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lunedì 15 febbraio 2016

Vite parallele, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 14/2/16

Nella pagina che ho dedicato, la settimana scorsa (7 febbraio) ai bar dell’Avana, mi é mancato il tempo, vale a dire spazio, per menzionare Fabio Delgado Fuentes, uno dei grandi della cantina cubana, creatore di oltre 30 cocktails, alcuni di essi tanto famosi e vigenti come il Cuba Bella che si prepara con granatina, succo di limone, rum bianco, menta e rum invecchiato.
Fabio (o Favio che lo scriba ha visto scritto nei due modi), cominciò nel 1934 nel giro della gastronomia e tre anni più tardi riuscì ad essere ammesso al già scomparso Club de Cantineros – attuale Asociación de Cantineros de Cuba -. Nel 1939 un corso, auspiciato da detta entità, nello svelargli molti dei segreti dei bar, lo preparò nel modo adeguato. Non per questo trovò un lavoro fisso. Era l’epoca in cui molti gastronomici lavoravano, generalmente nella cosiddetta  alta stagione, solo per la mancia o come sostituti, nei bar, ristoranti e cabaret. Fabio Lavorò in alcuni dei bar più esclusivi come quello del Country Club, Vedado Tenis, Havana, Miramar e Biltmore Yacht Club, i cosiddetti Cinque Grandi dell’alta società avanera, fino a che nel 1945 conseguì un posto fisso allo Sloppy Joe’s. Rimase lì fino al 1956 poi passò, sempre come barman, al ristorante Normandie, casa di cucina francese con specialità regionali, ubicato al km. 19 della strada per Pinar del Río, a sei kilometri dell’Havana Yacht Club lungo l’Autopista del Mediodía e a quattro dal cabaret Sans Soucí in Arroyo Arenas.
Nel Normandie gli toccò servire non poche celebrità, come Errol Flynn, Tyrone Power, César Romero e Joe Luis, fra gli altri, diceva e con un sorriso furbesco aggiungeva che allo Sloppy non vide mai Ernest Hemingway.
Tempo dopo, Fabio Delgado comprò il bar Actualidades in Monserrate 264, un esercizio che attualmente i cantinieri vorrebbero come sede per la loro associazione. Vinse la Rivoluzione e il bar Actualidades divenne di proprietà statale,  Fabio Delgado amministrò alberghi, fu consigliere di centri ricreativi e sopratutto si disimpegnò come professore della Scuola Nazionale Alberghiera installata, dapprima, nel cabaret Tropicana e poi nell’hotel Sevilla, quando il ristorante di Alta Cucina faceva parte di questa installazione turistica. Fabio  che morì a oltre 80 anni d’età, privilegiò sempre il suo passaggio dallo Sloppy Joe’s. Nella carta del famoso bar avanero continuano ad essere segnalati alcuni dei suoi cocktails come il Martini Special, Cubanacán e Sol y Sombra.
Che coppia!
Nel Normandie, Fabio Delgado coincise con Gilberto Smith. Al cosiddetto Mago delle Salse non andava per niente male al Carmelo di Calzada e D, nel Vedado, dov’era giunto proveniente da Los Tres Ases, il ristorante di Prado 356, dove adesso ha sede il Centro Andaluso. Ma ricevette l’offerta irresistibile che gli fece il signor François Toussé, proprietario del Normandie: se andava a lavorare con lui sarebbe stato una specie di chéf-padrone, con una percentuale degli utili dati dalla cucina. Inoltre la casa metteva a sua disposizione un’automobile con autista.
A Smith spiaceva abbandonare il Carmelo, il miglior grill-room dell’Avana nella decade dei ’50 dove, su griglie al carbone, si preparavano quotidianamente 20 linee di carne arrosto, senza contare i piccioni, le pernici, i fagiani, i cinghiali, le lepri, i polli, come specialità. Tutto ciò che c’era nel mondo della cucina si trovava a El Carmelo, una casa con 150 dipendenti, dove si vendevano 25 prosciutti al giorno.
A El Carmelo guadagnava bene e i suoi padroni lo consideravano molto. E fu sopratutto lì, dove si era convertito nel cuoco che già era. In ciò lo aveva aiutato molto Juan Cañella, un catalano brontolone che era un artista nella composizione dei piatti, un genio nelle gelatine e un maestro pasticcere senza pari. La posizione di Cañella era un po’ ambigua in quella casa dove batteva il polso della città. Non era lo chéf, non cucinava, né confezionava le torte, né le salse, ma si immischiava ovunque, consigliava, orientava, ordinava! Álvarez e Méndez, i padroni de El Carmelo, lo tenevano con mansioni di specialista e siccome non si parlavano fra di loro, lo usavano come mediatore.
Anche se c’era di tutto, il Normandie aveva una clientela selezionata. Era il posto alla moda. Tutte le grandi personalità che passarono da Cuba nella seconda metà della decade dei ’50, mangiarono al Normandie. Si concepì come ristorante di cucina francese, ma dato che il cliente paga e perciò comanda,si cucinava anche secondo il gusto dei commensali. Smith conoscendo molti di loro, lo seguivano dai suoi tempi nel Tres Ases, cercava di soddisfarli tutti.
