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sabato 14 settembre 2013

Premio Nobel per la guerra

In questo mio spazio cerco di non occuparmi strettamente di politica, però ogni tanto mi punge vaghezza di esprimere una mia modestissima opinione.

C'era una volta un Presidente degli Stati Uniti che aveva acceso molte speranza di cambiamento nella politica estera di quel Paese. Le speranze venivano, anche, dal fatto che si fossero rotti antichi schemi di pregiudizi e che la maggioranza degli aventi diritto e partecipanti al voto, avessero scelto un presidente etnicamente "diverso" da tutti i precedenti. Notoriamente negli USA gli afroamericani non sono molto evidenti nella politica, figuriamoci la sorpresa di vederne uno come presidente...
Le speranze dei pacifisti e della gente comune che stanca, stremata da guerre e terrorismo che colpiscono indirettamente anche chi non ne è coinvolto in prima persona, sono durate lo spazio di un mattino. Il Democratico Barak Obama, si è rivelato se non peggio, almeno allo stesso modo dei suoi predecessori repubblicani e certo non meglio dei suoi colleghi di partito saliti alla Casa bianca prima di lui.
Gli Stati Uniti hanno una lunga storia da interventisti, creando essi stessi dei pretesti per invadere altri popoli e Paesi. Cuba ne sa qualcosa con l'intervento nella sua, ormai vittoriosa, guerra d'indipendenza. Poi sono venuti il Viet Nam, l'Afganistan, l'Irak, la Libia, l'Egitto. Adesso c'è nel mirino la Siria, poi? l'Iran? E' probabile. Nel frattempo, queste "liberazioni" e "pacificazioni", si fanno notare per disordini, moti di ribellione, attentati, morti e fiumi di sangue quotidiani. Per non parlare delle "guerre sporche" scatenate in mezza Africa. Tutte aree dove la sicurezza nazionale, tanto sbandierata, non era minimamente in pericolo.
Nel caso della seconda guerra mondiale, dove il loro intervento è stato certamente determinante, guarda caso, non si erano sentiti in dovere di intervenire, per difendere un'Europa preda del nazismo e del fascismo, fino all'attacco dei giapponesi a Pearl Harbour. Un attacco annunciato che il Presidente Roosvelt aveva voluto ignorare non prendendo le misure preventive.
Hanno ignorato, segnali di presenza del terrorismo prima dell'attacco alle torri gemelle. Foraggiano e proteggono "combattenti per la libertà" che non sono altro che terroristi dal momento che che "combattono" contro obbiettivi civili e inermi.
Per contro, hanno condannato a pene spropositate 5 agenti cubani che si erano infiltrati nei gruppi terroristici di Miami allo scopo di allertare il loro Paese in vista di attacchi progettati. Si è anche dimostrato che queste presunte "spie", hanno invece fornito spesso materiale di aiuto all'FBI che evidentemente ne conosceva la presenza sul territorio e lo ha "tollerato" fino quando lo ha ritenuto utile e opportuno.
Ebbene, tutto ciò sembrava dovesse cambiare con l'avvento di un, credo troppo precoce, premio Nobel per la Pace. Invece non è cambiato niente se non, magari, in peggio. Un bel curriculum per un presidente progressista e pacifista, credo che nemmeno gli afroamericani abbiano più fiducia e rispetto per lui che, naturalmente, se ne frega così come se ne frega di opinioni e interventi ben più autorevoli di questo mio "sfogo".
Come ciliegina, leggo proprio adesso la notizia che il Presidente Obama ha ratificato per un altro anno le sanzioni economiche e commerciali verso cuba perché..."rispondono agli interessi nazionali di Washington".

Dizionario demenziale

BENEFATTORE: dato matematico inserito correttamente

venerdì 13 settembre 2013

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BENEDIZIONE: affetto del grande zio

giovedì 12 settembre 2013

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BELLUINO: la zona migliore di una ridente località sul Lago Maggiore

mercoledì 11 settembre 2013

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BELLIMBUSTO: attraente conduttore televisivo

martedì 10 settembre 2013

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BELLETTO: giaciglio dall'aspetto invitante

lunedì 9 settembre 2013

A 80 anni dal "golpe". Di Ciro Bianchi Ross publicato su Juventud Rebelde dell'8/9/13

La cosa diventava peggiore ogni giorno. Si era installato il caos, dopo la caduta di Machado il 12 agosto del 1933. Carlos Manuel de Céspedes presiedeva il Governo, ma non governava e la combattività dei cubani spaventava l’ambasciatore statunitense. C’era fame, disoccupazione e scioperi. La fiammata popolare ardeva l’Isola: operai e studenti erano sul piede di guerra. Nel porto dell’Avana, due navi da guerra statunitensi stazionavano con i cannoni sfoderati e i marines pronti a sbarcare.
Il clima di indisciplina e insubordinazione cresceva nell’esercito. Gli ufficiali, demoralizzati per la loro complicità con la dittatura appena abbattuta, erano sulla difensiva e il complotto dei sergenti riuniti nella cosiddetta Giunta della Difesa o degli Otto, guadagnava discepoli fra i coscritti. Di questa Giunta facevano parte i sergenti Pablo Rodríguez, che la dirigeva, José Eleuterio Pedraza e Manuel López Migoya, il sergente stenografo Fulgencio Batista, il soldato Mario Alfonso Hernández...Chiedavono benefici per la categoria dei sottufficiali e soldati, che non gli si riducesse la paga e che si aumentasse la cifra della pensione. Chiedevano copricapi piatti, due bottoni in più nella giacca e di non essere più utilizzati come attendenti da parte degli ufficiali. Però, molto presto, il 4 di settembre, il movimento rivelerà la sua matrice politica: non era necessario chiedere quello che essi stessi potevano procurarsi.
La mattina di quel giorno, il capitano Mario Torres Menier, del corpo di Aviazione, si presentò al comando del Sesto Distretto Militare, con sede nel campo di Columbia. Portava il messaggio del colonnello Julio Sanguily, capo dello Stato Maggiore di riunirsi con sottufficiali e soldati per conoscere le loro richieste, dal momento che il comando sapeva delle agitazioni presenti nella truppa e dell’assemblea che era in progetto. Spiegò il motivo della su visita al tenente colonnello José Perdomo. Ma Perdomo non era in grado di ascoltare. Era appena stato sollevato dal comando del Distretto, che rimase sotto il comando provvisorio del comandante Antonio Pineda e non avrebbe tardato a partire per Santiago di Cuba per occupare il suo nuovo incarico... Volle abbassare il tono alle preoccupazioni di Torres Menier: “Questa riunione, che non ha la maggior importanza, è autorizzata; dirò di più, mi sembra giusto che i ragazzi presentino le loro richieste”, disse e ricordò che poco prima aveva espresso a Batista, dopo aver ascoltato le lamentele dei soldati, che non voleva più essere il tenente colonnello Perdomo, ma il sergente Perdomo. Nonostante ciò, il capitano volle insistere per riunirsi con qualcuno dei caporioni del movimento. Lo fece con Batista che era appena entrato nel campo Si incontrarono nel portico del Club degli Arruolati.
Una volta dentro al Club Batista, cauto, parlò di sua moglie e della figlioletta per le quali vegliava come faceva il resto di quelli riuniti, colà, per i propri famigliari. Fece un sacco di giri di parole senza entrare nel merito, fino a che il soldato Mario Alfonso Hernández gli tolse la parola con un: “Guarda, Batista, non dire più cretinate e di che quello che vogliamo è un cambio di regime”.

