero esa migración no llega a Baracoa. Todo eso
origina una inmovilidad centenaria en el mestizaje, con
características y especificidades que lo distinguen y diferencian del
de La Habana y Santiago de Cuba.
Más de 60 familias con apellidos franceses radican hoy en el
territorio. Sus antepasados impusieron en la villa sus modas y sus
costumbres, su filosofía y su literatura, y controlaron la economía
local. Revitalizaron la industria azucarera, que desaparecería con el
tiempo, e introdujeron nuevas variedades en la siembra del café.
Con el auge del banano (1902-1946) volvió Baracoa a conocer de cierto
florecimiento para sumirse de nuevo en la miseria y la desesperanza
cuando las plagas de la pintadilla y la sigatoca arruinaron la mayor
parte de los cultivos.
En pleno esplendor bananero, en 1929, llegó a la ciudad la rusa
Magdalena Menasses. Su padre, uno de los consejeros del zar, fue
fusilado, al igual que su rey, tras el triunfo de la Revolución de
Octubre. Peregrinó ella por el mundo hasta llegar a Cuba junto con su
esposo Albert, también ruso, que tuvo que huir de su país cuando fue
involucrado en el atentado a Lenin que protagonizó la terrorista
Kaplan. Nadie supo nunca por qué se asentaron en Baracoa, quizá para
librarse del brazo largo de la KGB. Lo lograron y allí establecieron
primero un café y luego un hotel que aún se mantiene abierto.
Todavía se le recuerda en la cuidad como una mujer «ambivalente, dual,
sospechosa», como un ser «detenido entre el sueño y la vida». Alejo
Carpentier la tomó de referente cuando concibió a la Vera de La
consagración de la primavera, uno de los personajes más subyugantes de
las letras cubanas.

A buen tiempo

Baracoa es una joya. Cayamba, «el trovador de la voz más fea del
mundo», como él mismo se identificaba, llamó a su ciudad «tesoro
escondido en un cofre de montañas». La imagen es justa, pero
incompleta. Porque el tesoro es también el lomerío; los ríos
caudalosos, que es posible transitar en cayuca; el mar y la gente…
Sorprende el calor con que se acoge al visitante en la casa de
cualquier campesino o pescador. No se le dice al recién llegado
«buenos días» ni «mucho gusto» ni «encantado». Se le dice solo: «A
buen tiempo». Lo que significa que la llegada es oportuna, bien
recibida y que el anfitrión está dispuesto a compartir lo mucho o lo
poco con quien lo visita.

Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/



domenica 7 giugno 2015

Sciacquare

SCIACQUARE: praticare sci nautico

sabato 6 giugno 2015

Scemare

SCEMARE: perdere intelligenza

venerdì 5 giugno 2015

66° Torneo Hemingway

Il Comodoro Escrich, presidente del Club Nautico Internazionale di Marina Hemingway, ha reso noto che la prossima edizione del Torneo di Pesca al Marlin, si svolgerà dal 13 al 18 giugno 2016.

Scatologia

SCATOLOGIA: studio dei contenitori

giovedì 4 giugno 2015

Ma il "futból" lo vogliamo sviluppare davvero?

Come previsto, grande entusiasmo per l'incontro tra la rappresentativa nazionale cubana e il Cosmos di New York. Secondo le previsioni e aspettative dovrebbe essere il primo incontro di una futura serie di livello alto a carattere internazionale. Per il momento bisogna affrontare la fase eliminatoria per il Mondiale di Russia 2018 e le prospettive non sono rosee. Il primo incontro per la zona del centro-nord-America e Caraibi sarà il prossimo 10 giugno in un confronto con Curaçao in trasferta e ritorno il 14 all'Avana.
Cuba è stata ammessa direttamente alla seconda fase eliminatoria mentre Curaçao ha dovuto vincere la prima per potervi accedere. Poi, se si supera questo non invincibile scoglio...le difficoltà aumenteranno e nella fase finale ci saranno quasi certamente Stati Uniti, Messico, Canada e Costa Rica a competere per i tre posti disponibili, più uno da disputare con finalisti di altri continenti.
Credo che anche con l'ottimismo più sfrenato, anche per questa edizione ci siano ben poche speranze di accedere alla fase finale. In ogni caso, per potersi presentare con decoro agli incontri di un certo livello internazionale credo che si debba mettere mano, seriamente, alle strutture del Pedro Marrero. In modo particolare e prioritario al terreno che più che per il calcio sembra adatto alla semina e raccolta di tuberi. Veramente indecente.
Lo si è visto, una volta di più, in occasione dell'incontro col Cosmos dove gli ospiti si muovevano veramente a disagio. La pioggia, per fortuna non eccessiva, caduta poco prima dell'incontro ha per fortuna attenuato le asperità del terreno anche grazie a (forse l'unica struttura che funziona bene) un buon drenaggio.
Probabilmente le difficoltà, economiche, maggiori si potrebbero avere con l'impianto d'illuminazione, ma non credo occorrano capitali immensi per sollevare 20/30 centimetri di terreno, spianarlo e sostituirlo con terra ed erba di miglior qualità per la bisogna.
Tutto sommato, al di la dei risultati, si tratta anche di una questione di prestigio e di cortesia nei confronti delle squadre ospiti. Se si vuole che Cuba faccia il suo ingresso in qualche scalino più alto nel mondo del calcio.


