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lunedì 2 dicembre 2013

Un agente segreto chiamato Galich di Ciro Bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 01/12/13

UN AGENTE SEGRETO CHIAMATO GALICH

Manuel Galich starebbe compiendo cent’anni in questi giorni, anniversario che la Casa de las Américas sta celebrando in grande con un seminario sulla sua vita e la sua opera, la presentazione di due dei suoi libri e un’esposizione fotografica che raccoglie la sua lunga e fruttifera presenza in questa istituzione culturale cubana. Altri parleranno sulla sua nobiltà d’animo e sapienza, il suo scintillante senso dell’humor, la sua conversazione affascinante. Durante lunghi anni, l’autore di questi titoli imprescindibili che sono: Mappa parlante dell’America Latina nell’anno del Moncada (1973) e I nostri primi padri (1979) fu uno dei pilastri della Casa de las Américas.
Dapprima disimpegnò la vicepresidenza e poi diresse il gruppo di Teatro e la rivista Conjunto.
Il cronista, in occasione del suo primo centenario, vuole evocare un passaggio poco conosciuto della vita di questo prestigioso drammaturgo e saggista guatemalteco, quello che lo portò ad assumere il ruolo di agente segreto del presidente Juan José Arévalo.

Percorso

Nel 1961, nella sua piéce teatrale “El pescado indigesto”, vinse il premio importante che assegna la Casa de las Américas. Quest’anno aveva avuto luogo l’invasione mercenaria di Girón e Galich scrisse ad Haydée Santamaria, presidentessa di questa istituzione culturale, per mettere l’ammontare del premio a disposizione di Cuba. Haydée declinò l’offerta: non le sembrava giusto né umano che un uomo che viveva esiliato a Buenos Ayres, con una situazione economica precaria e sette figli da mantenere, si privasse dei soldi che aveva guadagnato.
Durante il periodo democratico che ci fu in Guatemala fra l’abbattimento di Jorge Ubico (1944) e la caduta di Jacobo Arbenz dieci anni dopo, Galich disimpegnò incarichi importanti. Fu magistrato del Tribunale Superiore Elettorale e ministro dell’Educazione. Occupò anche il portafoglio delle Relazioni Estere e fu ambasciatore in Uruguay e Argentina. Li lo sorprese la deposizione di Arbenz. Il Governo di Juan Domingo Perón, per mezzo del cancelliere Remorino, si preoccupò per risolvere la situazione economica dell'ex Ambasciatore e, senza dilazioni burocratiche, legalizzò il suo soggiorno nel Paese. Poco dopo Peròn veniva deposto – fu lui che diede ai militari “golpisti” il titolo di “gorilla” -; lo status di Galich a Buenos Ayres cambiò radicalmente e dovette lavorare come imbianchino, lavoro che gli apportò più perdite che profitti: nel suo primo contratto confuse gli indirizzi e pitturò l’edificio contiguo a quello che avrebbe dovuto dipingere, con pregiudizio economico conseguente, ciò che mandò all’aria la piccola impresa.
Nel 1962 venne all’Avana come giurato del Premio casa de las Américas, al suo ritorno a Buenos Ayres dette a conoscere con il settimanale “Principios” che dirigeva Leónidas Barletta, dettagli del suo soggiorno sull’Isola.
Raccontò del milione di cubani che si era dato appuntamento nella Plaza de la Revolución per approvare la II Dichiarazione dell’Avana e di come, al suo ritorno in Argentina, attraversando la frontiera col Cile, lo arrestarono nel punto frontaliero di Las Cuevas e lo inviarono a Mendoza.
Poco dopo si scatenava in quel Paese la repressione contro gli intellettuali “pericolosi” e Galich, assieme ad altri 150 scrittori e artisti, fu schiaffato nel carcere di Caseros. Fu sempre convinto che il suo “delitto” fu quel viaggio a Cuba. Quello stesso anno o poco dopo, si installò all’Avana e cominciò a lavorare presso la Casa de las Américas. Avrebbe passato qua i suoi ultimi 22 anni di vita. Non poté tornare mai più in Guatemala.