E basta!

Al sergente dava fastidio l’insistenza di Torres Menier perché ponesse per iscritto le richieste della truppa per portarle a Sanguily. Il documento poteva essere usato contro di lui. Per questo, quando il capitano lasciò il Club, uscì velocemente da Columbia senza prima tralasciare di avvisare alcuni dei complottanti che la cospirazione era stata scoperta. Andò a casa sua, nel “cuchillo” di Toyo con due compagni. Elisa, sua moglie, preparò qualcosa da mangiare per il gruppo e fu lei a tranquillizzarlo quando commentò che alla radio avevano parlato di “qualcosa” che era successo a Columbia, ma che si era risolto.
Allora Batista decise di tornare al campo. Col presetsto di redigere le richieste, riunì la sua gente. Tutte le unità furono convocate per le 8 di sera. A quell’ora circa 800 unità di aderenti, in rappresentanza dell’esercito e la marina di stanza all’Avana e Matanzas, si dettero appuntamento nel cinema del campo. Parteciparono anche alcuni ufficiali.
Quello che successe fu raccontanto in diversi modi. All’ora convenuta, Batista, salì sul palco. I presenti cominciarono a parlare delle richieste e non si sa chi lanciò il grido di guerra. Alcune fonti riferiscono che qualcuno gridò all’improvviso: “E basta! Da questio momento noi coscrittici facciamo carico della situazione. I signori ufficiali possono ritirarsi nelle loro case e aspettare ordini”. Si dice che a partire da quello, Batista seguì l’onda e si impadronì della situazione. Altri autori gli attribuiscono tutto il protagonismo. Assicurano che il sergente stenografo dichiarò che non si sarebbero più eseguiti altri ordini che i suoi e che i sergenti maggiori si sarebbero fatti carico delle rispettive unità. Chiese rispetto e considerazione per gli ufficiali...Disse ai suoi compagni. “Adesso andate alle vostre unità, prendete le armi e mantenetevi entro la maggior disciplina fino a che riceviate da me gli ordini dettati dal nuovo Stato Maggiore”.
Mentre i sergenti maggiori uscivano per prendere i comandi, i sergenti del quartier generale si presentavano per ricevere ordini. Batista passò all’edificio del Comando e occupò l’ufficio del colonnello comandante. Aveva urgenza di comunicarsi con le caserme delle province al fine di ottenere l’appoggio di sottufficiali e soldati. Prontamente si aggiunsero le forze distaccate nella fortezza de la Cabaña, il bastione militare avanero più importante dopo di Columbia. Anche la caserma Sant’Ambrogio, sede dell’intendenza dell’esercito, si era aggiunta alla sollevazione e lo stesso sucesse con la caserma di Dragones, sede del Quinto Distretto, preso da un solo sergente. Alle due del mattino del 5 settembre, le truppe della capitale del Paese rinsaldavano fermamenti il colpo di Stato, e nel resto della nazione non si tardò a imitarle. Alle 5, il Governo di Céspedes non esisteva più. A quest’ora, l’ordine numero 1, dettato a Columbia, informava che Batista era al comando del movimento golpista.
Si dice che Batista venne invitato a incorporarsi alla Giunta della Difesa perché era l’unico sergente che avesse un’automobile e i cospiratori avevano bisogno di un veicolo. Certamente fu il più audace del gruppo e si impadronì del movimento. Nominò Rodríguez comandante di Columbia e López Migoya aiutante di Rodríguez. Ma non firmò il documento. Lo fece Migoya come aiutante di Rodríguez che ne era all’oscuro. Si dice che i soldati protestarono per la decisione di Batista, ma Rodríguez lasciò le cose come stavano.

Se vuole vada, se no non vada

I civili arrivavano poco a poco al campo militare. Alcuni non poterono entrare perché le guardie, accusandoli di politicanti, lo impedirono. Arrivarono, tra gli altri, Ramiro Valdés Daussá, dell’orgnizzazione Pro Legge e Giustizia, “Pepelín” Leyva e “Willy” Barrientos del Direttivo Studentesco. Si ritenne prudente avvisare anche Rubén de León e Carlos Prío, anch’essi dell’organizzazione universitaria e Batista chiese che si avvertisse il giornalista Sergio Carbó, direttore della rivista “La Semana”. “Pepelín” fu ad avvisarlo nella sua casa di 17 e I, nel Vedado. Suonò il camapanello della porta del piano terreno e quando Carbó si affacciò al balcone, grido dal marciapiede che Batista gli chiedeva che andasse a Columbia perché il “golpe” era già in marcia.. “Senta, ma lei sa cosa mi sta dicendo?”, rispose Carbó. E Pepelín: “Vabbè, se vuole vada, se no non vada. Da parte mia glie l’ho detto”.
Fu Prío che convinse Batista che l’obbiettivo immediato di quel movimento era di prendere il potere, ebbene il fascio di domande dei coscritti, che era nel frattempo aumentato, non era più l’espressione di una rivolta senza contenuto politico. Ne conseguì che il sergente stenografo e i suoi compagni assumessero il programma del Direttivo e, presieduta da Prío, si costituì il Raggruppamento Rivoluzionario di Cuba conosciuto anche come Giunta Rivoluzionaria di Columbia. Il “Proclama della rivoluzione del popolo di Cuba”, firmato da quasi tutti i membri di questa organizzazione presenti al campo e da Fulgencio batista come “sergente delle Forze Armate della Repubblica”, tracciò le linee di condotta e annunciò la presa del potere.
Il Raggruppamento, diceva il documento redatto da Sergio Carbó, nasceva per impulsare, in modo integrale, le rivendicazioni rivoluzionarie per le quali lottava il popolo di Cuba dentro ampie linee di democrazia e su basi di sovranità nazionale. Queste rivendicazioni erano: la ricostruzione economica della nazione, la convocazione di un’assemblea costituente, il castigo dei grandi colpevoli della dittatura machadista e il rispetto dei debiti contratti dalla Repubblica.
Il Proclama precisava: “Considerando che l’attuale Governo (di Céspedes) non risponde alla domanda urgente delle Rivoluzione, nonostante la buona fede e il patriottismo dei suoi componenti, il Raggruppamento si fa carico delle redini del potere come Governo Rivoluzionario Provvisorio, che rimetterà il sacro comando conferito dal popolo appena l’Assemblea Costituente, che si deve convocare, designi il Governo costituzionale che reggerà il nostro destino fino alle prossime elezioni generali”.
Per allontanare il fantasma del “caudillismo” si optò per un Governo collegiale. Batista assicurò che l’Esercito e la Marina erano d’accordo di appoggiare il Governo che decidesse il Raggruppamento. La Commissione Esecutiva fu conformata da cinque persone e venne chiamata popolarmente “la Pentarchia”. Di questi, in quel momento erano già a Columbia Sergio Carbò e José Miguel Irísarri e si decise invitare i professori universitari Ramón Grau San Martín, di Medicina e Guillermo Portela, di Diritto, che si aggiunsero al gruppo. Irísarri propose che batista fosse il quinto “pentarca”, ma il sergente prudentemente disse che preferiva rimanere nell’esercito. Ci furono altre due proposte: Carlos de la Torre, il saggio delle lumache e il banchiere Porfírio Franca, che vinse per maggioranza.


Il Quartier Generale di Columbia


E Céspedes?