Scapola

SCAPOLA: senza marito

mercoledì 3 giugno 2015

La diplomazia del pallone

Dopo 43 anni dalla "diplomazia del ping pong" che ha fatto riavvicinare gli Stati Uniti di Nixon alla Cina di Mao è arrivata, a complemento di tutte le altre azioni in corso, la diplomazia del pallone. Indubbiamente un evento importante e non solo sotto l'aspetto sportivo, anzi, la visita del New York Cosmos all'Avana con l'autorevole accompagnamento del suo vice presidente ed ex giocatore Edson Arantes do Nascimiento, meglio conosciuto come Pelé.
Cause di forza maggiore mi hanno impedito di recarmi al Pedro Marrero per assistere all'incontro. Mi sarebbe piaciuto anche incontrare o' Rey che ricordo a Milano nel 1958 quando la nazionale brasiliana era di passaggio per un'amichevole prima di recarsi in Svezia per i mondiali che poi vinse, grazie proprio a questo ragazzino di 17 anni che nessuno conosceva. Essendo ammiratore del calcio brasiliano mi recai all'esterno dell'albergo Astra di corso Vittorio Emanuele II per assistere alla partenza in bus della squadra, verso l'aeroporto di Linate. Come altri tifosi eravamo lì per vedere Didí, Vavá, Garrincha, Djalma e Nilton Santos, Bellini, Orlando e chi prestava attenzione allo sconosciuto Pelé? Pochi anni dopo, quando era diventato famoso in modo fulminante, ho potuto vederlo giocare a San Siro in due occasioni: la prima contro il Milan e uno o due anni dopo contro l'Inter. In entrambe le occasioni con la divisa bianca del Santos e con due prestazioni maiuscole nonostante si trattasse di incontri amichevoli, entrambi vinti dai brasiliani.

Fonte: El Nuevo Herald


Cubanos vivieron una fiesta en partido del Cosmos

El jugador del Cosmos Carlos Méndez (izq.) lucha por la pelota con Maikel Reyes, del equipo de Cuba, el martes 2 de junio del 2015 en La Habana.Desmond Boylan AP
Agence France Presse

 LA HABANA 
La fiesta en las graderías comenzó dos horas antes de que el árbitro Yadel Martínez pitara el inicio del histórico partido amistoso que el Cosmos de Nueva York ganó 4-1 a la selección cubana este martes, con el rey Pelé como invitado estelar.
No fue un partido tradicional, pues todos quedaron felices al término de los 90 minutos, incluso los jugadores e hinchas del equipo perdedor, pues a nadie le importaba el resultado, porque en la cancha no había puntos en juego, sino algo más valioso: la naciente amistad entre Estados Unidos y Cuba, tras medio siglo de hostilidad.
“A nosotros los cubanos nos cuesta tanto trabajo ver alguna figura de renombre cerca de nosotros, entonces eventos como éste no se pueden dejar pasar”, dijo a la AFP Manuel Díaz, quien lucía una camiseta con la bandera estadounidense, y un pañuelo con el mismo emblema en su cabeza, y tocó ruidosamente una ‘vuvuzela' durante todo el partido disputado en el Estadio Pedro Marrero de La Habana.
Varios espectadores ondeaban banderas estadounidenses, algo que no se veía en Cuba desde la revolución de 1959, suceso que convirtió a estos dos países separados por 150 km de mar en adversarios de la Guerra Fría.
Al encuentro asistieron unos 20,000 espectadores, que no se amilanaron por la persistente llovizna que cayó durante todo el día sobre La Habana, lo que provocó que el encuentro se jugara bajo una temperatura inusualmente baja para esta época del año: apenas 23 grados Celsius.
Un momento particularmente emotivo se vivió antes del partido, cuando el Coro de la Academia Nacional de Canto de Cuba entonó los himnos nacionales de ambos países: primero “La Bayamesa”, de Cuba, y luego “Star-spangled Banner”, de Estados Unidos.
Una ovación recibió a Pelé cuando apareció en el balcón del edificio de la administración del Estadio, desde donde siguió el juego del equipo en el que terminó su carrera futbolística en los años 70, tras haber ganado tres Copas del Mundo, un récord que nadie más posee.
También fue recibido con una ovación el estelar del Cosmos, el galáctico Raúl, goleador histórico del Real Madrid, quien fue vitoreado indistintamente por los aficionados cubanos del equipo ‘merengue' y por los del Barcelona.
Era difícil distinguir qué colores dominaban en la gradería, pues aunque muchos aficionados cubanos lucían la camiseta blanca del Real Madrid, también había otros con camisetas azulgrana del Barcelona, así como con albicelestes de la selección argentina y rojas del seleccionado español.
En una isla donde el béisbol ha sido el deporte más popular, el fútbol ha ido ganando adeptos principalmente entre los más jóvenes. A falta de una liga local competitiva, muchos cubanos siguen el torneo español, así como la Champions League de Europa.
“De chiquito practico fútbol, hoy es una gran alegría que haya podido venir el equipo del Cosmos para jugar aquí contra nosotros. Estos topes nos vienen bien para mejorar la técnica”, dijo a la AFP Leonel Hernández, quien ondeaba una bandera norteamericana y otra cubana en el mismo palo, y vestía la camiseta roja del Bayern de Múnich.
El Cosmos fue el primer equipo de fútbol estadounidense que jugó en Cuba en casi cuatro décadas, desde que el Chicago Sting disputó un amistoso en La Habana en 1978, aunque los seleccionados de ambos países se volvieron a enfrentar en 2008 por las eliminatorias para el Mundial de Sudáfrica-2010.
El Cosmos sentenció el partido en el primer tiempo, con los goles del zimbabuense Lucky Mkosana (minuto 8 y 41), del uruguayo Sebastián Guenzatti y de Hagop Chirishian (35). Pero eso no le quitó el ánimo a los espectadores.
El cuadro cubano mejoró considerablemente en el segundo tiempo, con un gol de Andy Baquero (50), pero no tuvo fortuna para culminar sus otras ofensivas con el balón en la red del visitante.
Cuando el árbitro Martínez pitó el final del encuentro, los jugadores de ambos equipos se abrazaron, conscientes de que habían hecho historia, sin importar quién había ganado.



