In questi giorni è toccato allo scriba di condividere con un gruppo di ambasciatori del rum Havana Club. Si chiamano così i rapresentanti della prestigiosa marca nei Paesi dove risiedono; gente giovane, affabile, comunicativa e naturalmente molto ricettiva alla storia e alle novità dell’industria e del prodotto che rappresentano. Questo scriba doveva guidarli in un percorso che è cominciato il mezzogiorno al Floridita ed è terminato, nel tardo pomeriggio, al bar Vista al Golfo dell’Hotel Nacional de Cuba, dopo essere passati dallo Sloppy Joe’s, Bodeguita del Medio e Dos Hermanos.
Ognuno di questi esercizi ha
ricevuto i visitatori con un cocktail. Vista al Golfo con il cocktail Nacional
e Sloppy con Cuba Libre, mentre Bodeguita del Medio e Floridita con il mojito e
il daiquirí che sono solo da immaginare. Dos Hermanos offrí l’Havana Special.
Curiosamente nella cena con
cui si è chiuso l’incontro e che ebbe luogo nel Museo del Ron, l’Havana Special
fu proprio il cocktail di benvenuto.
Un
treno sulle onde
Per chi scrive queste note,
fu una sorpresa constatare la vigenza di questa bevanda che alcuni chiamano il
Manhattan cubano e che il cronista pensava dimenticato, anche se è reiterato
nei menù di molti bar non statali. Un miscuglio la cui invenzione è attribuita
a Constantino Ribalaigua, barman catalano residente nella capitale cubana che
ispirò una linea di trasporto di passeggeri e merci che faceva il percorso New
York – Key West – l’Avana – New York.
Da questa città, il treno
impiegava due giorni a raggiungere Key West dove, un servizio di ferry boats,
con una traversata di dieci ore, trasportava i vagoni fino all’Avana. Questa
rotta si conobbe col nome di The Havana Special e permise che Cuba ne
approfittasse per riaffermarsi come importante fornitore del mercato
nordamericano.
Traversare il mare seduti
comodamente in un vagone ferroviario che prima era passato sulla cima angusta
di una montagna di corallo, sembra un racconto di fate. Siccome le fate non
esistono, solo un uomo come il multimilionario Henry Flagler fu capace di
un’impresa come questa che estese la strada ferrata fino a Miami e da lì,
isoletta per isoletta, la portò a Key West per collegare così Cuba, il resto
dei Caraibi e il Canale di Panama.
La strada ferrata si costruì
con acciaio e cemento tedeschi e legname cubano.
Richiese di sette anni di
lavoro alacre. Per periodi lunghi vi lavorarono simultaneamente fino a 4.000
uomini.
Tre cicloni - uno lasciò 200
lavoratori morti – intorbidirono la costruzione.
Non sarebbero stati gli
eventi meteorologici gli unici inconvenienti. Il primo degli ingegneri che
assunse il progetto, impazzì sugli scogli e quello che proseguì nel compito e
la portò a termine, non poté mai più tornare al suo lavoro. In ogni modo, il 22
gennaio del 1912, con l’arrivo a Key West del primo treno proveniente da Miami,
Flagler faceva realtà del suo sogno e quello stesso giorno si imbarcava verso
l’Avana al fine di promuovere la sua rotta sulle isolette. Ventitré anni dopo,
il 2 settembre 1935, un uragano di categoria cinque distrusse parzialmente
l’infrastruttura ferroviaria. I proprietari di The Havana Special vendettero
quello che restava allo stato della Florida.
Parte di queste rovine sono
ancora visibili. Su tratti di esse si costruì la rete di strade che dal 1938,
unisce fra loro le isolette della Florida e le allaccia alla penisola. Da
allora i ferry non trasportarono più vagoni ferroviari. Proseguirono con la
linea di passaggi e carichi generici, dando ai viaggiatori di entrambi i lati
l’opportunità di visitare la sponda opposta con la propria automobile.
Il ferry di Key West si
interruppe dopo il 1959. Oggi, per conseguenza dell’embargo imposto a Cuba dal
Governo di Washington, l’Havana Special è solo un cocktail creato da
Constantino Ribalaigua, mentre nel Key, un busto di Flagler ricorda la storia
della sua famosa ferrovia.