A questo punto rimaneva solo la sostituzione formale di un Governo che aveva cessato di esistere. Il Presidente Céspedes fu sorpreso dagli avvenimenti fuori dall’Avana. Stava tornando dalle province centrali, dove aveva valutato i danni dell’uragano del primo settembre, quando il suo segretario raggiunse il corteo del suo presidente a San Francisco de Paula e lo aggiornò sui fatti di Columbia. Erano le 11 di mattina del giorno 5. Gli disse: “Summer Welles dice di non fare niente fin che non abbia parlato con lui”. Perché era l’Ambasciatore nordamericano che, alla caduta di Machado, aveva imposto alla presidenza quell’uomo di 62 anni di età, figlio del Padre della Patria e che, come diplomatico, aveva passato buona parte della sua vita fuori da Cuba, alieno ai problemi del Paese.
La stampa, una volta nel Palazzo, volle interrogarlo, ma Céspedes ignorò le domande. “Il ciclone è stata una vera catastrofe”, dichiarò e salì al suo ufficio accompagnato da alcuni dei suoi ministri. Successivamente, Batista, ancora con i suoi galloni da sergente, e i “pentarchi” entrarono nell’ufficio del Presidente accompagnati anche da alcuni membri del Direttivo. Prío che giunse al Palazzo in maniche di camicia, dovette chiedere in prestito una giacca.
Silenzio. Attesa. Seguì un dialogo teso tra Grau San Martín e il Presidente che abbandonò il palazzo senza dimettersi.
(Fonti: Testi di N. Briones Montoto, E. De la Osa e L. Soto)



A 80 años del golpe

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
7 de Septiembre del 2013 19:08:54 CDT

La cosa estaba cada día peor. El caos se entronizó tras la caída de
Machado, el 12 de agosto de 1933. Carlos Manuel de Céspedes presidía
el Gobierno, pero no gobernaba y la combatividad de los cubanos
asustaba al Embajador estadounidense. Había hambre y desempleo y
huelgas. La llamarada popular quemaba la Isla y obreros y estudiantes
estaban en pie de lucha. En el puerto habanero dos buques de guerra
estadounidenses permanecían con los cañones desenfundados y los
marines prestos al desembarco.
El clima de indisciplina e insubordinación crecía en el Ejército. Los
oficiales, desmoralizados por su complicidad con la recién derrocada
dictadura, estaban a la defensiva y el complot de los sargentos
agrupados en la llamada Junta de Defensa o de los Ocho ganaba adeptos
entre los alistados. Formaban parte de esa Junta los sargentos Pablo
Rodríguez, que la encabezaba, José Eleuterio Pedraza y Manuel López
Migoya, el sargento taquígrafo Fulgencio Batista, el soldado Mario
Alfonso Hernández... Demandaban beneficios para clases y soldados, que
no se les rebajara el sueldo y que se aumentara el monto de las
pensiones; reclamaban gorras de plato y dos botones más en la guerrera
y que dejaran de ser utilizados como sirvientes por parte de la
oficialidad. Pero bien pronto, el 4 de septiembre, el movimiento
revelaría su matiz político: no era menester pedir lo que ellos mismos
podrían agenciarse.
En la mañana de ese día, el capitán Mario Torres Menier, del cuerpo de
Aviación, se personó en la jefatura del Sexto Distrito Militar, con
sede en el campamento de Columbia. Llevaba el encargo del coronel
Julio Sanguily, jefe del Estado Mayor, de reunirse con clases y
soldados y enterarse de sus peticiones ya que el mando tenía
conocimiento de la agitación que reinaba entre la tropa y de la
asamblea que proyectaba. Al teniente coronel José Perdomo explicó el
propósito de su visita. Pero Perdomo no estaba para el paso. Acababa
de ser relevado de la jefatura del Distrito, que quedó bajo el mando
provisional del comandante Antonio Pineda, y no demoraría en partir
para Santiago de Cuba a ocupar su nuevo destino. Quiso bajar el tono a
las preocupaciones de Torres Menier. «Esa reunión, que no tiene la
mayor importancia, está autorizada; es más, me parece que los
“muchachos” hacen bien en plantear sus demandas», dijo, y recordó que
poco antes había expresado a Batista que luego de conocer las quejas
de los soldados, no quería seguir siendo el teniente coronel Perdomo,
sino el sargento Perdomo. Aun así insistió el capitán en reunirse con
alguno de los cabecillas del movimiento. Lo haría con Batista, que
acababa de entrar en el campamento. Se encontraron en el portal del
Club de Alistados.
Ya dentro del Club, Batista, cauteloso, habló sobre su esposa y su
hijita, por las que, dijo, velaba al igual que lo hacían por sus
familiares el resto de los allí reunidos. Dio vueltas y más vueltas a
sus palabras, sin tocar lo esencial, hasta que el soldado Mario
Alfonso Hernández le cortó la perorata con un: «Mira, Batista, no
hables más mierda y di que lo que queremos es un cambio de régimen».

¡Basta ya!

Al sargento le daba mala espina la insistencia de Torres Menier de que
pusiera por escrito las peticiones de la tropa para trasladarlas a
Sanguily. El documento podía utilizarse en su contra. Por eso, en
cuanto el capitán abandonó el Club, salió él también disparado de
Columbia no sin avisar antes a algunos de los complotados que la
conspiración estaba descubierta. Con dos compañeros, se fue a su casa
en el cuchillo de Toyo. Elisa, su esposa, preparó para el grupo algo
de comer y fue ella la que los tranquilizó cuando comentó que por
radio hablaron sobre «algo» que sucedió en Columbia, pero que estaba
resuelto.
Decidió Batista entonces volver al campamento. Con el pretexto de
redactar el petitorio, reuniría a su gente. Todas las unidades fueron
convocadas para las ocho de la noche. A esa hora unos 800 alistados,
en representación de unidades del ejército y la marina destacadas en
La Habana y Matanzas, se daban cita en el cine del campamento.
Concurrían además algunos oficiales.
Lo que allí sucedió ha sido contado de muy diversas maneras. A la hora
convenida, Batista subió al estrado. Comenzaron los reunidos a hablar
sobre las demandas y no se sabe ya quién dio el grito de guerra.
Algunas fuentes refieren que alguien gritó de pronto: «¡Basta ya!
Desde este momento los alistados nos hacemos cargo de la situación.
Los señores oficiales pueden retirarse a sus casas y esperar órdenes».
Se cuenta que a partir de ahí Batista siguió la rima y se adueñó de la
situación. Otros autores le atribuyen todo el protagonismo. Aseguran
que el sargento taquígrafo expresó que no se obedecerían más órdenes
que las suyas y añadió que los sargentos primeros se harían cargo de
sus unidades respectivas. Pidió respeto y consideración para los
oficiales… Dijo a sus compañeros: «Ahora vayan a sus unidades, tomen
las armas y manténganse dentro de la mayor disciplina hasta que
reciban de mí las órdenes que dicte el nuevo Estado Mayor».
Mientras los sargentos primeros salían a ocupar los mandos y los
sargentos cuartel maestre se presentaban a recibir órdenes, Batista
pasaba al edificio de la jefatura del distrito y ocupaba el despacho
del coronel jefe. Le urgía comunicarse con los cuarteles de provincia
a fin de recabar el apoyo de clases y soldados. De inmediato se
sumaban las fuerzas destacadas en la fortaleza de La Cabaña, el
baluarte militar habanero más importante después de Columbia. El
cuartel de San Ambrosio, sede de la intendencia del ejército, se
sumaba también a la sublevación, y lo mismo sucedía con el cuartel de
Dragones, sede del Quinto Distrito, tomado por un solo sargento. A las
dos de la mañana del día 5 de septiembre las tropas de la capital del
país hacían firme su respaldo al golpe de Estado, y no tardaban en
imitarlas las del resto de la nación. A las cinco el Gobierno de
Céspedes no existía. A esa hora la Orden General número 1, dictada en
Columbia, daba cuenta de que Batista estaba al mando del movimiento
golpista.
Se dice que a Batista lo invitaron a incorporarse a la Junta de
Defensa porque era el único sargento que tenía automóvil y los
conspiradores necesitaban de un vehículo. Fue, sí, el más audaz del
grupo; se adueñó del movimiento. Protagonizó la asonada en el mismo
campamento de Columbia, y, antes, envió a Rodríguez a Matanzas. En
ausencia de Rodríguez, Batista dictó la orden en la que se designaba a
sí mismo jefe del movimiento. Nombró a Rodríguez jefe de Columbia y a
López Migoya, ayudante de Rodríguez. Pero no firmó el documento. Lo
hizo Migoya como ayudante de Rodríguez, que desconocía el asunto. Se
dice que los soldados protestaron la decisión de Batista, pero
Rodríguez dejó las cosas como estaban.