Pelé y Raúl auguran promisorio porvenir al fútbol en Cuba

AFP

LA HABANA 




El rey Pelé y el “galáctico” Raúl auguraron este lunes un promisorio porvenir al fútbol en Cuba, adonde llegaron para el histórico partido amistoso del martes entre el Cosmos de Nueva York y la selección cubana.
“Cuba muy pronto tendrá un equipo en la Copa del Mundo”, dijo Pelé quien destacó que Estados Unidos, donde él finalizó su carrera, así como Venezuela y Colombia, han ido mejorando su nivel competitivo en el fútbol.
“El fútbol en Cuba puede ser lo mismo”, expresó Pelé, quien afirmó que el balompié, al que calificó como “la mayor familia del mundo”, está ayudando ahora a “la paz entre Estados Unidos y Cuba”.
La isla nunca ha clasificado a un Mundial. Su única participación fue en Francia-1938, al que llegó invitada.
Pelé, estrella del Cosmos en los años 70, y Raúl, su jugador actual más destacado, llegaron a la isla comunista con el club de Estados Unidos para disputar el primer duelo deportivo entre ambos países desde el histórico acercamiento iniciado en diciembre.
Esta es la primera vez que ambos visitan Cuba, que no recibía a un equipo de fútbol estadounidense desde 1978, cuando jugó un amistoso el Chicago Sting, aunque en 2008 la selección norteamericana disputó en La Habana un encuentro de la eliminatoria al Mundial de Sudáfrica-2010.
Raúl, el máximo goleador del Real Madrid antes de ir al Cosmos, dijo estar sorprendido por la cantidad de aficionados al fútbol que encontró en La Habana: “Para mí ha sido una gran sorpresa la cantidad de gente que me ha reconocido, que me ha parado, que ha querido hacerse una foto” con él.
“Mucha gente (hay) del Real Madrid, mucha gente también del Barcelona, yo creo que es importante, es un país que vive el fútbol con pasión, que sobre todo la Liga Española la siguen con mucho interés”, indicó el galáctico, quien jugará en el amistoso del marte.
“Ojalá que logren en un país como Cuba que los niños empiecen a jugar al fútbol mucho más y que el fútbol sea un deporte muy importante”, añadió.
Si bien el béisbol es el deporte más popular en la isla, el fútbol ha ido ganando adeptos. En los barrios y estadios de Cuba se ven cada vez más jóvenes jugando fútbol y, a falta de una liga local competitiva, los aficionados cubanos siguen por televisión a los dos grandes equipos españoles, el Real Madrid y el Barcelona.

7u

Scalmo

SCALMO: agitato

martedì 2 giugno 2015

Scafoide

SCAFOIDE: imbarcazione improvvisata

lunedì 1 giugno 2015

Concluso il 65° Torneo Hemingway di pesca

Con la partecipazione di 25 imbarcazioni e 136 pescatori, provenienti da 8 Paesi, si è conclusa anche questa edizione dell'annuale Torneo di pesca al marlin. Massiccia la partecipazione statunitense che per la prima volta dopo oltre 50 anni ha potuto usufruire delle proprie imbarcazioni giunte dalla Florida.
La classifica finale vede al primo posto l'imbarcazione Billy the Kid, scortata da Triple F e Unclaimed, rispettivamente seconda e terza.
L'Italia era rappresentata, come tradizione, da un equipaggio di Olbia, guidato dal capitano Paolo Sala con: Mario Addis, Massimo Mignogna e Fausto Pinna, ha partecipato con "Marlin XI".