Anche
nei romanzi
Tutto questo lo spiegai, nel
bar Dos Hermanos, agli ambasciatori dell’Havana Club. Questo esercizio si trova
di fronte al molo di The Havana Special e aprì le sue porte nel 1892, cosa che
lo rende uno dei bar più antichi della capitale cubana. Si caratterizzò per il
suo lungo banco di legno duro, incompleto da quando gli hanno segato un pezzo
al fine di installarlo in uno dei bar dell’hotel Moka, a Las Terrazas.
Anche così continua ad
essere lungo. Il poeta spagnolo Federico García Lorca, frequentò il Dos
Hermanos durante il suo soggiorno cubano del 1930 e lì andarono anche, fra gli
altri, Alejo Carpentier ed Enrique Serpa, autore di romanzi come Contrabando e La trampa così come un racconto antologico, Aletas de tiburón. E naturalmente, l’inevitabile Hemingway che
nella radicata opinione di alcuni, deambulò per tutti i bar e cantine avanere,
anche se scelse come preferito il Floridita. In Dos Hermanos “con passi incerti
che lo portavano a una piccola, ma soddisfacente libertà”, entrò un pomeriggio
Andrés il protagonista di Fiebre de
caballos, (1988) il romanzo iniziale di Leonardo Padura. All’inizio bevette
lentamente la sua bevanda amara e si dedicò a studiare la gente fino a che la
quarta o quinta birra lo lasciò senza movimenti e cominciò a vedere nebulosi e
deformi quelli che lo circondavano, come se stesse guardando un film girato con
un grottesco grandangolo.
Il Floridita fu, fino al
1959, il bar più famoso della città, ma lo Sloppy Joe’s fu sempre quello dalle
maggiori vendite. Pensai che lo Sloppy Joe’s di Key West fosse precedente a
questo dell’angolo di Zulueta e Ánimas, all’Avana. Errore. Lo Sloppy avanero
anticipò di 16 anni quello dell’altra parte che si inaugurò nel 1934 e tre anni
dopo si installava nella calle Duval, ubicazione che mantiene ancora mentre un
altro bar, chiamato Capitan Tony, occupava lo spazio che lo Sloppy originale
lasciava libero. Capitan Tony non ha l’animazione dello Sloppy ne il suo
incanto, ma lì si da una situazione insolita: molte delle donne che lo visitano
si tolgono il reggiseno e lo appendono ai fili che si intersecano nel salone.
Se Padura fissò il bar Dos
Hermanos nella letteratura e Hemingway il Floridita in Isole del Golfo,
l’inglese Graham Greene, amante del rum invecchiato e inventore di diabolici
cocktails, immortalò lo Sloppy – e anche l’hotel Sevilla – nel suo romanzo Il nostro uomo all’Avana, portato anche
al cine. Una guida del 1954, pubblicata negli Stati Uniti, apporta un dettaglio
importante che facilitava ai turisti nordamericani la loro visita all’Isola:
Sloppy Joe’s era frequentato da visitatori statunitensi, ma non dai
nordamericani residenti. La colonia nordamericana all’Avana preferiva il bar
Mis Amigos, in settima e 42 a Miramar. Il Floridita ebbe fluttuazioni con
relazione ai suoi parrocchiani. La maggioranza di loro era di origine
nordamericana, fino all’inizio della II Guerra Mondiale. Durante il conflitto
si riempì di cubani. I nordamericani non potevano venire a causa della guerra e
i cubani non potevano uscire. Terminata la guerra, nazionali e visitatori
godettero assieme il suo daiquirí che figura nella lista dei dieci grandi
cocktails del mondo.
Nel 1937 il corrispondente
all’Avana dell’agenzia americana UP, dedicò una cronaca a Constantino Ribalaigua.