Si quiere va y si no, no va

Los civiles arribaban poco a poco al campamento militar. Algunos no
pudieron entrar porque los guardias, tachándolos de politiqueros, lo
impidieron. Llegaron, entre otros, Ramiro Valdés Daussá, de la
organización Pro Ley y Justicia, y «Pepelín» Leyva y «Willy»
Barrientos, del Directorio Estudiantil. Se creyó prudente avisar a
Rubén de León y a Carlos Prío, también de la organización
universitaria, y Batista pidió que se le avisara al periodista Sergio
Carbó, director de la revista La Semana. «Pepelín» fue a avisarle a su
casa de 17 e I, en el Vedado. Tocó el timbre de la puerta de los bajos
y cuando Carbó se asomó al balcón, gritó desde la acera que Batista le
pedía que fuera a Columbia porque ya el golpe estaba andando. «Oiga,
¿usted sabe lo que me está diciendo?», ripostó Carbó. Y Pepelín:
«Bueno, si quiere va y si no, no va. Ya yo se lo dije».
Fue Prío quien convenció a Batista de que el objetivo inmediato de
aquel movimiento debía ser la toma del poder, pues el pliego de
demandas de los alistados, que había seguido engrosándose, no era más
que expresión de una rebeldía sin contenido político. Se consiguió que
el sargento taquígrafo y sus compañeros asumieran el programa del
Directorio y, presidida por Prío, se constituía la Agrupación
Revolucionaria de Cuba, conocida también como Junta Revolucionaria de
Columbia. La «Proclama de la revolución al pueblo de Cuba» firmada por
casi todos los miembros de esa organización presentes en el campamento
y por Fulgencio Batista como «sargento jefe de las Fuerzas Armadas de
la República» fijó líneas de conducta y anunció la toma del poder.
La Agrupación, decía el documento redactado por Sergio Carbó, surgía
para impulsar, de manera integral, las reivindicaciones
revolucionarias por las que luchaba el pueblo de Cuba dentro de líneas
amplias de democracia y sobre principios de soberanía nacional. Esas
reivindicaciones eran la reconstrucción económica de la nación, la
convocatoria de una asamblea constituyente, el castigo de los grandes
culpables de la dictadura machadista y el respeto a las deudas
contraídas por la República.
Precisaba la Proclama: «Por considerar que el actual Gobierno (el de
Céspedes) no responde a la demanda urgente de la Revolución, no
obstante la buena fe y el patriotismo de sus componentes, la
Agrupación se hace cargo de las riendas del poder como Gobierno
Provisional Revolucionario, que reasignará el mando sagrado que le
confiere el pueblo tan pronto la Asamblea Constituyente, que se ha de
convocar, designe el Gobierno constitucional que regirá nuestros
destinos hasta las primeras elecciones generales».
Para alejar el fantasma del caudillismo, se optó por el Gobierno
colegiado. Batista aseguró que el Ejército y la Marina acordaban
apoyar el Gobierno que decidiera la Agrupación. Cinco figuras
conformarían la Comisión Ejecutiva —llamada popularmente Pentarquía—.
De estas, a esa hora, estaban ya en Columbia Sergio Carbó y José
Miguel Irisarri, y se decidió invitar a los profesores universitarios
Ramón Grau San Martín, de Medicina, y Guillermo Portela, de Derecho, a
que se sumaran al grupo. Irisarri propuso que Batista fuera el quinto
pentarca, pero el prudente sargento dijo que prefería mantenerse en el
ejército. Hubo dos propuestas más: Carlos de la Torre, el sabio de los
caracoles, y el banquero Porfirio Franca, que ganó por mayoría.

¿Y Céspedes?

A esa altura solo quedaba la sustitución formal de un Gobierno que
había ya dejado de existir. Al presidente Céspedes lo sorprendieron
los acontecimientos fuera de La Habana. Regresaba de las provincias
centrales, donde evaluó los destrozos del huracán del primero de
septiembre, cuando su secretario interceptó la caravana del mandatario
en San Francisco de Paula y lo impuso de los sucesos de Columbia. Eran
las 11 de la mañana del día 5. Le dijo: «Dice Summer Welles que no
haga nada hasta que no hable con él». Porque era el Embajador
norteamericano quien, a la caída de Machado, había impuesto en la
presidencia a aquel hombre de 62 años de edad, hijo del Padre de la
Patria y que, como diplomático, había pasado buena parte de su vida
fuera de Cuba, desconectado de los problemas del país.
La prensa, ya en Palacio, quiso interrogarlo, pero Céspedes rehuyó las
preguntas. «El ciclón ha sido una verdadera catástrofe», declaró y
subió a su despacho acompañado de algunos de sus ministros. Luego
Batista, aún con sus galones de sargento, y los pentarcas entraron en
la oficina del Presidente y penetraron además algunos miembros del
Directorio. Prío, que acudió a Palacio en mangas de camisa, tuvo que
pedir una chaqueta prestada.
Silencio. Expectación. Siguió un diálogo tenso entre Grau San Martín y
el mandatario que, sin renunciar, abandonó Palacio.
(Fuentes: Textos de N. Briones Montoto, E. de la Osa y L. Soto)


Ciro Bianchi Ross
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Dizionario demenziale

BELLADONNA: signora attraente

sabato 7 settembre 2013

Dizionario demenziale

BATTILANO: cadi sulle terga

venerdì 6 settembre 2013

XIV Festa dei Vini

Dal 2 al 4 ottobre prossimi, si terrà all'Avana la XIV Festa dei Vini durante la quale verranno presentati vini provenienti da diverse parti del mondo a cui si uniranno attività collaterali in collaborazione con l'Associazione Culinaria di Cuba e la Habanos s.p.a.
Si prevede anche la partecipazione del Consorzio Vini della Toscana in rappresentanza dell'Italia.
Il calendari della manifestazione, che si terrà all'hotel Nacional è il seguente:

2 ottobre alle ore 10.00 nella sala 1930: Presentazione e apertura della XIV edizione della Festa dei Vini con la conferenza di un rappresentante dell Camera di Commercio di Cuba.

3 ottobre alle ore 11.00 nel salone Parisienne: conferenza sullo sposalizio ideale fra sigari Avana autentici con vini d'eccellenza.

4 ottobre alle ore 11 nella sala 1930: presentazione di spuntini e "finger foods" in associazione ai vini ideali.