Vandalismo, tutto il mondo è paese

Quest'opera, esposta in uno dei cortili della fortezza di San Carlos de la Cabaña rappresenta(va) uno sguardo dal Malecón e in un angolo del "muro" era presente una minuscola figura umana. I soliti ignoti hanno pensato bene di strapparla. Per avere un trofeo o per puro vandalismo senza altro fine?













Altre immagini della Biennale


Sbracciato

SBRACCIATO: monco

Altri luoghi dell'Avana, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 31/5/15


Dove si trovava la Piazza della Polveriera che lei menziona in alcune delle sue pagine? Che edificio ricordano le rovine che sfidano il tempo in Calzada tra Paseo e 2 nel Vedado? A cosa deve il suo nome il ristorante 1830? Qual’èla storia del Parque Maceo, di fronte all’ospedale Hermanos Amejeiras, alla fine del primo tratto del Malecón e all’altezza della calle Belascoain? Lettori giovani e non tanto giovani abbordano lo scriba per la strada con queste e altre domande, alle quali cercherò di rispondere adesso. Comincerò da quest’ultima.
Il Parque Maceo, si è inaugurato il 20 maggio del 1916, quando si inaugurò il monumento col quale si rende omaggio al Luogotenente Generale dell’Esercito di Liberazione, opera dello scultore italiano Domenico Boni. Una legge del 1910, firmata dal presidente José Miguel Gómez, disponeva la realizzazione della statua e prevedeva un investimento di 100.000 pesos. In virtù di questa disposizione si emise nel 1911 un bando di concorso in cui si chiamavano gli “scultori del mondo” ad inviare le loro proposte al concorso. L’inaugurazione ebbe luogo sotto la presidenza del maggior generale Mario Garcia Menoca.
La piattaforma del monumento si appoggia in quattro grandi figure rappresentative: davanti, L’Azione e il Pensiero; dietro, la Gistizia e la Legge. Di fronte al piedestallo, il rilievo di Mariana nel momento di far giurare fedeltà e sacrificio per la Patria ai suoi figli. Dietro, nello stesso piedestallo, la rappresentazione della battaglia  di Peralejo. Attorno al blocco, quattro grandi rilievi evocano imprese del Titano: Mangos de Begía de Baraguá, Cacarajícara e La Indiana. Sul fronte la Vittoria vola sopra una prora spinta dalle anime degli eroi. Nella parte posteriore, la Repubblica con la bandiera spiegata al vento, accoglie grata l’assistente, la figura più umile dell’esercito. Sopra il blocco, sul bordo dei due lati, due rilievi: il trionfo della Pace e del Lavoro. Di fronte lo scudo della Repubblica; dietro, los cudo dell’Avana.
A coronamento, la statua equestre di Maceo. Veste uniforme militare con la testa scoperta, porta il machete in una mano e con l’altra sostiene le redini del suo cavallo. Guarda davanti e arringa i suoi uomini a lanciarsi nel combattimento. Le parti scultoriche e decorative del monumento sono di bronzo, il granito prevale nella parte costruttiva.
Nel trascorso del tempo, il parco è stato oggetto di modifiche. Fu danneggiato molto dall’uragano del 1926, come si apprezza nelle testimonianze grafiche dell’epoca. La sua ampiezza e la sua posizione di fronte al mare consolidano la sua grandiosità e bellezza.
Nel luogo che occupa, esisteva una fortezza spagnola, la Batería della Reína e anche una insenatura del mare, la Caleta de San Lázaro che si menziona nelle cronache più antiche dedicate all’Avana.