Riferì che un gruppo di amici conversava sul baseball in uno dei bar dell’Hotel
Nacional quando uno di loro domandò chi si poteva considerare il miglior barman
cubano. Constantino Ribalaigua, rispose il barman che li serviva, anche se la
domanda non era diretta personalmente a lui. Immediatamente, riferisce il
giornalista, uno del gruppo telefonò allo Sloppy, a Prado 86 e anche ai bar
degli alberghi Plaza e Sevilla, molto famosi all’epoca. Ottenne la stessa
risposta, Il reporter visitò Constantino al Floridita e rimase meravigliato. Il
barman confessò che i suoi cocktails migliori erano il daiquirí, presidente e
Pepín Rivero, ispirato al direttore e proprietario del Diario della Marina. Lo
scriba che ha nel suo archivio le formule di oltre 300 cocktails raccolte in
bar e cantine di tutta l’Isola, non ha potuto vedere la ricetta di quest’ultimo
cocktail. Non appare nel ricettario del Floridita che Constantino pubblicò nel
1939, quando il signor Rivero era ancora vivo. per certo che in quella lista di
cocktails si indica la formula di un daiquirí elaborato espressamente con
Havana Club.
Un’incognita
Se è possibile precisare
l’origine di molti cocktails e menzionare i loro creatori per nome, il Cuba
Libre resta nel mistero. Ancora alla fine del XIX° secolo a Cuba non si
conosceva la parola cocktail. La ginevra superava il rum nel gusto dei bevitori
e si parlava di composti spumosi e
sbattuti. L’intervento militare nordamericano mise una nota di modernità nei
bar cubani, rum, bibita di cola e ghiaccio fecero un miscuglio da campionato.
Terminò la sovranità spagnola, l’Isola rimase sotto la protezione degli Stati
Uniti e nacque una repubblica incompleta. Ma la gente, con buona dose
d’ingenuità, alzava il bicchiere e diceva: Cuba libera. Nel 1902 nasceva il bar
La Florida che col tempo diventò il Floridita, esistevano già allora l’American
Club che fallì e riaprì di nuovo e la cantina che dava servizio alle truppe
nordamericane del campo di Columbia. Esisteva, come si è detto, il Dos
Hermanos. Si parla anche di un bar Americano che lo scriba non ha potuto
identificare, se pure è esistito. In qualsiasi di loro può essere nato il Cuba
libre.
La Bodeguita del Medio ha
entusiasmato i visitatori. Il suo fondatore, Ángel Martínez, ripeteva che a 12
anni di età suo padre lo codannó all’ergastolo dietro un banco. Nel 1942 comprò
l’esercizio che allora si chiamava La Complaciente e che non era altro che una
bottega di quartiere. Lì, sua moglie Armenia cominciò a cucinare per pochi
clienti fra i quali Felito Ayón, un animale della notte avanera che si vincola,
come stampatore a pietre miliari imprescindibili della poesia cubana, come la Elegía a Jesús Menéndez, di Nicolás
Guillén con disegni di Carlos Enriquez. Felito che aveva la sua azienda nello
stesso isolato di quella che si chiamava La Casa Martínez, diceva ai suoi
clienti; “Se non sono in tipografia, cercatemi nella bottega, la botteguccia
che sta nel mezzo della strada”. Da lì nacque La Bodeguita del Medio, qualcosa tanto
ovvia che non ci pensò nessuno, prima. Così si chiama, dal 26 aprile del 1950,
questo esercizio. Martínez finì di sbarazzarsi dei viveri e liquori comuni
nelle botteghe e mise pochi tavoli nello spazio ridotto di cui disponeva, la
fama della cucina di Armenia crebbe, rinforzata dalle mani prodigiose de “La
China” Silvia Torres e i mojitos che lì acquisirono il documento di
cittadinanza internazionale, fecero il resto.
Di lì sono passati tutti, si
fa per dire. Come dal bar Vista al Golfo dell’Hotel Nacional, dove gli
ambasciatori del rum Havana Club, col cocktail che porta il nome dell’esercizio
alberghiero in mano, poterono apprezzare la estesa galleria con le foto delle
celebrità che adornano le pareti del locale; tutti clienti dell’esercizio.
Gli invitati percorsero
l’Avana su carrozze trainate da cavalli, bici taxi e grandi automobili
scoperte. La sera finale, dopo cena, gli si regalò un’esperienza memorabile:
poterono partecipare al matrimonio tra un Cohiba VI secolo e il rum Unión di Havana
Club.
Una combinazione perfetta.