4 ottobre alle ore 17.00 nella sala 1930: chiusura e consegna dei premi alle varie Cantine.


Chissà se al Consorzio Vini della Toscana o a qualche altro Ente può venire in mente di aprire un'Enoteca all'Avana...lo spazio ci sarebbe.






Tormenta tropicale "Gabrielle"

La tormenta tropicale "Gabrielle", formatasi a sud est di Portorico è già transitata sull'Isola con forti piogge e venti di circa 55 kmh.
Gabrielle si sta muovendo verso ovest-nord-ovest e sta entrando nel territorio della Repubblica Dominicana senza cambiamenti nella sua composizione. Si prevede che il suo spostamento prosegua nella stessa direzione, quindi non dovrebbe interessare Cuba se non con alcune frange nella zona orientale nei prossimi giorni. Al momento non sembra ci siano le condizioni perché si converta in uragano, in ogni caso verrà monitorata costantemente.

Dizionario demenziale

BATTESIMO: percuote Simo

giovedì 5 settembre 2013

Dizionario demenziale

BATTERICO: percuote Rico

mercoledì 4 settembre 2013

Viaggio al patrimonio sommerso

Ho trovato interessante questo articolo, pubblicato sul Granma di sabato 31 agosto a firma di Orfilio Peláez

Per la sua posizione privilegiata, durante l’epoca coloniale Cuba divenne una rotta commerciale obbligata per l’intenso traffico navale per merci di ogni tipo fra l’America e l’Europa, in particolare il porto dell’Avana.
Questa propria condizione fece che le sue coste e acque antistanti fossero scenari di incontabili naufragi di diversi tipi di imbarcazioni come: navigli, fregate, brigantini, golette e altri mezzi navali di trasporto nel periodo tra i secoli XVI e XIX, i cui affondamenti furono causati molte volte dalla furia di madre natura, all’ignoranza delle caratteristiche del fondo marino da parte dei naviganti o alle guerre nelle quali si fronteggiavano le principali potenze dell’epoca, senza dimenticare quelli vincolati agli attacchi di piarti e corsari. Un articolo pubblicato tre anni orsono, in una rivista specializzata, dal riconosciuto archeologo e subacqueo professionista cubano, Alessandro López Pérez, e la altrettanto esperta ingegnera Mónica Pavía Pérez, rendeva conto di oltre duemila naufragi documentati sulle nostre coste, molte di loro di gran importanza storica e culturale. Oggi la cifra ascende a quasi tremila.
La creazione dell’Empresa Carisub S.A. nel 1980 gettò le basi per iniziare l’esplorazione e riscatto di varie imbarcazioni affondate nella piattaforma insulare della maggiore delle Antille, per cui venne richiesta l’organizzazione rigorosa dei fascicoli di ogni caso, lavoro che fu condotto dallo storico César García Pino e proseguita poi da César Alonso Sansón dell’Empresa Semar.
Scienza in primo piano
Più in la del suo rilevante lavoro di investigazione del passato coloniale, il Gabinetto di Archeologia dell’Ufficio dello Storico della Città dell’Avana lavora anche nella conoscenza e protezione del patrimonio sommerso nella rada capitalina, nella costa della stessa provincia e la costa nord di Mayabeque, compito assunto dalla Sezione di Archeologia Litorale Subacquea, costituita nel 2002 con questo fine.
Come ha riferito al Granma, Roger Arrazcaeta Delgado, direttore del gabinetto, la citata dipendenza conta con sette specialisti dedicati all’interessante tematica che ritrova e riporta alla luce i sisti archeologici che giacciono nel fondo del mare e risaltano per la preziosa informazione che offrono attorno al modo di vivere dell’epoca pre-hispanica e della colonia.
Ha indicato che attualmente sviluppano diversi progetti scientifici, dove emerge quello riferito al Recupero del Lungomare Tradizionale di fronte alle sfide del cambio climatico, iniziato nel 2011 dall’Ufficio dello Storico della Città dell’Avana, con la partecipazione di diversi enti nazionali e il finanziamento dell’agenzia svizzera Cosude. Ciò comprende l’identificazione, registrazione e diagnosi della ricchezza subacquea compresa nel tratto tra il Paseo del Prado alla calle Marina, fino alla profondità di 25 metri.
Luis Francés Santana, capo della Sezione di Archeologia Litorale e Subacquea, ha menzionato inoltre le prospezioni, portate a termine, sulla nave San Antonio affondata nella baia avanera nel 1909, lavoro durante il quale si poterno recuperare piastrelle di ceramica che stavano per essere sottratte illegalmente. Una volta desalinizzate, si utilizzano nei restauri di immobili famosi dell’Avana Vecchia.
Insolito saccheggio
Forse, uno dei lavori più notevoli del gabinetto di Archeologia in questa sfera, durante gli ultimi tre anni, è quello vincolato alla documentazione e studio della fregata spagnola “Navegador”, che in balìa di una forte tormenta invernale si incagliò in Boca Chipiona, vicino alla località di Santa Cruz del Norte, attuale provincia di Mayabeque, dove affondò il 4 febbraio del 1814.
Sommersa a una profondità tra i 6 e i 9 metri, la citata imbarcazione, era diretto all’Avana con un carico composto da molteplici pezzi di fine vasellame inglese (piatti, tazze da caffè e tè, caraffe, marmitte, coperchi di recipienti), oltre a bussole, accessori per lampade, bottoni metallici, rubinetti per botti di vino, fermagli di arredamento, pietre per mulini e molti altri oggetti.
Dopo aver ricevuto la segnalazione di un abitante del luogo sull’apparizione di alcune delle cose descritte, gli archeologi del Gabinetto verificarono l’informazione, trovarono resti dell’imbarcazione e con lo studio dell’informazione storica comprovarono che si trattava del “Navegador”.
“lo strano è che da diverso tempo il luogo era spogliato da subacquei , dai quali più di una volta abbiamo subito minacce per affrontare i loro ignobili propositi durante le spedizioni sul posto”, dichiarò l’archeologo Roger Arrazcaeta, responsabile di questo lavoro.
Fortunatamente, con l’appoggio della Polizia Tecnica di Investigazioni, specializza nel Patrimonio, il Consiglio Culturale, il Registro dei Beni Culturali, l’Impresa Semar, la direzione Municipale di Cultura e il Museo Municipale di Santa Cruz del Norte, tali fatti delittivi sono diminuiti significativamente e si poterono riscattare numerosi pezzi che erano in mano di persone irresponsabili.
Senza dubbio, al margine delle misure adottate, per poner fine al saccheggio, alla contaminazione provocata dal versamento di residui delle fabbriche vicine all’Empresa Cuba Ron (non ha compiuto da quasi un anno la promessa di risolvere questa situazione) è ad alto rischio la possibilità di conservare a livelli accettabili i resti strutturali della vetusta imbarcazione e gli oggetti di inestimabile valore che rimangono in fondo al mare, testimoni eccezionali della nostra eredità culturale.
Inoltre ciò rappresenta un pericolo per la salute degli specialisti del Gabinetto, che non cessano nel loro impegno di portare avanti quasta crociata per la salvaguardia del patrimonio subacqueo di Cuba.


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BASSOPIANO: strumento musicale a tastiera, con le gambe corte

martedì 3 settembre 2013

3 settembre, 24 anni dopo

Sono passati 24 anni da quella tragica domenica in cui un uomo ebbe la presunzione di essere, con la sua macchina volante, più forte della Natura. Pagò con la sua vita e con quella di oltre 100 persone ignare e innocenti, l'errore imperdonabile.