Le rovine di Calzada

Le rovine di Calzada, tra Paseo e 2 –appena due o tre colonne-, corrispondono al salone-hotel Trotcha, fondato nel 1886 dall’impresario catalano Buenaventura Trotcha che visse oltre 70 anni all’Avana, dove morì nel 1910.
L’installazione cominciò con un salone –bar, caffè, ristorante- al quale si aggunse, col tempo, una sezione di alloggio.. Lo scriba crede di ricordare che lì si alloggiò il comando delle truppe nordamericane che occuparono la capitale dell’Isola nel 1899 e che in uno dei suoi saloni, la Spagna firma la capitolazione della città. Aveva dei giardini bellissimi ai quali si accedeva da Paseo, così come un allevamento di coccodrilli che colpiva gli ospiti e i visitatori. Una guida turistica dell’Avana, elaborata negli Stati Uniti, garantisce che era ancora aperto nella metà degli anni ’50. Col tempo sparì l’area degli alloggi che era di legno e rimase il salone in muratura, adattato a casa d’abitazione, un incendio terminò di distruggerlo all’inizio della decade del 1990.
Il poeta Julián del Casal le dedicò una delle sue cronache, pubblicata sul giornale La Discusión del 23 gennaio del 1890. Nella sua pagina confessa che il giorno prima decise di recarsi “al poetico villaggio del Vedado per distogliersi dalle molestie, camminare all’aria aperta e sfuggire ai modesti divertimenti della cità”.
Era al tramonto. Gli ultimi riflessi del sole galleggiavano sparsi sulle onde, immobili, del mare. Il caldo si mitigava e si respirava un’aria fresca che sembrava uscire da immensi ventagli agitati da mani invisibili. I pescatori attendevano la cattura, ricurvi sulle reti tese...il poeta era arrivato “al sorridente paesetto, il più tranquillo, il più pittoresco, il più moderno fra quelli che si trovano nei dintroni della capitale.
Chiunque viva all’Avana lo ha visitato qualche volta. Ha la brillantezza di una moneta nuova el’allegria silenziosa della popolazione. La miseri non è penetrata nei suoi ambito e i suoi abitanti sembrano fortunati. Si rifugiano lì nei mesi d’estate, quelli che il caldo fa esiliare dalla città, gli scarsi possidenti di mezzi di fortuna e quelli che non osano allontanarsi dal suolo natìo.
Dentro questo luogo incantevole si sono elevato, negli ultimi anni, numerosi edifici costruiti modernamente e di diverse proporzioni. Il più grande di tutti è il salone Trotcha, dalloo stesso nome del suo proprietario. Nei primi anni è stato il punto di riunione dergli stagionali ed è stato trasformato in un magnifico albergo, simile a quelli di Nizza, Cannes, San Sebastian e altre città balneari”.
Il cronista descrive l’installazione: l’inferriata, l’affascinante giardino, i sentieri coperti di sabbia a modo di parco inglese, i capitelli spaziosi alla cui ombra gli ospiti riposano e egustano le bevande di loro preferenza.
Nel ristorante, aperto sul piano dell’edificio che è a livello del giardino, tutto invita a soddisfare le necessità umane più imperiose. I manicaretti squisiti, la qualità del servizio, la profusione di liquori, la raffinatezza delle tovaglie e vasellame, la delicatezza dei proprietari, fanno sì che la Trotcha sia il luogo prescelto dalle persone dai gusti più esigenti.
Dal ristorante si sale al piano principale e il visitatore si trova in un salone elegante que mostra mobili laccati, specchi veneziani, tappeti sontuosi, vasi giapponesi e tavoli coperti da uncinetti. “Questo salone ha l’aspetto di un ‘parloir’ inglese, dice Casal. Dietro ci sono le stanze degli ospiti, arredate lussuosamente”.
Il poete conclude: “Questo albergo, descritto frettolosamente perché i nostri lettori se ne possano fare un’idea, è preparato all’altezza dei migliori d’Europa. Non ha niente da invidiare a nessuno di loro”.
Relativamente vicino a questo albergo, già scomparso. Nella stessa calle Calzada, si trova il ristorante 1830. Occupa la magione che fu proprietà di Carlos Miguel de Céspedes, ministro delle Opere Pubbliche nel governo dittatoriale di Gerardo Machado e senatore della Repubblica al momento della sua morte, nel 1954. Allora, José Curraís Fernández, proprietaro de La Zaragozana, volle acquisire l’immobile. Le nipoti di Carlos Miguel, confessó allo scriba una di loro molto tempo fa, si negarono a vendere, ma finirono per affittarglielo. Così sorgeva il ristorante 1830 che è la data in cui si fondò la Zaragozana.

La polveriera

Nel 1868, dopo l’abbattimento delle Mura, il Municipio avanero, interessato a creare un novo mercato, ottenne dalla Corona spagnola il terreno delimitato dalle calli Monserrate, Zulueta, Ánimas e Trocadero. A partire dal 1882 si costruì in questo spazio, conosciuto come Piazza della Polveriera, il mercato di Colón che terminerà dando il nome a tutto il quartiere.
Nell’opinione dello storico Emilio Roig, nel suo libro La Habana: apuntes historicos, si trattò del migliore dei mercati che dal punto di vista architettonico, ebbe l’Avana. Era una grande costruzione di mattoni, con una rotonda centrale formata da colonne di ferro fuso e una cupola d’acciaio nella parte centrale della facciata principale, sulla calle Zulueta.
L’edificio fu progettato ed eseguito a un costo di 100.000 pesos oro spagnoli, dall’architetto José María Ozón e l’ingegner José C. Del castillo, entrambi cubani, con la collaborazione di Emilio Sánchez Osorio, architetto municipale.
Joaquin Weiss elogiava i tipici archi romani che circondavano tutto l’isolato, mente un altro importamnte architetto, José M. Bens precisava: “Ozón ha dato tanta importanza e tanta ampiezza al bel portico che circondava l’edificio all’altro che costeggiava il cortile che con questo raggiunse questa qualità, quasi imponderabile, di maestria che hanno i capolavori”.
Il muncicipio avanero dette la concessione del mercato al signor Francisco Tabernilla, padre del militare dallo stesso nome che dopo il colpo di stato del 10 marzo 1952, coi gradi di Maggior Generale, arriverà ad essere prima capo dell’Esercito cubano e poi dello Stato Maggiore Congiunto. La concessione si rilasciò per 25 anni, trascorsi i quali il mercato sarebbe passato in possesso del municipio avanero. Nelle sue gallerie e portici operavano più di 200 esercizi commerciali di ogni tipo, mentre che i piani superiori erano occupati da circa 500 inquilini quando, nel 1947, il Ministero della Salute ordinò la sua chiusura definitiva. Federico Villoch, nella sua Vecchie cartoline scolorite, dice che “un teatro cinese che occupava parte del piano superiore de la Plaza del Polvorin, manteneva sempre in agitazione i dintorni con i suoi rumorosi e dissonanti accordi il gemito penetrante dei suoi archi e violini...”
Li si costruì il Palazzo delle Belle Arti per dare spazio al Museo Nazionale. Emilio Roig dice che per il suo valore di bellezza permanente e tipicità, il Mercato di Colón o Plaza del Polvorin, meritava di essere salvato. Così sembrava che fosse già che all’inizio si pensava di mantenera nella nuova edificazione i bellisimi esterni dell’edificio esistente che cominciarono ad essere restaurati e si costruì, secondo i progetti dell’architetto Evelio Govantes una bella entrata, non da Zulueta come nel caso anteriore, ma da Trocadero, di fronte al Parco Zayas –attuale Memorial Granma-.

