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lunedì 8 febbraio 2016

Bar Avaneri, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 7/2/16 

In questi giorni è toccato allo scriba di condividere con un gruppo di ambasciatori del rum Havana Club. Si chiamano così i rapresentanti della prestigiosa marca nei Paesi dove risiedono; gente giovane, affabile, comunicativa e naturalmente molto ricettiva alla storia e alle novità dell’industria e del prodotto che rappresentano. Questo scriba doveva guidarli in un percorso che è cominciato il mezzogiorno al Floridita ed è terminato, nel tardo pomeriggio, al bar Vista al Golfo dell’Hotel Nacional de Cuba, dopo essere passati dallo Sloppy Joe’s, Bodeguita del Medio e Dos Hermanos.
Ognuno di questi esercizi ha ricevuto i visitatori con un cocktail. Vista al Golfo con il cocktail Nacional e Sloppy con Cuba Libre, mentre Bodeguita del Medio e Floridita con il mojito e il daiquirí che sono solo da immaginare. Dos Hermanos offrí l’Havana Special.
Curiosamente nella cena con cui si è chiuso l’incontro e che ebbe luogo nel Museo del Ron, l’Havana Special fu proprio il cocktail di benvenuto.

Un treno sulle onde

Per chi scrive queste note, fu una sorpresa constatare la vigenza di questa bevanda che alcuni chiamano il Manhattan cubano e che il cronista pensava dimenticato, anche se è reiterato nei menù di molti bar non statali. Un miscuglio la cui invenzione è attribuita a Constantino Ribalaigua, barman catalano residente nella capitale cubana che ispirò una linea di trasporto di passeggeri e merci che faceva il percorso New York – Key West – l’Avana – New York.
Da questa città, il treno impiegava due giorni a raggiungere Key West dove, un servizio di ferry boats, con una traversata di dieci ore, trasportava i vagoni fino all’Avana. Questa rotta si conobbe col nome di The Havana Special e permise che Cuba ne approfittasse per riaffermarsi come importante fornitore del mercato nordamericano.
Traversare il mare seduti comodamente in un vagone ferroviario che prima era passato sulla cima angusta di una montagna di corallo, sembra un racconto di fate. Siccome le fate non esistono, solo un uomo come il multimilionario Henry Flagler fu capace di un’impresa come questa che estese la strada ferrata fino a Miami e da lì, isoletta per isoletta, la portò a Key West per collegare così Cuba, il resto dei Caraibi e il Canale di Panama.
La strada ferrata si costruì con acciaio e cemento tedeschi e legname cubano.
Richiese di sette anni di lavoro alacre. Per periodi lunghi vi lavorarono simultaneamente fino a 4.000 uomini.
Tre cicloni - uno lasciò 200 lavoratori morti – intorbidirono la costruzione.
Non sarebbero stati gli eventi meteorologici gli unici inconvenienti. Il primo degli ingegneri che assunse il progetto, impazzì sugli scogli e quello che proseguì nel compito e la portò a termine, non poté mai più tornare al suo lavoro. In ogni modo, il 22 gennaio del 1912, con l’arrivo a Key West del primo treno proveniente da Miami, Flagler faceva realtà del suo sogno e quello stesso giorno si imbarcava verso l’Avana al fine di promuovere la sua rotta sulle isolette. Ventitré anni dopo, il 2 settembre 1935, un uragano di categoria cinque distrusse parzialmente l’infrastruttura ferroviaria. I proprietari di The Havana Special vendettero quello che restava allo stato della Florida.
Parte di queste rovine sono ancora visibili. Su tratti di esse si costruì la rete di strade che dal 1938, unisce fra loro le isolette della Florida e le allaccia alla penisola. Da allora i ferry non trasportarono più vagoni ferroviari. Proseguirono con la linea di passaggi e carichi generici, dando ai viaggiatori di entrambi i lati l’opportunità di visitare la sponda opposta con la propria automobile.
Il ferry di Key West si interruppe dopo il 1959. Oggi, per conseguenza dell’embargo imposto a Cuba dal Governo di Washington, l’Havana Special è solo un cocktail creato da Constantino Ribalaigua, mentre nel Key, un busto di Flagler ricorda la storia della sua famosa ferrovia.