Confidenziale

A metà dell’anno 1947, Manuel Galich, allora magistrato del Tribunale Superiore Elettorale, fu chiamato nel suo ufficio  dal presidente Juan José Arevalo. Molti anni dopo il drammaturgo ricordava le parole del presidente:
“È necessario che un uomo di assoluta fiducia vada all’Avana. La si sta preparando un movimento per abbattere Trujillo. Noi aiuteremo i rivoluzionari dominicani. Ma trujillo ha, all’Avana, uno spionaggio molto abile. Nessuno deve sapere che noi ci relazioniamo con i dirigenti del movimento antitrujillista. Il nostro contatto deve essere maneggiato con disvcrezione assoluta...”.
Si stava organizzando in quei giorni la, piú tardi frustrata, spedizione di cayo Confites, così chiamata per la località della costa nord di Holguin dove gli spedizionari ricevettero addestramento militare. Nella sua organizzazione erano coinvolti il presidente cubano Ramón Grau San Martín e altre figure del Governo. A Cuba, Galich, doveva mettersi in contatto con il dominicano Enrique Cotubanama Henríquez, cognato di Carlos Prío e uno dei dirigenti del movimento. Gli avrebbe consegnato una grossa somma di denaro.
Lo spionaggio trujillista era efficace e così il braccio lungo del sàtrapo dominicano per assassinare i suoi avversari fuori di Santo Domingo e quell’anno del 1947 era quello della nascita del Trattato Interamericano di Assistenza Reciproca (TIAR) e dell’inizio della guerra fredda. Il Governo progressista del Guatemala, tacciato di “comunista”, era nel mirino di Washington...Ogni precauzione sarebbe stata poca per l’agente di contatto Manuel Galich.
Prima di partire dal suo Paese, ricevette istruzioni minuziose: all’Avana si alloggerebbe in un hotel discreto, non abborderebbe nessun veicolo né farebbe domande. Per conto proprio, doveva localizzare quelli che i Prío chiamavano “la casa della mamma”, in Malecón 605, dove risiedeva Henríquez. Perché non si distinguesse, in Guatemala lo provvidero di una guayabera (camicia tipica cubana n.d.t.). Solo dopo aver compiuto la sua missione avrebbe reso pubblica la sua presenza sull’Isola: col pretesto di intercambiare informazioni ed esperienze solleciterebbe, quindi, di intervistarsi con magistrati del Tribunale Superiore Elettorale cubano.
Galich prese alloggio nel già scomparso Hotel Bristol, della calle Amistad angolo San Rafael, localizzò la casa dei Prío e consegnò il denaro. Conobbe Mauricio Báez, leader operaio dominicano rifugiato a Cuba. Fatto ciò che doveva fare, ruppe l’incognito e si presentò all’ambasciata del suo Paese nella capitale cubana.
La sorpresa nell'arrivare alla sede diplomatica fu grande. Uscì a riceverlo l’addetto culturale e, mentre lo abbracciava con effusione, proclamava con voce sonante:
“Arrivi in un momento interessante! Qua stiamo preparando una spedizione contro Trujillo. Il reclutamento lo fanno all' hotel San Luis...”
Ricordava, Galich, anni dopo:
“Fu allora che mi sentii “coniglio”. E io che ero andato per l’Avana senza quasi emettere parola! Perché “coniglio”? In Guatemala chiamiamo così quei tipi che non parlano, ma guardano da tutte le parti, con reticenza e dissimulando, come depositari di importanti e pericolose confidenze.. Un “ coniglio” misterioso e stupido”.