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BASARE: bacia il sovrano (veneto)

lunedì 2 settembre 2013

L'amante di Lansky e altre risposte, di Ciro Bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 1°/09/13

L’amante di Lansky ed altre risposte.

Diversi lettori hanno scritto al giornale o hanno abbordato questo scriba per la strada con l’interesse di sapere dove fosse ubicato esattamente il cabaret Sans Soucì, lo scomparso centro notturno a cui ho dedicato le pagine corrispondenti alla domeniche 11 e 18 agosto. Altri, certamente non pochi, hanno chiesto che cercassi di precisare quando questo locale chiuse definitivamente le sue porte; ovvero se la sua ultima funzione fu il 31 dicembre del 1958 o se i suoi spettacoli, come si evince da annunci apparsi sulla stampa, si protrassero durante il gennaio e febbraio del 1959. Non mancano coloro che, in relazione alla pagina intitolata “Baroni della mafia” (5 maggio, 2013), chiedono che racconti cosa ho potuto verificare sull’amante cubana di Meyer Lansky e sono diversi coloro che insistono perché completi l’informazione su Amletto Battisti e Lora, proprietario dell’hotel Sevilla e Amedeo Barletta, proprietario del giornale El Mundo e rappresentante, a Cuba, della General Motors, che presentai in “Altri uomini della mafia” apparso la settimana scorsa, nel quale non fui più esplicito per mancanza di spazio.
Cercherò, nel limite del possibile, di accontentare tutti.

Come me lo hanno raccontato.

L’elenco del telefono dell’Avana, corrispondente al 1958, riporta l’indirizzo del cabaret Sans Soucì. Dice: Strada di Arroyo Arenas, kilometro 15, Si potrebbe anche dire: Avenida 51 tra 220 e 222. Alla sinistra del viale si proviene dall’Avana. Nonostante le trasformazioni, il luogo richiama ancora l’attenzione per la sua facciata di pietra, coronata da tegole spagnole, dove si leggeva il nome del locale. Una volta chiuso il cabaret si è dato luogo a differenti usi. All’angolo della 220 funziona un’agenzia di vendita auto.
Il cabaret ha chiuso in modo definitivo l’ultimo giorno del 1958? E’ almeno quello che mi dice adesso regino Manuel Lòpez Rodrìguez che, con 11 anni d’età, cominciò a lavorare nel Sans Soucì come tuttofare – cameriere, fattorino, inserviente -. Suo padre era il capo elettricista dell’azienda, un posto chiave in una installazione di questo tipo, e la considerazione che si aveva per il genitore aprì al ragazzo le porte del posto.
Correva, allora, l’anno 1956 e Regino Manuel, soprannominato Manolo, compì non pochi compiti colà per potersi conservare il lavoro che, per la sua età, non poteva disimpegnare ufficialmente. Alla caduta della dittatura aveva 13 anni.
Racconta che il 1° gennaio, dopo le tre del mattino, si seppe nel Sans Soucì della fuga di Batista. Dice che al conoscere la notizia, alte cariche del Governo che erano li in attesa dell’anno nuovo, si misero a correre come volgari passeggeri a cui scappava il treno. A quell’ora Manolo si diresse a casa per riposare assieme a suo padre. Tornarono al cabaret verso mezzogiorno, informati di quello che successe prima dell’alba o alle prime ore del mattino. Già di ritorno al locale videro più di 20 macchinette mangiasoldi, distrutte, nell’area del parcheggio.
Chiarisce che il casinò e il locale non erano stati saccheggiati, però siccome chi era intervenuto poteva tornare, suo padre e sua madre che lavorava a sua volta nel Sans Soucì, oltre a sei o sette dipendenti che si erano uniti un po’ per rischio, decisero di rimanere sul posto per difenderlo se fosse stato necessario. Il ragazzo volle aggiungersi al gruppo. Ricorda che suo padre estrasse una pistola calibro 45 e una rivoltella calibro 38 che teneva nascoste, per farne uso in caso di bisogno.
Il giorno 2, i custodi improvvisati, videro un’auto che attraversava la porta del cabaret e avanzava per un vialetto interno fino a fermarsi davanti al bar caffetteria “El Popular”. Serviva bevande e spuntini e doveva il suo nome al aftto che dava adito a un casinò destinato essenzialmente ai taxisti e autisti che potevano guadagnare, ma sopratutto perdere, un po’ di soldi mentre aspettavano i loro passeggeri o “padroni”. Un casinò destinato, ad ogni modo, a gente di poche risorse economiche. Una gran parete di cristallo separava il bar dal casinò.
Cinque o sei uomini armati di fucile scesero dall’automobile entrando nel locale de “El Popular”. Nel vedere la manovra, gli improvvisati guardiani, si diressero a loro volta verso il luogo. Arrivando li, “el Gallego”, uno dei dipendenti sevì nervosamente l’ordinazione di gassose che fecero i nuovi arrivati e preparava i panini che avevano richiesto.
Ci fu un confronto fra i “custodi” e le persone dell’auto che erano intenti a distruggere, a fucilate, la vetrata. Il padre di manolo con la pistola in vista sotto la camicia all’altezza della cintura, li richiamò all’ordine ed ebbe risultato quando uno degli occupanti del veicolo, un falegname che lo conosceva per essere un vicino di casa, disse al suo gruppo che era meglio andarsene e questo fecero, dopo aver mangiato in pace i loro panini.
Santo Trafficante, racconta Manolo; non tornò più al Sans Soucì. Nemmeno Raúl González Jerez, proprietario del club 21 che Trafficante portò al cabaret come una specie di gerente. Nemmeno Tommy, il contabile, un soggetto che Manolo non seppe mai se fosse cubano o nordamericano, tornò. Abbandonato dai suoi dirigenti il Sans Soucì rimase allo sbando. I suoi lavoratori volevano mantenerlo a galla. Crearono una commissione che si intervistò con il capitano Otero, capo militare de “La Lisa”. Erano disposti a lavorare senza stipendio finché il Governo si facesse carico del cabaret. Manolo dice che tutto sembrava filare dritto, ma i musicisti si rifiutarono di lavorare senza stipendio.

Una donna “fatta a mano”.

È molto scarsa l’informazione di cui dispone lo scriba rispetto a Carmen, l’amante cubana di Meyer Lansky. Qualcuno che la conobbe, disse a un giornalista nordamericano che era la donna più bella che avesse visto in vita sua. Aveva, allora, 20 anni, buone maniere e voce dolce. Andatura lieve. La pelle olivastra e i capelli neri e crespi le scendevano sulla schiena fino alla vita. Il suo era un corpo ben proporzionato, con seni rotondi e dita lunghe. Una peluria sottile, appena percettibile, le copriva totalmente le cosce e le braccia.
Lansky divideva con lei un piano alto nel Paseo del Prado, dove viveva anche la madre di Carmen. “Un pasaje de Almendra”, il romanzo di Mayra Montero, si svolge in quell’appartamento. Lansky e Carmen si conobbero ne “El Encanto” il grande magazzino di Galiano e San Rafael. Quella relazione fu qualcosa di insolito per il capoccia mafioso, che non si permetteva certe libertà. Lansky mantenne Carmen all’oscuro e con l’ostracismo più profondo, non solo perché temeva che sua moglie Terry potesse venire a sapere di quell’amore clandestino, ma anche perchè aveva sempre criticato i suoi soci per questi amori segreti, che classificava come una debolezza.
Lansky uscì da Cuba nel gennaio del 1959, dopo l’ingresso all’Avana del Comandante en Jefe Fidel Castro. Tornò nel marzo dello stesso anno per portare via Carmen dall’Isola. Non trovò la ragazza “fatta a mano”, si era volatilizzata, sparita. Mai nessuno seppe più niente di lei.
Giunto alla vecchiaia, Lansky, parlava dei 17 milioni di dollari in contanti che “per un pelo” non potè portar via dall’Avana nel gennaio del ’59 e che non poté recuperare mai più.
Li aveva nascosti nell’appartamento di Carmen nel Paseo del Prado? Quei 17 milioni sono spariti con lei?