Anche nei romanzi

Tutto questo lo spiegai, nel bar Dos Hermanos, agli ambasciatori dell’Havana Club. Questo esercizio si trova di fronte al molo di The Havana Special e aprì le sue porte nel 1892, cosa che lo rende uno dei bar più antichi della capitale cubana. Si caratterizzò per il suo lungo banco di legno duro, incompleto da quando gli hanno segato un pezzo al fine di installarlo in uno dei bar dell’hotel Moka, a Las Terrazas.
Anche così continua ad essere lungo. Il poeta spagnolo Federico García Lorca, frequentò il Dos Hermanos durante il suo soggiorno cubano del 1930 e lì andarono anche, fra gli altri, Alejo Carpentier ed Enrique Serpa, autore di romanzi come Contrabando e La trampa così come un racconto antologico, Aletas de tiburón. E naturalmente, l’inevitabile Hemingway che nella radicata opinione di alcuni, deambulò per tutti i bar e cantine avanere, anche se scelse come preferito il Floridita. In Dos Hermanos “con passi incerti che lo portavano a una piccola, ma soddisfacente libertà”, entrò un pomeriggio Andrés il protagonista di Fiebre de caballos, (1988) il romanzo iniziale di Leonardo Padura. All’inizio bevette lentamente la sua bevanda amara e si dedicò a studiare la gente fino a che la quarta o quinta birra lo lasciò senza movimenti e cominciò a vedere nebulosi e deformi quelli che lo circondavano, come se stesse guardando un film girato con un grottesco grandangolo.
Il Floridita fu, fino al 1959, il bar più famoso della città, ma lo Sloppy Joe’s fu sempre quello dalle maggiori vendite. Pensai che lo Sloppy Joe’s di Key West fosse precedente a questo dell’angolo di Zulueta e Ánimas, all’Avana. Errore. Lo Sloppy avanero anticipò di 16 anni quello dell’altra parte che si inaugurò nel 1934 e tre anni dopo si installava nella calle Duval, ubicazione che mantiene ancora mentre un altro bar, chiamato Capitan Tony, occupava lo spazio che lo Sloppy originale lasciava libero. Capitan Tony non ha l’animazione dello Sloppy ne il suo incanto, ma lì si da una situazione insolita: molte delle donne che lo visitano si tolgono il reggiseno e lo appendono ai fili che si intersecano nel salone.
Se Padura fissò il bar Dos Hermanos nella letteratura e Hemingway il Floridita in Isole del Golfo, l’inglese Graham Greene, amante del rum invecchiato e inventore di diabolici cocktails, immortalò lo Sloppy – e anche l’hotel Sevilla – nel suo romanzo Il nostro uomo all’Avana, portato anche al cine. Una guida del 1954, pubblicata negli Stati Uniti, apporta un dettaglio importante che facilitava ai turisti nordamericani la loro visita all’Isola: Sloppy Joe’s era frequentato da visitatori statunitensi, ma non dai nordamericani residenti. La colonia nordamericana all’Avana preferiva il bar Mis Amigos, in settima e 42 a Miramar. Il Floridita ebbe fluttuazioni con relazione ai suoi parrocchiani. La maggioranza di loro era di origine nordamericana, fino all’inizio della II Guerra Mondiale. Durante il conflitto si riempì di cubani. I nordamericani non potevano venire a causa della guerra e i cubani non potevano uscire. Terminata la guerra, nazionali e visitatori godettero assieme il suo daiquirí che figura nella lista dei dieci grandi cocktails del mondo.
Nel 1937 il corrispondente all’Avana dell’agenzia americana UP, dedicò una cronaca a Constantino Ribalaigua. Riferì che un gruppo di amici conversava sul baseball in uno dei bar dell’Hotel Nacional quando uno di loro domandò chi si poteva considerare il miglior barman cubano. Constantino Ribalaigua, rispose il barman che li serviva, anche se la domanda non era diretta personalmente a lui. Immediatamente, riferisce il giornalista, uno del gruppo telefonò allo Sloppy, a Prado 86 e anche ai bar degli alberghi Plaza e Sevilla, molto famosi all’epoca. Ottenne la stessa risposta, Il reporter visitò Constantino al Floridita e rimase meravigliato. Il barman confessò che i suoi cocktails migliori erano il daiquirí, presidente e Pepín Rivero, ispirato al direttore e proprietario del Diario della Marina. Lo scriba che ha nel suo archivio le formule di oltre 300 cocktails raccolte in bar e cantine di tutta l’Isola, non ha potuto vedere la ricetta di quest’ultimo cocktail. Non appare nel ricettario del Floridita che Constantino pubblicò nel 1939, quando il signor Rivero era ancora vivo. per certo che in quella lista di cocktails si indica la formula di un daiquirí elaborato espressamente con Havana Club.