Un giorno arrivò il dottor Alberto Inclán, figlio dell’eminente ortopedico dallo stesso nome e ortopedico anche lui, nipote del dottor Clemente Inclán, pediatra, rettore dell’Universitá avanera, il cosiddetto Magnifico Rettore; i tre con studio privato nella calle 21 al numero 454 nel Vedado. Inclan figlio, era l’eterno rivale del dottor Julio Martínez Páez, entrambi professori ausiliari di Ortopedia all’Università. Quando il vecchio Inclan morisse o andasse in pensione, solo uno poteva occupare il suo posto. Quel giorno, 15 persone accompagnavano Inclan... Gli si consegnò la carta e i 16 si decisero, casi della vita, per la suprema di fagiano, delle quali ce n’erano solo 15 nel frigorifero.
“Questo si risolve facilmente”, si disse Smith, cercò quattro o cinque faraone molto tenere e scelse la migliore.
Nel metterle a tavola, lo chéf ebbe cura che la suprema di faraona toccasse al dottor Inclán. A quel punto, i cocktails di Fabio Delgado rallegravano il gruppo. Mangiarono, bevettero, conversarono. Smith li guardava da lontano e avvertiva la faccia soddisfatta di tutti. Celebravano qualche avvenimento e i cocktails, la buona tavola e i buoni vini contribuivano a renderli più contenti.
Quando si disponevano ad andarsene, Inclán si appartò col cuoco. Gli disse:
-Non credere che non me ne sia accorto...mi hai dato una suprema di faraona.
- È che c’erano solo 15 supreme di fagiano. Ho messo a lei quella di faraona perché era l’anfitrione. Non volevo farla restar male davanti ai suoi invitati.
Il dottor Inclàn sorrise. Stese la sua mano destra e strinse quella di Smith, con forza, per lasciare dentro di essa un biglietto da cento dollari, accuratamente piegato.
Pettegolezzo di cucina
Lo scriba non ha la certezza che quello che racconterà adesso sia vero. Non potrà comprovarlo mai. Per questo omette il nome della dama, un’attrice francese, molto giovane e già famosa, abbagliante per la sua bellezza provocante da donna indiavolata, sguardo furbo e labbra che socchiudeva in un modo da far si che si infiammasse il lato oscuro del cuore a chi la guardava. Una donna come fosse stata creata per Dio che arrivava a Cuba, per la seconda volta, avvolta in un’ondata nuova di popolaritá.
Si diceva che quell’attrice era venuta a Cuba, nelle due occasioni, invitata da uno dei proprietari del Gran Stadium del Cerro. Toussé volle conquistarla e siccome non giungeva a lei, le offrì una considerevole somma di denaro. Se la ragazza accettò o no, non si sa; ma per entrare nelle sue grazie, a Toussé non venne idea migliore che invitarla al Normandie e quella sera travestirsi da cuoco, servirla personalmente e farle credere che i piatti che degustava uscivano dalle sue mani. Per la cronaca, la giovane decise sempre per l’aragosta cardenal.
Che lo facesse, passi. Se voleva uscire nel salone col cappello e il grembiule a dire quello che voleva non sembrava un male. Ne aveva diritto come proprietario del ristorante. Ma Toussé esagerò, si credette davvero cuoco e si mise a dare ordini in cucina. Lo chéf Gilberto non poté rimanere zitto. Gli suggerì, con rispetto, che uscisse da lì o rimanesse zitto. Toussé lo ignorò. Continuò dando ordini. Smith perse la pazienza.
- Chi è questo signore? Domandò ai suoi compagni. Il capo della cucina sono io. Continuate nel vostro lavoro e non fategli caso.
La possibiltà di avere tra le lenzuola una delle donne più desiderate del mondo gli aveva fatto perdere la testa. Toussé lo affrontò.
- Qua il padrone sono io – gridò.
Smith fece quello che doveva fare. Si tolse cappello e grembiule.
- Cucini lei – gli disse.
Con lui si spogliarono di cappello e grembiule tutti i componenti della squadra che si occupava, quella sera, della cucina.
A questo punto a Toussé caddero le braccia, gli si corrugavano le orecchie. Smith non diceva per scherzo; quegli uomini se ne andavano davvero e lo lasciavano nei pasticci. Divenne piccolo, piccolo. Implorava che non potevano fargli quello. Che lui non era una persona cattiva. Che aveva capito di aver esagerato. Che si mettessero al suo posto. Che lei mi scusi signor Smith.
Non ci fu maniera. Non ci fu accordo. Quella fu l’ultima sera di Gilberto Smith nel Normandie. Perdeva denaro e posizione. Restava senza lavoro e con una famiglia numerosa sulle spalle. Poteva sempre tornare a El Carmelo, ma risultava duro farlo in quel momento. Qualcuno gli parlò de La Roca, un ristorante appena aperto all’angolo di 21 e M, nel Vedado, nello stesso posto che aveva occupato il ristorante Colonial e che era carente di personale. Fu a La Roca come semplice cuoco. Lì creò un piatto che ebbe fra i migliori fino alla fine della sua vita: la tortilla di frutta al rum. E un’altro, la tortilla con intervento dello chéf.
Smith non restò molto tempo a La Roca. Un giorno entrò a El Carmelo e come se non si volesse, disse al gestore che quella era la casa che preferiva. Ebbene, El Carmelo per lei è aperto, gli rispose il gestore.
Quella stessa sera se ne andò da La Roca. Tornò a El Carmelo col suo ritmo di lavoro di sempre, ma questa volta con una responsabilità speciale: servire il gruppo di Meyer Lansky, il finanziere della mafia che era di nuovo al’Avana al fine di seguire, tra altre cose, la costruzione dell’hotel Habana Riviera.