Soldi sottobanco.

Santo Trafficante era socio di Amletto Battisti nel contrabbando di narcotici. Lansky simpatizzava col proprietario dell’hotel Sevilla. Utilizzava la Banca di Credito e Investimenti, di Battisti per lavare i soldi non dichiarati dei casinò. Amadeo Barletta, proprietario anche di Tele Mundo - il canale 2 della televisione nazionale - era anche padrone del Banco Atlantico. Banche che ricevevano, clandestinamente, i soldi dei casinò e mantenevano legami occulti con un insieme di compagnie fantasma.
Dice uno storico: “Il tipo di struttura finanziaria che Lansky, Trafficante e altri malavitosi nordamericani avevano bisogno per la loro espansione a Cuba...le banche che erano proprietà o erano controllate da Battisti, Barletta e, in seguito, una creata dallo stesso presidente Batista rivestivano la maggior importanza per la mafia dell’Avana. Si era già cominciato a riscuotere molti soldi dagli alberghi, dai casinò, cabaret e altri affari relazionati al turismo, ma se tutto andava secondo i piani, quello sarebbe stato solo l’inizio”.
Molte delle attività di Barletta erano sotto il controllo di una misteriosa Santo Domingo Motors Company, i cui proprietari erano sconosciuti anche al Banco Nacional de Cuba, afferma Guillermo Jíménez nel suo libro “Los proprietarios de Cuba. 1958” oltre il 50% del Banco Atlantico era controllato da questa compagnia e il direttore generale, il banchiere italiano Leonardo Masoni, venne espressamente da Milano per occuparsene in rappresentanza di 1.150 azionisti italiani sconosciuti. Barletta rappresentava la Santo Domingo Motors Company, ma non la controllava. La controllavano capitali italiani mascherati.
Battisti era - dice Guillermo Jiménez nel suo citato libro - il più potente dei banchieri dei giochi d’azzardo e degli strozzini o prestasoldi. Tramite la sua banca faceva grossi prestiti ai politici. Controllava una lotteria privata. Dal suo arrivo a Cuba nel 1936, mantenne stretti vincoli con l’allora colonnello Fulgencio Batista, e quasi subito dopo il suo arrivo, divenne presidente del Jockey Club della Compagnia Cubano-Uruguaya per lo Sviluppo del Turismo che operava nell’ippodromo oriental park, di Marianao, dove aveva forti interessi nel casinò.
Trafficante diceva che a Cuba i veri mafiosi vestivano le uniformi militari e usavano portafogli da ministro. La mafia utilizzava i politici cubani, ma li disprezzava. Lansky non si stancava di dimostrare che non era in debito con loro; solo con Batista.
Una sera Lansky aveva un appuntamento con Battisti al Sevilla. Giunse all’hotel, scese dalla sua auto e già nel vestibolo si imbatté con Santiago Rey, ministro degli interni della dittatura. Rei stese la mano per salutare Lansky, ma questi lo guardò con sdegno e proseguì. Il ministro rimase con la mano sospesa, mentre Lansky proseguiva il suo cammino verso l’ufficio di Battisti.

La amante de Lansky y otras respuestas

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
1 de Septiembre del 2013 13:53:21 CDT

Varios lectores se dirigieron al periódico o abordaron a este
escribidor en la calle con el interés de conocer dónde estaba situado
exactamente el cabaré Sans Souci, el desaparecido centro nocturno al
que dediqué las páginas correspondientes a los domingos 11 y 18 de
agosto. Otros, no pocos por cierto, solicitaron que tratara de
precisar cuándo ese establecimiento cerró sus puertas de manera
definitiva; esto es, si su última función fue la del 31 de diciembre
de 1958 o si sus espectáculos, como se infiere por anuncios aparecidos
en la prensa, se prolongaron durante enero y febrero de 1959. No
faltan los que con relación a la página titulada Barones de la mafia
(5 de mayo, 2013) piden que cuente lo que haya podido averiguar sobre
la amante cubana de Meyer Lansky, y son varios los que insisten en que
complete la información sobre Amletto Battisti y Lora, propietario del
hotel Sevilla, y Amadeo Barletta, propietario del periódico El Mundo y
representante en Cuba de la General Motor, que ofrecí en Otros hombres
de la mafia, aparecida la pasada semana, en la que no fui más
explícito por falta de espacio.
Trataré hasta donde sea posible de complacerlos a todos.

Como me lo contaron.

El Directorio Telefónico de La Habana correspondiente a 1958 consigna
la dirección del cabaret Sans Souci. Dice: Carretera de Arroyo Arenas,
kilómetro 15. También podría decirse: Avenida 51 entre 220 y 222. A la
izquierda de la vía si se avanza desde La Habana. Pese a las
transformaciones, el lugar llama todavía la atención por su portada de
piedra, coronada por tejas españolas, donde se leía el nombre del
establecimiento. Una vez cerrado el cabaré, se ha dado al lugar
diferentes usos. En la esquina de 220 funciona un expendio de
automóviles.
¿Cerró el cabaré de manera definitiva el último día de 1958? Es al
menos lo que me dice ahora Regino Manuel López Rodríguez que, con 11
años de edad comenzó a trabajar en Sans Souci como botones —servidor,
recadero, ordenanza—. Su padre era el electricista principal de la
empresa, un puesto clave en una instalación de ese tipo, y la
consideración que se tenía a su progenitor abrió al muchacho las
puertas del lugar. Corría entonces el año de 1956 y Regino Manuel, a
quien apodan Manolo, cumplió allí no pocas tareas con tal de conservar
un empleo que, por su edad de entonces, no podía desempeñar de manera
oficial. Al derrumbarse la dictadura tenía 13 años de edad.
Refiere que el 1ro. de enero, pasadas las tres de la mañana, se supo
en Sans Souci de la fuga de Batista. Dice que al conocerse la noticia,
altas figuras del Gobierno que allí esperaron el año, corrieron como
vulgares viajeros a los que se les va el tren. A esa hora Manolo
marchó a descansar a su casa junto con su padre. Regresarían al cabaré
sobre las 12 del día, avisados de lo que había sucedido durante la
madrugada o las primeras horas de la mañana. Ya de vuelta en el
establecimiento vieron más de 20 máquinas tragaperras destrozadas en
el área del parqueo.
Precisa que el casino no había sido saqueado ni el cabaré tampoco,
pero como quienes antes habían irrumpido podrían volver, el padre y la
madre de Manolo, que trabajaba también en Sans Souci, y seis o siete
empleados más que se habían juntado un poco por azar, decidieron
permanecer en el lugar para defenderlo si era preciso. Quiso el
muchacho sumarse al grupo. Recuerda que su padre sacó una pistola
calibre 45 y un revólver 38, que mantenía ocultos, para hacer uso de
ellos en caso necesario.
El día 2 los improvisados custodios vieron cómo un automóvil
atravesaba la portada del cabaré y avanzaba por una calle interior
hasta detenerse frente al bar-cafetería El Popular. Expedía bebidas y
alimentos ligeros y debía su nombre a que daba asiento a un casino de
juego destinado en lo esencial a taxistas y choferes que podían ganar
y, sobre todo, perder algún dinero mientras esperaban por sus
patrones. Un casino destinado, de cualquier manera, a gente de pocos
recursos. Una gran pared de cristal separaba el bar del casino.
Cinco o seis hombres armados con fusiles descendieron del automóvil y
penetraron en el local de El Popular. Al ver la maniobra, los
espontáneos guardianes se dirigieron también hacia el lugar. Al llegar
allí, el Gallego, uno de los dependientes, atendía, muy nervioso, el
pedido de gaseosas que hicieron los recién llegados y se disponía a
prepararles los entrepanes que habían solicitado.
Hubo una confrontación entre los custodios y la gente del automóvil,
empeñados en destrozar a tiros la vidriera. El padre de Manolo, con la
pistola insinuándosele debajo de la camisa a la altura de la cintura,
los llamó al orden y primó el buen tino cuando uno de los tripulantes
del vehículo, un carpintero que conocía al padre de Manolo, de quien
era vecino, dijo a los de su grupo que lo más oportuno era marcharse.
Eso hicieron luego de comer sus emparedados en paz.
Santo Trafficante, precisa Manolo, no volvió más por Sans Souci.
Tampoco Raúl González Jerez, propietario del Club 21 y a quien
Trafficante llevó al cabaré como una especie de gerente. Tampoco
volvió Tommy, el contador, un sujeto del que Manolo nunca supo si era
cubano o norteamericano. Abandonado por sus ejecutivos, Sans Souci
quedó al garete. Quisieron sus empleados mantenerlo a flote. Crearon
una comisión que se entrevistó con el capitán Otero, jefe del cuartel
de La Lisa. Estaban dispuestos a laborar sin recibir remuneración
alguna hasta que el Gobierno se hiciera cargo del cabaré. Dice Manolo
que todo parecía marchar de la mejor manera, pero que los músicos se
negaron a trabajar si no recibían salario.