1200 uomini

La spedizione antitrujillista giunse a riunire, a Cuba, circa 1200 uomini tra dominicani e cubani. La comandavano gli esiliati Juan Rodríguez e Juan Bosch. La farebbe abortire il generale Genovevo Pérez, capo di Stato Maggiore dell’esercito cubano.
Le cose successero così. Al conoscere dell’organizzazione della spedizione, il generale Marshall, Segretario di Stato nordamericano, istruì Norweb suo ambasciatore all’Avana: doveva fare pressione sul presidente Grau perché la schiacciasse “con rapidità ed efficacia”. Ma Grau non era un uomo facile da pressionare. Forse per quello si optò per invitare Genovevo a Washington. Il militare vi rimase durante i giorni 15 e 16 settembre e al suo ritorno procedette a smantellare la spedizione che era già partita verso la sua destinazione e che fu intercettata da imbarcazioni della Marina Militare cubana.
Si dice che Trujillo ricompensò Genovevo con un’alta somma di denaro. Poco dopo l’insuccesso di cayo Confites, Juan Bosch domandò direttamente, in un incontro nella spiaggia di Guanabo, se quello del pagamento era vero. Il militare si rifiutò di rispondere. Disse che se non fosse arrivato a interrompere la spedizione, sarebbero morti tutti perché Trujillo era stato avvisato ed era pronto a liquidarli. Bosch allora domandò come avesse fatto a convincere Grau perché gli permettesse di fare quello che fece. Gli dissi le stesse cose, rispose Genovevo.
Storici dominicani giunsero alla conclusione  che il generale cubano non disse tutta la verità, perché sebbene il dittatore fosse stato informato dall’Intelligenza nordamericana di quello che si preparava, non gli riferì quello che sapeva bene: navi e aerei degli Stati Uniti avrebbero impedito la spedizione. Il presidente Truman aveva appena finito di proclamare la sua politica di contenzione dell’influenza sovietica e Trujillo era considerato, dal Governo nordamericano, un alleato impagabile.
Fidel Castro, uno di quegli spedizionari che frequentava allora il terzo anno di università e presiedeva l’associazione di alunni della Scuola di Diritto dell’Università dell’Avana e il Comitato per la Democrazia Dominicana in quella casa degli studi, dirà poi in una sua intervista con lo scrittore colombiano Arturo Alape, che considerò che il suo primo dovere fu quello di arruolarsi come soldato in quella spedizione. Precisò: “Senza dubbio, siccome il Governo e figure del medesimo partecipavano alla spedizione e io ero all’opposizione del Governo, non avevo niente a che vedere con l’organizzazione della spedizione...” Aggiunse: “Restammo diversi mesi in cayo Confites, dove si stava addestrando la spedizione.  Mi avevano fatto tenente di un plotone. Alla fine si svolsero dei  fatti a Cuba, si produssero contraddizioni tra il Governo e l’Esercito e questi decise di sospendere la spedizione. Così le cose; alcune persone disertarono di fronte a una situazione di pericolo, mi fecero capo di una delle compagnie di un battaglione di spedizionari. Allora uscimmo, trattammo di raggiungere Santo Domingo. Alla fine ci intercettarono quando mancavano circa 24 ore per arrivare in zona e arrestarono tutti. Non arrestarono me perché mi gettai in mare, non mi lasciai arrestare più che altro per una questione d’onore, mi vergognavo che quella spedizione finisse interrotta. Quindi, nella baia di Nipe mi lanciai in acqua, nuotai fino alla costa di Saetía e me ne andai”.
E Mauricio Báez, quell’esiliato dominicano che Galich conobbe a Cuba? Ebbe una sorte sinistra. Nella notte di domenica 10 dicembre del 1950, agenti di Trujillo lo fecero uscire dalla casa di calle Cervantes numero 8, nel reparto Sevillano e non si seppe mai più niente di lui.



De: Ciro Bianchi Ross <cirobianchiross@gmail.com>
Enviado el: Sunday, December 1, 2013 9:45 PM
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Un agente secreto llamado Galich
 
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
30 de Noviembre del 2013 17:36:22 CDT

Manuel Galich estaría cumpliendo cien años en estos días, aniversario que la Casa de las Américas está 
celebrando por todo lo alto con un conversatorio acerca de su vida y su obra, presentaciones de dos de sus 
libros, y una exposición fotográfica que recoge su larga y fructífera presencia en esa institución cultural cubana.
Otros hablarán sobre su nobleza y sabiduría, su chispeante sentido del humor, su conversación fascinante. 
Durante largos años, el autor de esos títulos imprescindibles que son Mapa hablado de la América Latina en el 
año del Moncada (1973) y Nuestros primeros padres (1979) fue uno de los pilares de la Casa de las Américas. 
Desempeñó primero su vicepresidencia, y dirigió luego el departamento de Teatro y la revista Conjunto.
Quiere el cronista, en ocasión de su centenario, evocar un pasaje poco conocido de la vida de ese prestigioso 
dramaturgo y ensayista guatemalteco, aquel que lo llevó a asumir en La Habana el papel de agente secreto del 
presidente Juan José Arévalo.