Bares habaneros
Ciro
Bianchi Ross
En estos
días tocó a este escribidor compartir con un grupo de embajadores del ron
Havana Club. Se llama así a los representantes de la prestigiosa marca en los
países donde residen; gente joven, afable, comunicativa y, desde luego, muy
receptiva a la historia y las novedades de la industria y el producto que representan. Este escribidor debía
guiarlos en un recorrido que comenzó a medio día en el Floridita y terminó,
tarde en la tarde, en el bar Vista al Golfo del Hotel Nacional de Cuba, luego de haber pasado por
Sloppy Joe’s, Bodeguita del Medio y Dos Hermanos.
Cada uno
de esos establecimientos recibió a los visitantes con un coctel. Vista al Golfo
con el coctel Nacional y Sloppy con
Cuba Libre, mientras que Bodeguita del Medio y Floridita con el mojito y el
daiquirí, que son de imaginar. Dos Hermanos ofreció el Havana Special.
Curiosamente, en la cena con la que se clausuró el encuentro y que tuvo lugar
en el Museo del Ron, el Havana Special fue también el coctel de bienvenida.
UN TREN SOBRE LAS OLAS
Para quien
esto escribe fue una sorpresa constatar la vigencia de ese
trago que algunos llaman el Manhattan cubano, y
que el cronista
suponía
olvidado ya en la preferencia y el
paladar de los bebedores, aunque se reitera en la carta-menú de muchos bares no
estatales. Una mezcla cuya invención se
atribuye a Constantino Ribalaigua, barman catalán radicado en la capital
cubana, que se inspiró en una línea de transporte de pasajeros y mercancías que
hacía el recorrido Nueva York—Cayo Hueso—La Habana—Nueva York.
Desde esa
ciudad, el tren demoraba dos días en
llegar a Cayo Hueso, donde un servicio de ferry-boats, en una travesía de diez
horas, transportaba los vagones hasta La Habana. Esa ruta se conoció con el
nombre de The Havana Special y posibilitó que Cuba la aprovechara para
reafirmarse como importante suministrador del mercado norteamericano.
Cruzar el
mar sentado cómodamente en un vagón de ferrocarril
que
antes
avanzó sobre la cumbre angosta de una montaña de coral, parece
cosa de hadas. Como las hadas no existen, solo un
hombre como el multimillonario Henry Flagler fue capaz de una empresa como esa
que extendió la vía férrea hasta Miami y desde allí, de isleta en isleta, la
llevó hasta Cayo Hueso para conectar así con Cuba, el resto del Caribe y el
Canal de Panamá.
El camino
de hierro se acometió con acero y
cemento de Alemania y maderas cubanas. Requirió de siete años de ingente labor.
Por largos periodos hasta 4 000 hombres
laboraron allí de manera simultánea.
Tres
ciclones —uno, con 200 trabajadores muertos— entorpecieron la construcción.
No serían
los meteoros el único inconveniente. El primero de los ingenieros que asumió el
proyecto, enloqueció sobre los arrecifes, y el que prosiguió la tarea y la
llevó a término, nunca más pudo volver a trabajar en lo suyo. De cualquier
manera, el 22 de enero de 1912, con la llegada a Cayo Hueso del primer tren
procedente de Miami, Flagler hacía realidad su sueño, y ese mismo día embarcaba
hacia La Habana a fin de promover su ruta sobre los cayos. Veintitrés años
después, el 2 de septiembre de 1935, un huracán de categoría cinco destruyó
parcialmente la infraestructura ferroviaria. Los propietarios de The Havana
Special vendieron lo que quedó al estado
de Florida.
Parte de
esas ruinas son todavía visibles. Sobre partes de ellas se erigió la red de
carreteras que, desde 1938, une entre sí los cayos floridanos y los enlaza con
la península. Desde entonces los ferry
no transportaron vagones de ferrocarril. Prosiguieron su línea de pasajes y
carga general y dieron a los viajeros de ambos lados la oportunidad de visitar
la orilla contraria con su propio automóvil.
El ferry
de Cayo Hueso se interrumpió después de 1959. Hoy, a consecuencia del bloqueo
impuesto a Cuba por el gobierno de Washington, el Havana Special es solo el
coctel creado por Constantino Ribalaigua, mientras que en el Cayo un busto de
Flagler recuerda la historia de su famoso ferrocarril.