Il progetto rimase per strada. I funzionari responsabilizzati con la costruzione del futuro Palazzo e Museo vollero l’edificio completamente moderno e funzionale e così, dice Roig, “fu demolito uno dei migliori esemplari dell’architettura del periodo neoclassico”.


Otros lugares de La Habana
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
30 de Mayo del 2015 20:59:01 CDT

¿Dónde se ubicaba la Plaza del Polvorín, que usted menciona en alguna que otra página? ¿De qué edificio guardan recuerdo las ruinas que desafían el tiempo en Calzada entre Paseo y 2, en el Vedado? ¿A qué debe su nombre el restaurante 1830?  ¿Cuál es la historia del parque Maceo, frente al hospital Hermanos Ameijeiras, al final del primer tramo del Malecón y a la altura de la calle  Belascoaín?  Lectores jóvenes y no tan jóvenes abordan al escribidor en la calle con esas y otras preguntas, que intentaré responder ahora. Comenzaré por la última de ellas.
El parque Maceo se inauguró el 20 de mayo de 1916, cuando se develó el monumento con el que se rinde homenaje al Lugarteniente General del Ejército Libertador, obra del escultor italiano Domenico Boni. Una ley de 1910, firmada por el presidente José Miguel Gómez, disponía la realización de la estatua y establecía para ello un presupuesto de 100 000 pesos. En virtud de esa disposición se libró en 1911 una convocatoria pública, en la que se llamaba a «los escultores del mundo» a enviar sus propuestas al certamen. La inauguración tuvo lugar bajo la presidencia del mayor general Mario García Menocal.
La plataforma del monumento se asienta en cuatro grandes figuras representativas: delante, la Acción y el Pensamiento; detrás, la Justicia y la Ley. En el frente del zócalo, el relieve de Mariana, en el momento de hacer jurar a sus hijos fidelidad y sacrificio por la Patria. Detrás, en el mismo zócalo, la representación de la batalla de Peralejo. Alrededor del fuste cuatro grandes relieves evocan hazañas del Titán: Mangos de Megía Baraguá, Cacarajícara y La Indiana. En el frente, la Victoria vuela sobre una proa empujada por las almas de los héroes. En la parte posterior, la República, con la bandera desplegada al viento, acoge agradecida al asistente, la figura más humilde del Ejército. Arriba del fuste, en el remate de los lados, dos relieves: el triunfo de la Paz y del Trabajo. En el frente, el escudo de la República; detrás, el escudo de La Habana.
Corona el monumento la estatua ecuestre de Maceo. Viste uniforme militar con la cabeza descubierta, lleva el machete en una mano y, con la otra, sostiene la rienda de su cabalgadura. Mira hacia el frente y arenga a sus hombres a lanzarse al combate. Son de bronce todas las partes escultóricas y decorativas del monumento, y el granito prevalece en la parte constructiva.
A lo largo del tiempo, el parque ha sido objeto de modificaciones. Mucho lo afectó el huracán de 1926, como se aprecia en el testimonio gráfico de la época. Su amplitud y ubicación frente al mar consolidan su grandiosidad y belleza.
En el lugar que ocupa existió una fortaleza española, la batería de la Reina, y también una entrada de mar, la caleta de San Lázaro, que se menciona en las crónicas más antiguas dedicadas a La Habana.