Un’incognita

Se è possibile precisare l’origine di molti cocktails e menzionare i loro creatori per nome, il Cuba Libre resta nel mistero. Ancora alla fine del XIX° secolo a Cuba non si conosceva la parola cocktail. La ginevra superava il rum nel gusto dei bevitori e si parlava di composti spumosi e sbattuti. L’intervento militare nordamericano mise una nota di modernità nei bar cubani, rum, bibita di cola e ghiaccio fecero un miscuglio da campionato. Terminò la sovranità spagnola, l’Isola rimase sotto la protezione degli Stati Uniti e nacque una repubblica incompleta. Ma la gente, con buona dose d’ingenuità, alzava il bicchiere e diceva: Cuba libera. Nel 1902 nasceva il bar La Florida che col tempo diventò il Floridita, esistevano già allora l’American Club che fallì e riaprì di nuovo e la cantina che dava servizio alle truppe nordamericane del campo di Columbia. Esisteva, come si è detto, il Dos Hermanos. Si parla anche di un bar Americano che lo scriba non ha potuto identificare, se pure è esistito. In qualsiasi di loro può essere nato il Cuba libre.
La Bodeguita del Medio ha entusiasmato i visitatori. Il suo fondatore, Ángel Martínez, ripeteva che a 12 anni di età suo padre lo codannó all’ergastolo dietro un banco. Nel 1942 comprò l’esercizio che allora si chiamava La Complaciente e che non era altro che una bottega di quartiere. Lì, sua moglie Armenia cominciò a cucinare per pochi clienti fra i quali Felito Ayón, un animale della notte avanera che si vincola, come stampatore a pietre miliari imprescindibili della poesia cubana, come la Elegía a Jesús Menéndez, di Nicolás Guillén con disegni di Carlos Enriquez. Felito che aveva la sua azienda nello stesso isolato di quella che si chiamava La Casa Martínez, diceva ai suoi clienti; “Se non sono in tipografia, cercatemi nella bottega, la botteguccia che sta nel mezzo della strada”. Da lì nacque La Bodeguita del Medio, qualcosa tanto ovvia che non ci pensò nessuno, prima. Così si chiama, dal 26 aprile del 1950, questo esercizio. Martínez finì di sbarazzarsi dei viveri e liquori comuni nelle botteghe e mise pochi tavoli nello spazio ridotto di cui disponeva, la fama della cucina di Armenia crebbe, rinforzata dalle mani prodigiose de “La China” Silvia Torres e i mojitos che lì acquisirono il documento di cittadinanza internazionale, fecero il resto.
Di lì sono passati tutti, si fa per dire. Come dal bar Vista al Golfo dell’Hotel Nacional, dove gli ambasciatori del rum Havana Club, col cocktail che porta il nome dell’esercizio alberghiero in mano, poterono apprezzare la estesa galleria con le foto delle celebrità che adornano le pareti del locale; tutti clienti dell’esercizio.
Gli invitati percorsero l’Avana su carrozze trainate da cavalli, bici taxi e grandi automobili scoperte. La sera finale, dopo cena, gli si regalò un’esperienza memorabile: poterono partecipare al matrimonio tra un Cohiba VI secolo e il rum Unión di Havana Club.
Una combinazione perfetta. 