TAMBIÉN EN LAS NOVELAS
Todo eso
expliqué, en el bar Dos Hermanos, a los
embajadores de Havana Club. Ese establecimiento se ubica frente al muelle de
The Havana Special y abrió sus puertas en 1892, lo que lo hace uno de los
bares más
antiguos de la capital cubana. Se
caracterizó por su larga barra de madera dura, incompleta desde que le
cercenaron un pedazo a fin de emplazarlo en uno de los bares del hotel Moka, en
Las Terrazas.
Aun así,
sigue siendo larga. El poeta español
Federico García Lorca frecuentó el Dos Hermanos durante su estancia cubana de
1930, y por allí estuvieron asimismo,
entre otros, Alejo Carpentier y Enrique
Serpa, autor de novelas como Contrabando y La trampa y de un cuento antológico,
Aletas de tiburón. Y, por supuesto, el inevitable Hemingway, que en la festinada opinión de algunos
deambuló por todos los bares y cantinas habaneros, aunque centró su preferencia
en Floridita. En Dos Hermanos, «con
pasos torpes que lo conducían a una pequeña pero satisfactoria libertad», entró
una tarde Andrés, el protagonista de Fiebre de caballos, (1988) la novela
inicial de Leonardo Padura. Al comienzo bebió lentamente su trago amargo y se
dedicó a estudiar a la gente hasta que la cuarta o quinta cerveza lo dejó sin
movimientos y empezó a ver neblinosos y deformes a los que lo rodeaban, como si
estuviera viendo una película filmada con un grotesco ángulo ancho.
Floridita fue hasta 1959 el bar
más famoso de la ciudad, pero Sloppy Joe’s fue siempre el de más ventas.
Supuse que el Sloppy Joe´s de Cayo Hueso antecedió a este de la esquina de
Zulueta y Ánimas, en La Habana. Error. El Sloppy habanero se anticipó en 16 años al del lado de allá, que se
inauguró en 1934 y tres años después se instalaba en la calle Duval, ubicación
que todavía mantiene, mientras que otro bar llamado Capitán Tony ocupaba el espacio que el Sloppy original dejaba
libre. Capitán Tony no tiene la animación del Sloppy ni su hechizo, pero allí
se da una situación insólita: muchas de las mujeres que lo visitan se despojan
del ajustador y lo cuelgan en las tendederas que cruzan el salón.
Si Padura fijó el bar Dos Hermanos
en la literatura, y Hemingway el Floridita en Islas en el golfo, el inglés Graham Greene, aficionado al ron
añejo e inventor de cocteles diabólicos, inmortalizó el Sloppy —y también al
hotel Sevilla— en su novela Nuestro hombre en La Habana, llevada además al cine. Un detalle
interesante aporta una guía de
1954
publicada en Estados Unidos que
facilitaba a turistas norteamericanos su visita a la Isla: Sloppy Joe’s era
frecuentado por visitantes estadounidenses, no por los norteamericanos
residentes. La colonia norteamericana en
La Habana prefería el bar Mis amigos, en Séptima y 42, Miramar. Floridita tuvo
fluctuaciones con relación a sus parroquianos. La mayoría de ellos era de
origen norteamericano hasta el inicio de la II Guerra Mundial. Durante la
conflagración bélica se llenó de cubanos. Los norteamericanos no podían venir a
causa de la guerra y los cubanos no podían salir. Finalizada la guerra,
nacionales y visitantes disfrutaron juntos su daiquirí, que figura en la lista
de diez grandes cocteles del mundo.
En 1937, el corresponsal en La
Habana de la agencia norteamericana UP dedica una crónica a Constantino
Ribalaigua. Refiere que un grupo de amigos conversaba sobre beisbol en uno de los bares del Hotel Nacional cuando
uno de ellos preguntó sobre quién podría considerarse el mejor cantinero cubano.
Constantino Ribalaigua, respondió el barman que los atendía, aunque la pregunta
no le estaba dirigida expresamente. De inmediato, refiere el periodista, uno de
los del grupo telefoneó al Sloppy y a Prado 86 y también a los bares de los
hoteles Plaza y Sevilla, muy famosos en la época. Obtuvo la misma respuesta. El
reportero visitó a Constantino en Floridita y quedó maravillado. Confesó el
barman que sus mejores cocteles eran daiquirí, presidente y Pepín Rivero,
inspirado en el director-propietario del Diario de la Marina. El escribidor, que tiene en su archivo las fórmulas de más
de 300 cocteles recogidas en bares y cantinas de toda la Isla, no ha podido ver la receta de ese último
coctel. No aparece en el recetario del Floridita que Constantino publicó en
1939, cuando el señor Rivero todavía vivía. Por cierto, en ese coctelario se
consigna la fórmula de un daiquirí elaborado expresamente con Havana Club.