Las ruinas de calzada

Las ruinas de Calzada, entre 2 y Paseo —dos o tres columnas apenas—, corresponden al salón-hotel Trotcha, fundado en 1886 por el empresario catalán Buenaventura Trotcha, quien vivió durante más de 70 años en La Habana, donde falleció en 1910.
El establecimiento comenzó con un salón —bar, café y restaurante— al que con el tiempo se le adicionó una sección para alojamiento. Cree recordar el escribidor que allí se alojó la jefatura de las tropas norteamericanas que ocuparon la capital de la Isla en 1899, y que en uno de sus salones España firmó la capitulación de la ciudad. Contaba con jardines bellísimos, a los que se accedía por Paseo, así como con un criadero de cocodrilos que impactaban a huéspedes y visitantes. Una guía turística de La Habana, elaborada en Estados Unidos, asegura que permanecía abierto a mediados de los años 50. Con el tiempo desapareció el área de albergue, que era de madera, y permaneció el salón, de mampostería, adaptado a casa de vecindad. Un incendio acabó destruyéndolo a comienzos de la década de 1990.
El poeta Julián del Casal le dedicó una de sus crónicas, publicada en el periódico La Discusión, de 23 de enero de 1890. Confiesa en su página que el día anterior decidió trasladarse «al poético caserío del Vedado para distraer el fastidio, andar al aire libre y huir de las monótonas diversiones de la ciudad».
Oscurecía. Los últimos reflejos del sol flotaban esparcidos sobre las ondas inmóviles del mar. El calor se apaciguaba y se respiraba un aire fresco que parecía salir de inmensos abanicos agitados por manos invisibles. Los pescadores aguardaban la captura, encorvados sobre las redes tendidas… Había llegado el poeta «al risueño pueblecito, el más tranquilo, el más pintoresco y el más moderno de los que se encuentran en los alrededores de la capital».
«Todo el que vive en La Habana lo ha visitado alguna vez. Tiene el brillo de una  moneda nueva  y la alegría silenciosa de las poblaciones. La miseria no ha penetrado en sus ámbitos y sus habitantes parecen dichosos. Allí se refugian, en los meses de verano, los que el calor destierra de la ciudad, los escasos poseedores de bienes de fortuna y los que no se atreven a alejarse del suelo natal».
«Dentro de este sitio encantador, se han levantado, en los últimos años, numerosos edificios, construidos a la moderna y de diversas proporciones. El más grande de todos es el salón Trotcha, nombre igual al de su propietario. En los primeros años ha sido el punto de reunión de los temporadistas, y se encuentra convertido en magnífico hotel, semejante a los de Niza, Cannes, San Sebastián y otras ciudades balnearias».
Describe el establecimiento el cronista: la verja de hierro, el jardín encantador, los senderos cubiertos de arena a la manera de un parque inglés, las glorietas espaciosas a cuya sombra los huéspedes descansan y degustan los licores de su preferencia.
En el restaurante, abierto en el piso del edificio que está al nivel del jardín, todo invita a satisfacer las necesidades humanas más imperiosas. Los manjares exquisitos, la calidad del servicio, la profusión de licores, el refinamiento de manteles y vajillas, la delicadeza de los propietarios, hacen que el Trotcha sea el lugar escogido por las personas de gustos más exigentes.
Desde el restaurante se asciende al piso principal, y el visitante se halla en un salón elegante que luce muebles labrados, espejos venecianos, alfombras suntuosas, jarrones japoneses y mesas cubiertas de bibelots. «Este salón tiene la apariencia de un parloir inglés, dice Casal. Detrás,  están las habitaciones de los huéspedes, lujosamente decoradas».
Concluye el poeta: «Este hotel, descripto a la ligera, para que puedan formar idea nuestros lectores, está montado a la altura de los mejores de Europa. Nada tiene que envidiar a ninguno de ellos».
Relativamente cerca de este hotel ya desaparecido, sobre la misma calle Calzada, se halla el restaurante 1830. Ocupa la mansión que fue propiedad de Carlos Miguel de Céspedes, ministro de Obras Públicas en el Gobierno dictatorial de Gerardo Machado y senador de la República en el momento de su fallecimiento, en 1954. Entonces José Curráis Fernández, propietario de La Zaragozana, quiso adquirir el inmueble. Las nietas de Carlos Miguel, confesó una de ellas al escribidor hace ya mucho tiempo, se negaron a venderlo, pero terminaron alquilándoselo. Surgía así el restaurante 1830, que es la fecha en que se estableció La Zaragozana.