Bares habaneros

Ciro Bianchi Ross

En estos días tocó a este escribidor compartir con un grupo de embajadores del ron Havana Club. Se llama así a los representantes de la prestigiosa marca en los países donde residen; gente joven, afable, comunicativa y, desde luego, muy receptiva a la historia y las novedades de la industria y el producto  que representan. Este escribidor debía guiarlos en un recorrido que comenzó a medio día en el Floridita y terminó, tarde en la tarde, en el bar Vista al Golfo del Hotel  Nacional de Cuba, luego de haber pasado por Sloppy Joe’s, Bodeguita del Medio y Dos Hermanos.
Cada uno de esos establecimientos recibió a los visitantes con un coctel. Vista al Golfo con el  coctel Nacional y  Sloppy con  Cuba Libre, mientras que Bodeguita del Medio y Floridita con el  mojito y el  daiquirí, que son de imaginar. Dos Hermanos ofreció el Havana Special. Curiosamente, en la cena con la que se clausuró el encuentro y que tuvo lugar en el Museo del Ron, el Havana Special fue también el coctel de bienvenida.

UN TREN SOBRE LAS OLAS

Para quien esto escribe fue una sorpresa constatar la vigencia de ese
trago   que algunos llaman el Manhattan cubano, y que el cronista
suponía olvidado  ya en la preferencia y el paladar de los bebedores, aunque se reitera en la carta-menú de muchos bares no estatales.  Una mezcla cuya invención se atribuye a Constantino Ribalaigua, barman catalán radicado en la capital cubana, que se inspiró en una línea de transporte de pasajeros y mercancías que hacía el recorrido Nueva York—Cayo Hueso—La Habana—Nueva York.
Desde esa ciudad, el tren  demoraba dos días en llegar a Cayo Hueso, donde un servicio de ferry-boats, en una travesía de diez horas, transportaba los vagones hasta La Habana. Esa ruta se conoció con el nombre de The Havana Special y posibilitó que Cuba la aprovechara para reafirmarse como importante suministrador del mercado norteamericano.
Cruzar el mar sentado cómodamente  en un vagón de ferrocarril que
antes avanzó sobre la cumbre angosta de una montaña de coral,   parece
cosa  de hadas. Como las hadas no existen, solo un hombre como el multimillonario Henry Flagler fue capaz de una empresa como esa que extendió la vía férrea hasta Miami y desde allí, de isleta en isleta, la llevó hasta Cayo Hueso para conectar así con Cuba, el resto del Caribe y el Canal de Panamá.
El camino de hierro  se acometió con acero y cemento de Alemania y maderas cubanas. Requirió de siete años de ingente labor. Por largos periodos hasta  4 000 hombres laboraron allí de manera simultánea.
Tres ciclones —uno, con 200 trabajadores muertos— entorpecieron la construcción.
No serían los meteoros el único inconveniente. El primero de los ingenieros que asumió el proyecto, enloqueció sobre los arrecifes, y el que prosiguió la tarea y la llevó a término, nunca más pudo volver a trabajar en lo suyo. De cualquier manera, el 22 de enero de 1912, con la llegada a Cayo Hueso del primer tren procedente de Miami, Flagler hacía realidad su sueño, y ese mismo día embarcaba hacia La Habana a fin de promover su ruta sobre los cayos. Veintitrés años después, el 2 de septiembre de 1935, un huracán de categoría cinco destruyó parcialmente la infraestructura ferroviaria. Los propietarios de The Havana Special vendieron lo que quedó  al estado de Florida.
Parte de esas ruinas son todavía visibles. Sobre partes de ellas se erigió la red de carreteras que, desde 1938, une entre sí los cayos floridanos y los enlaza con la península.  Desde entonces los ferry no transportaron vagones de ferrocarril. Prosiguieron su línea de pasajes y carga general y dieron a los viajeros de ambos lados la oportunidad de visitar la orilla contraria con su propio automóvil.
El ferry de Cayo Hueso se interrumpió después de 1959. Hoy, a consecuencia del bloqueo impuesto a Cuba por el gobierno de Washington, el Havana Special es solo el coctel creado por Constantino Ribalaigua, mientras que en el Cayo un busto de Flagler recuerda la historia de su famoso ferrocarril.