Che aveva
UNA INCÓGNITA
Si es
posible precisar el origen de muchos cocteles y mencionar a sus creadores por
su nombre, el Cuba libre queda en el misterio. Todavía a fines del siglo XIX no
se conocía en Cuba la palabra coctel. La ginebra superaba al ron en el gusto de
los bebedores y se hablaba de compuestos, achampanados y meneados. La intervención militar
norteamericana puso una nota de modernidad en los bares cubanos, y ron,
refresco de cola y hielo hicieron una mezcla de campeonato. Cesó la soberanía
española, la Isla quedó bajo la égida de
Estados Unidos y nació una república mediatizada. Pero la gente, con una buena
dosis de ingenuidad, levantaba su vaso y decía: Cuba libre. En 1902 surgía el
bar La Florida que, con el tiempo, pasó a ser el Floridita, y existían ya
entonces el American Club, que quebró y reabrió después y la cantina que daba servicio a las tropas
norteamericanas destacadas en el campamento de Columbia. Existía, como ya se
dijo, el Dos Hermanos. Se habla asimismo de un bar Americano, que el escribidor
no ha podido localizar, si es que existió. En cualquiera de ellos pudo surgir
el Cuba libre. .
La Bodeguita del Medio entusiasmó a
los visitantes. Su fundador, Ángel Martínez, repetía que a los 12 años de edad
su padre lo condenó a cadena perpetua detrás de un mostrador. En 1942 compró el
establecimiento que entonces se llamaba
La Complaciente y que no era más que una bodega de barrio. Allí su esposa
Armenia comenzó a cocinar para unos pocos clientes, entre ellos Felito Ayón, un
animal de la noche habanera que se vincula, como impresor, a hitos
imprescindibles de la poesía cubana, como la Elegía a Jesús Menéndez, de Nicolás
Guillén con dibujos de Carlos Enríquez.
Felito que tenía su negocio en la misma cuadra de lo que se llamaba ya
La Casa Martínez, decía a sus clientes: Si no estoy en la imprenta, búscame en
la bodega, una bodeguita que está en el medio de la calle. De ahí surgió La
Bodeguita del Medio, algo tan obvio que a nadie se le ocurrió antes. Así se
llama este establecimiento desde el 26 de abril de 1950. Martínez terminó
desembarazándose de los víveres y licores habituales en las bodegas y puso unas pocas mesas en el reducido espacio
de que disponía, creció la fama de la cocina de Armenia, reforzada luego por
las manos prodigiosas de «La China» Silvia Torres, y los mojitos, que
adquirieron allí carta de ciudadanía internacional, hicieron el resto.
Por allí ha pasado todo el mundo, es
un decir. Al igual que por el bar Vista al Golfo del Hotel Nacional, donde los
embajadores del ron Havana Club, con el coctel que lleva el nombre del
establecimiento hotelero en la mano, pudieron apreciar la extensa galería de fotos
de famosos que adornan las paredes; clientes todos de la instalación.
Los invitados recorrieron La Habana
en coches tirados por caballos, bici taxis y grandes carrones convertibles. La
noche final, después de la cena, les regaló una experiencia memorable: pudieron
participar en un maridaje entre un Cohíba siglo VI y el ron Unión de Havana
Club.
Una combinación perfecta.
Ciro Bianchi Ross
A proposito di Our man in Havana, ricordo che parlavo un giorno col direttore del Sevilla e gli confidavo la mia impressione che, alcune descrizioni di interni raccontate nel libro, mi ricordavano il Sevilla; e il direttore si è detto d'accordo con me.
RispondiEliminaI miei ricordi sui dettagli del film non sono freschissimi e forse coperti da un’ombra del “tedesco”, però a me ricordava più l’Inglaterra. D’altra parte epoche e stili sono molto simili.
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