El polvorín

En 1868, tras el derribo de las Murallas, el Ayuntamiento habanero, interesado en crear un nuevo mercado, obtuvo de la Corona española el terreno que enmarcaban las calles de Monserrate, Zulueta, Ánimas y Trocadero. A partir de 1882 se construyó en ese espacio conocido como Plaza del Polvorín, el mercado de Colón, que terminaría dándole nombre a toda la barriada.
En opinión del historiador Emilio Roig en su libro La Habana: apuntes históricos, se trató del mejor de los mercados que desde el punto de vista arquitectónico tuvo La Habana. Era una vasta construcción de sillería, con una rotonda central formada por columnas de hierro fundido y una cúpula de acero en la parte central de la fachada principal, sobre la calle Zulueta.
El edificio fue proyectado y ejecutado, a un costo de 100 000 pesos oro español, por el arquitecto José María Ozón y el ingeniero José C. del Castillo, ambos cubanos, con la colaboración de Emilio Sánchez Osorio, arquitecto municipal.
Joaquín Weiss elogiaba la típica arquería romana que rodeaba toda la manzana, mientras que otro importante arquitecto, José M. Bens, precisaba: «Ozón dio tal importancia y amplitud al bello pórtico que rodeaba al edificio, y al otro que bordeaba el patio, que alcanzó con esto esa cualidad casi imponderable de maestría que tienen las obras maestras».
El Ayuntamiento habanero otorgó la concesión del mercado al señor Francisco Tabernilla, padre del militar de igual nombre que tras el golpe de Estado del 10 de marzo de 1952, con grados de Mayor General, llegaría a ser, primero, jefe del Ejército cubano y, luego, del Estado Mayor Conjunto. El beneplácito se extendería por 25 años, transcurridos los cuales el mercado pasaría a ser propiedad del municipio habanero. En sus galerías y portales operaban más de 200 establecimientos comerciales de toda índole, mientras que los pisos superiores estaban ocupados por unos 500 inquilinos cuando en 1947 el Ministerio de Salubridad ordenó su clausura definitiva. Federico Villoch, en sus Viejas postales descoloridas, dice que «un teatro chino que ocupaba parte de los altos de la Plaza del Polvorín, tenía siempre alborotados los alrededores con sus escandalosos y disonantes plantillazos y el doliente y penetrante gemido de sus chirimías y violines…».
Se construiría allí el Palacio de Bellas Artes para dar albergue al Museo Nacional. Dice Emilio Roig que por sus valores de permanente belleza y tipicismo, el mercado de Colón o Plaza del Polvorín merecía salvarse. Así pareció que sería ya que, de inicio, se pensó en mantener en la nueva edificación los hermosísimos exteriores del edificio primitivo, que comenzaron a restaurarse y se construyó, según planos del arquitecto Evelio Govantes, una muy bella portada, no por Zulueta, como en el caso anterior, sino por Trocadero, frente al parque Zayas —actual Memorial Granma.
El proyecto quedó en el camino. Los funcionarios responsabilizados con la construcción del futuro Palacio y Museo quisieron un edificio enteramente moderno y funcional, y así, dice Roig, «fue demolido uno de los mejores ejemplares de la arquitectura del período neoclásico».



domenica 31 maggio 2015

Satira

SATIRA: si da un sacco di arie (Roma)

sabato 30 maggio 2015

Sarto

SARTO: balzo (Roma)

venerdì 29 maggio 2015

Ufficiale: Cuba tolta dalla lista "nera"

Fonte: El Nuevo Herald

Declaración: Rescisión de Cuba como un estado patrocinador del terrorismo

DECLARACIÓN DE JEFF RATHKE, DIRECTOR, OFICINA DE RELACIONES CON LA PRENSA


29 de mayo de 2015.

Rescisión de Cuba como un estado patrocinador del terrorismo

En diciembre de 2014, el presidente Barack Obama instruyó al secretario de Estado que pusiera en marcha de inmediato una revisión de la designación de Cuba como un estado patrocinador del terrorismo, y que le presentara, en un plazo de seis meses, un informe con respecto al apoyo de Cuba al terrorismo internacional. El 8 de abril de 2015, el secretario de Estado completó la revisión y recomendó al presidente Obama, que Cuba ya no fuera designado como un Estado Patrocinador del Terrorismo.
En consecuencia, el 14 de abril, el presidente Obama remitió al Congreso el informe requerido por ley, indicando la intención del Gobierno de rescindir la designación de Cuba como un Estado Patrocinador del Terrorismo, incluyendo la certificación de que Cuba no ha proporcionado ningún tipo de apoyo para el terrorismo internacional durante los seis meses previos; y que Cuba ha dado garantías de que no apoyará actos de terrorismo internacional en el futuro. El período de previa notificación al Congreso de 45 días ha expirado, y el secretario de Estado ha tomado la decisión final de dejar sin efecto la designación de Cuba como un Estado Patrocinador del Terrorismo, efectiva a partir de hoy, 29 de mayo de 2015.
La rescisión de la designación de Cuba como un Estado Patrocinador del Terrorismo es un reflejo de nuestra evaluación de que Cuba cumple con los criterios legales para la rescisión. Si bien Estados Unidos tiene importantes preocupaciones y desacuerdos sobre una amplia gama de políticas y acciones de Cuba, las mismas no hacen parte de los criterios pertinentes para la rescisión de la designación de un Estado Patrocinador del Terrorismo.

Isabel Malowany
Deputy Director
Media Hub of the Americas
U.S. Department of State
Bureau of Public Affairs







Sarabanda

SARABANDA: chiudi la banda (Nord est)