TAMBIÉN EN LAS NOVELAS

Todo eso expliqué, en el bar Dos Hermanos,  a los embajadores de Havana Club. Ese establecimiento se ubica frente al muelle de The Havana Special y abrió sus puertas en 1892, lo que lo hace uno de los
bares más antiguos de la capital cubana.   Se caracterizó por su larga barra de madera dura, incompleta desde que le cercenaron un pedazo a fin de emplazarlo en uno de los bares del hotel Moka, en Las Terrazas.
Aun así, sigue siendo larga.  El poeta español Federico García Lorca frecuentó el Dos Hermanos durante su estancia cubana de 1930, y por allí estuvieron  asimismo, entre otros,  Alejo Carpentier y Enrique Serpa, autor de novelas como Contrabando y La trampa y de un cuento antológico, Aletas de tiburón. Y, por supuesto, el inevitable Hemingway,  que en la festinada opinión de algunos deambuló por todos los bares y cantinas habaneros, aunque centró su preferencia en Floridita.  En Dos Hermanos, «con pasos torpes que lo conducían a una pequeña pero satisfactoria libertad», entró una tarde Andrés, el protagonista de Fiebre de caballos, (1988) la novela inicial de Leonardo Padura. Al comienzo bebió lentamente su trago amargo y se dedicó a estudiar a la gente hasta que la cuarta o quinta cerveza lo dejó sin movimientos y empezó a ver neblinosos y deformes a los que lo rodeaban, como si estuviera viendo una película filmada con un grotesco ángulo ancho.
            Floridita fue hasta 1959  el bar  más famoso de la ciudad, pero Sloppy Joe’s fue siempre el de más ventas. Supuse que el Sloppy Joe´s de Cayo Hueso antecedió a este de la esquina de Zulueta y Ánimas, en La Habana. Error. El Sloppy habanero se anticipó  en 16 años al del lado de allá, que se inauguró en 1934 y tres años después se instalaba en la calle Duval, ubicación que todavía mantiene, mientras que otro bar llamado Capitán Tony ocupaba  el espacio que el Sloppy original dejaba libre. Capitán Tony no tiene la animación del Sloppy ni su hechizo, pero allí se da una situación insólita: muchas de las mujeres que lo visitan se despojan del ajustador y lo cuelgan en las tendederas que cruzan el salón.
            Si Padura fijó el bar Dos Hermanos en la literatura, y Hemingway el Floridita en Islas en el golfo,  el inglés Graham Greene, aficionado al ron añejo e inventor de cocteles diabólicos, inmortalizó el Sloppy —y también al hotel Sevilla— en su novela Nuestro hombre en La Habana,  llevada además al cine. Un detalle interesante aporta una guía de
1954 publicada en Estados Unidos  que facilitaba a turistas norteamericanos su visita a la Isla: Sloppy Joe’s era frecuentado por visitantes estadounidenses, no por los norteamericanos residentes.  La colonia norteamericana en La Habana prefería el bar Mis amigos, en Séptima y 42, Miramar. Floridita tuvo fluctuaciones con relación a sus parroquianos. La mayoría de ellos era de origen norteamericano hasta el inicio de la II Guerra Mundial. Durante la conflagración bélica se llenó de cubanos. Los norteamericanos no podían venir a causa de la guerra y los cubanos no podían salir. Finalizada la guerra, nacionales y visitantes disfrutaron juntos su daiquirí, que figura en la lista de diez grandes cocteles del mundo.
            En 1937, el corresponsal en La Habana de la agencia norteamericana UP dedica una crónica a Constantino Ribalaigua. Refiere que un grupo de amigos conversaba sobre beisbol  en uno de los bares del Hotel Nacional cuando uno de ellos preguntó sobre quién podría considerarse el mejor cantinero cubano. Constantino Ribalaigua, respondió el barman que los atendía, aunque la pregunta no le estaba dirigida expresamente. De inmediato, refiere el periodista, uno de los del grupo telefoneó al Sloppy y a Prado 86 y también a los bares de los hoteles Plaza y Sevilla, muy famosos en la época. Obtuvo la misma respuesta. El reportero visitó a Constantino en Floridita y quedó maravillado. Confesó el barman que sus mejores cocteles eran daiquirí, presidente y Pepín Rivero, inspirado en el director-propietario del Diario de la Marina. El escribidor,  que tiene en su archivo las fórmulas de más de 300 cocteles recogidas en bares y cantinas de toda la Isla,  no ha podido ver la receta de ese último coctel. No aparece en el recetario del Floridita que Constantino publicó en 1939, cuando el señor Rivero todavía vivía. Por cierto, en ese coctelario se consigna la fórmula de un daiquirí elaborado expresamente con Havana Club.
 Che aveva
UNA INCÓGNITA