Trayectoria
En 1961 su pieza teatral El pescado indigesto ganó el importante premio que otorga Casa de las Américas. Ese 
año había tenido lugar la invasión mercenaria de Girón, y Galich escribió a Haydée Santamaría, presidenta de 
esa institución cultural, para poner el monto en metálico del galardón a disposición de Cuba. Haydée declinó el
ofrecimiento: no le pareció justo ni humano que un hombre que vivía exiliado en Buenos Aires, con una 
situación económica precaria y siete hijos que mantener, se privara del dinero que había ganado.
Durante el período democrático que existió en Guatemala entre el derrocamiento de Jorge Ubico (1944) y la 
caída de Jacobo Arbenz diez años después, Galich desempeñó cargos de importancia. Fue magistrado del 
Tribunal Superior Electoral y ministro de Educación. Ocupó asimismo la cartera de Relaciones Exteriores y fue 
embajador en Uruguay y la Argentina. Allí lo sorprendió la deposición de Arbenz. El Gobierno de Juan Domingo 
Perón, por intermedio del canciller Remorino, se preocupó por solucionar la situación económica del ex 
Embajador y, sin dilaciones burocráticas, legalizó su estancia en el país. Poco después Perón era derrocado —
fue él quien dio a los militares golpistas el mote de «gorilas»—; el estatus de Galich en Buenos Aires cambió 
radicalmente, y tuvo que emplearse como pintor de brocha gorda, oficio que le reportó más pérdidas que 
ganancias: en su primera contrata, confundió las direcciones y pintó el edificio contiguo al que debía pintar, 
con el perjuicio económico consiguiente, lo que dio al traste con la pequeña empresa.
En 1962 vino a La Habana como jurado del Premio Casa de las Américas, y al retornar a Buenos Aires dio a 
conocer en el semanario Principios, que dirigía Leónidas Barletta, detalles de su estancia en la Isla.
Contó sobre el millón de cubanos que se dio cita en la Plaza de la Revolución para aprobar la II Declaración de 
La Habana, y de cómo a su regreso a la Argentina, al cruzar la frontera con Chile, lo detuvieron en el punto 
fronterizo de Las Cuevas y lo enviaron preso a Mendoza.
Poco después se desataba en ese país la represión contra los intelectuales «peligrosos», y Galich, junto a otros 
150 escritores y artistas, dio con sus huesos en la cárcel de Caseros. Siempre estuvo convencido de que su 
«delito» fue el de aquel viaje a Cuba. Ese mismo año o poco después se instaló en La Habana y empezó a 
trabajar en la Casa de las Américas. Pasaría aquí los últimos 22 años de su vida.
Nunca más pudo regresar a Guatemala.

Confidencial
A mediados del año 1947, Manuel Galich, entonces magistrado del Tribunal Superior Electoral, fue llamado a su 
despacho por el presidente Juan José Arévalo. Muchos años después, el dramaturgo recordaba las palabras del 
mandatario:
«Es necesario que un hombre de absoluta confianza vaya a La Habana. Se está preparando allí un movimiento 
para derrocar a Trujillo. Nosotros vamos a ayudar a los revolucionarios dominicanos. Pero Trujillo tiene en La 
Habana un espionaje muy hábil. Nadie debe saber que nosotros nos relacionamos con los dirigentes del 
movimiento antitrujillista.
Nuestro enlace debe manejarse con absoluta discreción…».
Se gestaba en esos días la después frustrada expedición de cayo Confites, llamada así por el lugar de la costa 
norte holguinera donde los expedicionarios recibieron entrenamiento militar. En su organización estaban 
involucrados el presidente cubano Ramón Grau San Martín y otras figuras del Gobierno. En Cuba, Galich debía 
ponerse en contacto con el dominicano Enrique Cotubanama Henríquez, cuñado de Carlos Prío, y uno de los 
dirigentes del movimiento. Le haría entrega de una gruesa suma de dinero.
El espionaje trujillista era eficaz y largo el brazo del sátrapa dominicano para asesinar a sus adversarios fuera de 
Santo Domingo, y aquel año de 1947 era el del nacimiento del Tratado Interamericano de Asistencia Recíproca 
(TIAR) y del inicio de la guerra fría. El Gobierno progresista de Guatemala, tachado de «comunista», estaba en 
la mirilla de Washington… Todas las precauciones serían pocas para el agente de enlace Manuel Galich. 
Recibió, antes de salir de su país, instrucciones minuciosas: en La Habana se alojaría en un hotel discreto, no 
abordaría vehículo alguno ni haría preguntas. Por su cuenta, debía localizar lo que los Prío llamaban «la casa de 
mamá», en Malecón 605, donde residía Henríquez. Para que no se singularizara, en Guatemala lo proveyeron 
de una guayabera. Solo después de cumplir su misión haría pública su presencia en la Isla: con el pretexto de 
intercambiar información y experiencias solicitaría entonces entrevistarse con magistrados del Tribunal 
Superior Electoral cubano.
Galich se alojó en el ya desaparecido hotel Bristol, en la calle Amistad esquina a San Rafael, localizó la casa de 
los Prío y entregó el dinero. Conoció a Mauricio Báez, líder obrero dominicano refugiado en Cuba. Hecho lo que 
tenía que hacer, rompió el incógnito y se personó en la embajada de su país en la capital cubana.
Grande fue su sorpresa al arribar a la sede diplomática. Salió a recibirlo el agregado cultural y, mientras lo 
abrazaba con efusión, proclamaba a voz en cuello:
«¡Vienes en un momento interesante! Aquí estamos preparando una expedición contra Trujillo. El 
reclutamiento lo hacen en el hotel San Luis…».
Recordaba Galich años después:
«Entonces fue cuando me sentí “conejo”. ¡Y yo que había andado por La Habana casi en punta de pie y sin 
emitir casi nada más que monosílabos! ¿Por qué “conejo”? Así decimos en Guatemala de esos tipos que no 
hablan sino viendo a todos lados, con reticencias y disimulos, como depositarios de importantes y peligrosas 
confidencias… Un “conejo” misterioso y tonto».