Una mujer «hecha a mano».

Es muy poca la información de que dispone el escribidor sobre Carmen,
la amante cubana de Meyer Lansky. Alguien que la conoció dijo a un
periodista norteamericano que era la mujer más bella que había visto
en su vida. Tenía unos 20 años entonces, buenos modales y voz suave.
De andar grácil. Su piel era aceitunada y el cabello, negro y crespo,
se le escurría por la espalda hasta la cintura. Era el suyo un cuerpo
bien proporcionado, con pechos rotundos y dedos largos. Un vello muy
fino, apenas perceptible, le cubría totalmente los muslos y los
brazos.
Lansky compartía con ella un piso alto en el Paseo del Prado, donde
vivía además, la madre de Carmen. Un pasaje de Almendra, la novela de
Mayra Montero, se desarrolla en ese apartamento. Lansky y Carmen se
conocieron en El Encanto, la lujosa tienda por departamentos de
Galiano y San Rafael. Aquella relación fue algo insólito en el
cabecilla mafioso, que no se permitía esas libertades. Lansky mantuvo
a Carmen en el ostracismo y la oscuridad más profundos, no solo porque
le aterrorizaba que su esposa Teddy pudiera enterarse de aquel amor
clandestino, sino porque siempre criticó en sus socios esos amoríos
secretos, que calificaba como una debilidad.
Lansky salió de Cuba en enero de 1959, luego de la entrada en La
Habana del Comandante en Jefe Fidel Castro. Volvió en marzo del mismo
año para sacar a Carmen de la Isla. No la encontró. La muchacha «hecha
a mano» se volatilizó, se esfumó. Nadie más volvió a saber de ella.
Ya en su vejez, Lansky hablaba de los 17 millones de dólares, en
efectivo, que «por un pelito» no pudo sacar de La Habana en enero del
59, y que nunca pudo recuperar.
¿Los dejó guardados en el piso de Carmen, en el Paseo del Prado?
¿Desaparecieron con ella aquellos 17 millones?

Dinero bajo el tapete.

Santo Trafficante estaba asociado con Amletto Battisti en el
contrabando de narcóticos. Lansky simpatizaba con el propietario del
hotel Sevilla. Utilizaba el Banco de Créditos e Inversiones, de
Battisti, para blanquear dinero no declarado de los casinos de juego.
Amadeo Barletta, propietario también de Tele Mundo —el canal 2 de la
TV nacional— era dueño asimismo del banco Atlántico. Bancos que
recibían, bajo cuerda, el dinero de los casinos y que mantenían nexos
ocultos con un conjunto de compañías ficticias.
Dice un historiador: «El tipo de estructura financiera que Lansky,
Trafficante y otros hampones norteamericanos necesitaban para llevar a
cabo la expansión de su imperio criminal en Cuba… Los bancos que eran
propiedad o estaban controlados por Battisti, Barletta y más adelante
uno creado por el mismo presidente Batista revestían la mayor
importancia para la mafia de La Habana. Ya se había empezado a
recaudar mucho dinero de los hoteles, casinos, cabarés y otros
negocios relacionados con el turismo, pero si todo salía de acuerdo
con el plan, eso sería solo el comienzo».
Muchas de las empresas de Barletta estaban bajo el control de una
misteriosa Santo Domingo Motors Company, cuyos propietarios eran
desconocidos incluso para el Banco Nacional de Cuba, afirma Guillermo
Jiménez en su libro Los propietarios de Cuba. 1958. Más del 50 por
ciento del banco Atlántico era controlado por esa compañía, y el
director general de la entidad, el banquero italiano Leonardo Masoni,
vino expresamente de Milán a ocuparse en este de la representación de
1 150 acciones de propietarios italianos desconocidos. Barletta
representaba la Santo Domingo Motors Company, pero no la controlaba.
La controlaban capitales italianos enmascarados.
Battisti era —dice Guillermo Jiménez en su libro citado— el más
poderoso de los banqueros de los juegos de azar y de los prestamistas
o garroteros. A través de su banco hacía fuertes préstamos a los
políticos. Controlaba una lotería particular. Desde su llegada a Cuba,
en 1936, mantuvo vínculos estrechos con el entonces coronel Fulgencio
Batista, y casi de inmediato, luego de su arribo, se hizo con la
presidencia del Jockey Club y de la Compañía Cubano Uruguaya para el
Fomento del Turismo, que operaba el hipódromo Oriental Park, de
Marianao, donde tenía fuertes intereses en su casino de juego.
Trafficante decía que en Cuba los verdaderos mafiosos vestían
uniformes militares y usaban carteras de ministros. La mafia utilizaba
a los políticos cubanos, pero los despreciaba. Lansky no se cansaba de
demostrar que no estaba en deuda con ellos; solo con Batista.
Una noche Lansky tenía cita con Battisti en el Sevilla. Llegó al
hotel, descendió de su automóvil y, ya en el vestíbulo, se topó con
Santiago Rey, ministro del Interior de la dictadura. Rey alargó la
mano para saludar a Lansky, pero este lo miró con desdén y no se
detuvo. El Ministro quedó con la mano en el aire mientras Lansky
seguía su camino hacia el despacho de Battisti.

Ciro Bianchi Ross
ciro@jrebelde.cip.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
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domenica 1 settembre 2013

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