Si es posible precisar el origen de muchos cocteles y mencionar a sus creadores por su nombre, el Cuba libre queda en el misterio. Todavía a fines del siglo XIX no se conocía en Cuba la palabra coctel. La ginebra superaba al ron en el gusto de los bebedores y se hablaba de compuestos, achampanados  y meneados. La intervención militar norteamericana puso una nota de modernidad en los bares cubanos, y ron, refresco de cola y hielo hicieron una mezcla de campeonato. Cesó la soberanía española, la Isla quedó  bajo la égida de Estados Unidos y nació una república mediatizada. Pero la gente, con una buena dosis de ingenuidad, levantaba su vaso y decía: Cuba libre. En 1902 surgía el bar La Florida que, con el tiempo, pasó a ser el Floridita, y existían ya entonces el American Club, que quebró y reabrió después y la  cantina que daba servicio a las tropas norteamericanas destacadas en el campamento de Columbia. Existía, como ya se dijo, el Dos Hermanos. Se habla asimismo de un bar Americano, que el escribidor no ha podido localizar, si es que existió. En cualquiera de ellos pudo surgir el Cuba libre. .
            La Bodeguita del Medio entusiasmó a los visitantes. Su fundador, Ángel Martínez, repetía que a los 12 años de edad su padre lo condenó a cadena perpetua detrás de un mostrador. En 1942 compró el establecimiento que  entonces se llamaba La Complaciente y que no era más que una bodega de barrio. Allí su esposa Armenia comenzó a cocinar para unos pocos clientes, entre ellos Felito Ayón, un animal de la noche habanera que se vincula, como impresor, a hitos imprescindibles de la poesía cubana, como la Elegía a Jesús Menéndez, de Nicolás Guillén con dibujos de Carlos Enríquez.  Felito que tenía su negocio en la misma cuadra de lo que se llamaba ya La Casa Martínez, decía a sus clientes: Si no estoy en la imprenta, búscame en la bodega, una bodeguita que está en el medio de la calle. De ahí surgió La Bodeguita del Medio, algo tan obvio que a nadie se le ocurrió antes. Así se llama este establecimiento desde el 26 de abril de 1950. Martínez terminó desembarazándose de los víveres y licores habituales en las bodegas y  puso unas pocas mesas en el reducido espacio de que disponía, creció la fama de la cocina de Armenia, reforzada luego por las manos prodigiosas de «La China» Silvia Torres, y los mojitos, que adquirieron allí carta de ciudadanía internacional, hicieron el resto.
            Por allí ha pasado todo el mundo, es un decir. Al igual que por el bar Vista al Golfo del Hotel Nacional, donde los embajadores del ron Havana Club, con el coctel que lleva el nombre del establecimiento hotelero  en la mano,  pudieron apreciar la extensa galería de fotos de famosos que adornan las paredes; clientes todos de la instalación.
            Los invitados recorrieron La Habana en coches tirados por caballos, bici taxis y grandes carrones convertibles. La noche final, después de la cena, les regaló una experiencia memorable: pudieron participar en un maridaje entre un Cohíba siglo VI y el ron Unión de Havana Club.
Una combinación perfecta.

Ciro Bianchi Ross



2 commenti:

  1. A proposito di Our man in Havana, ricordo che parlavo un giorno col direttore del Sevilla e gli confidavo la mia impressione che, alcune descrizioni di interni raccontate nel libro, mi ricordavano il Sevilla; e il direttore si è detto d'accordo con me.

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  2. I miei ricordi sui dettagli del film non sono freschissimi e forse coperti da un’ombra del “tedesco”, però a me ricordava più l’Inglaterra. D’altra parte epoche e stili sono molto simili.

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