1 200 hombres
La expedición antitrujillista llegó a reunir en Cuba a unos 1 200 hombres entre dominicanos y cubanos. La 
comandaban los exiliados Juan Rodríguez y Juan Bosch. La haría abortar el general Genovevo Pérez, jefe del 
Estado Mayor del ejército cubano.
Las cosas sucedieron así. Al saberse de la organización de la expedición, el general Marshall, secretario de 
Estado norteamericano, instruyó a Norweb, su embajador en La Habana: debía presionar al presidente Grau 
para que la aplastara «rápida y eficazmente». Pero Grau no era hombre fácil de presionar. Tal vez por eso se 
optó por invitar a Genovevo a Washington. El militar permaneció allí durante los días 15 y 16 de septiembre, y 
a su regreso procedió a desmantelar la expedición que había salido ya rumbo a su destino y que fue 
interceptada por unidades de la Marina de Guerra cubana.
Se dice que Trujillo recompensó a Genovevo con una crecida suma de dinero. Poco después del fracaso de cayo 
Confites, Juan Bosch le preguntó directamente, durante un encuentro en la playa de Guanabo, si lo del dinero 
era cierto. El militar rehuyó la respuesta. Dijo que si él no hubiera llegado a impedirla, todos los expedicionarios 
estarían muertos porque Trujillo estaba alertado y preparado para liquidarlos.
Preguntó Bosch entonces cómo había logrado convencer a Grau para que le permitiera hacer lo que hizo. Le 
dije lo mismo, respondió Genovevo.
Historiadores dominicanos llegaron a la conclusión de que el general cubano no reveló toda la verdad, porque 
si bien el dictador estaba enterado por la Inteligencia norteamericana de lo que se gestaba, no le refirió lo que 
bien sabía: barcos y aviones de Estados Unidos impedirían la expedición. El presidente Truman acababa de 
proclamar su política de contención de la influencia soviética, y Trujillo era considerado por el Gobierno 
norteamericano un aliado invaluable.
Fidel Castro, uno de aquellos expedicionarios que cursaba entonces el tercer año de la carrera y presidía la 
asociación de alumnos de la Escuela de Derecho de la Universidad de La Habana y el Comité Pro Democracia 
Dominicana en esa casa de estudios, diría después, en su entrevista con el escritor colombiano Arturo Alape, que consideró que su deber primero era el de enrolarse como soldado en aquella expedición. Precisó:
«Sin embargo, como el gobierno y figuras del gobierno participaban en la expedición, y yo estaba en la 
oposición al gobierno, no tenía nada que ver con la organización de la expedición…».
Añadió:
«Estuvimos varios meses en cayo Confites, donde estaba entrenándose la expedición. A mí me habían hecho 
teniente de un pelotón. Al final tienen lugar acontecimientos en Cuba, se producen contradicciones entre el 
gobierno y el ejército y este decide suspender la expedición.
Así las cosas, alguna gente deserta frente a una situación de peligro, y a mí me hacen jefe de una de las 
compañías de un batallón de los expedicionarios. Entonces salimos, tratábamos de llegar a Santo Domingo. Al 
final, nos interceptan cuando faltaban unas 24 horas para llegar a aquella zona y arrestan a todo el mundo. A 
mí no me arrestan porque yo me fui por mar, no me dejé arrestar más que nada por una cuestión de honor, me 
daba vergüenza que aquella expedición terminara arrestada. Entonces en la bahía de Nipe me tiré al agua y 
nadé hasta las costas de Saetía y me fui».
¿Y Mauricio Báez, aquel exiliado dominicano que Manuel Galich conoció en Cuba? Tuvo una suerte siniestra. En 
la noche del domingo 10 de diciembre de 1950, agentes de Trujillo lo sacaron de la casa de la calle Cervantes 
número 8, en el reparto Sevillano, y nunca más volvió a saberse de él.
 
Ciro Bianchi Ross
ciro@jrebelde.cip.cu
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