Nel frattempo, nel bar Actualidades, Fabio Delgado, continuava con la sua carriera di successo.

Vidas paralelas

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
13 de Febrero del 2016 20:56:26 CDT

En la página que la semana pasada (7 de febrero) dediqué a bares de La Habana, me faltó tiempo, es decir, espacio para aludir a Fabio Delgado Fuentes, uno de los grandes de la cantina cubana, creador de más de 30 cocteles, algunos de ellos tan famosos y vigentes como el Cuba Bella, que se elabora con granadina, zumo de limón, ron blanco, menta y ron añejo.
Fabio (o Favio, que de las dos maneras lo ha visto escrito este escribidor) se inició en 1934 en el giro de la gastronomía, y tres años más tarde logró ser admitido en el ya desaparecido Club de Cantineros —actual Asociación de Cantineros de Cuba—. En 1939, un curso auspiciado por dicha entidad, al develarle muchos de los secretos del bar, lo preparó de manera adecuada. No por eso consiguió trabajo fijo. Era la época en la que muchos gastronómicos, en bares, restaurantes y cabarés, trabajaban solo por la propina, generalmente en la llamada temporada alta. Solo por la propina o como suplente, Fabio trabajó en algunos de los bares más exclusivos, como los del Country Club, Vedado Tenis, y Havana, Miramar y Biltmore Yacht Club, los llamados Cinco Grandes de la alta sociedad habanera, hasta que en 1945 consiguió una plaza fija en el Sloppy Joe’s y allí estuvo hasta que en 1956 pasó, siempre como barman, al restaurante Normandie, casa de cocina francesa, con especialidades regionales, ubicado en el kilómetro 19 de la carretera a Pinar del Río; a seis kilómetros del Havana Yacht Club por la Autopista del Mediodía y a cuatro del cabaré Sans Souci por Arroyo Arenas.
En el Normandie le tocó atender a no pocos famosos, como Errol Flynn, Tyrone Power, César Romero y Joe Louis, entre otros, decía, y con una sonrisa pícara añadía que en el Sloppy jamás vio a Ernest Hemingway.
Tiempo después, Fabio Delgado adquiría el bar Actualidades, en Monserrate 264, un establecimiento que los cantineros quieren ahora para sede de su asociación. Triunfó la Revolución, el bar Actualidades pasó a ser propiedad estatal, y Fabio Delgado administró hoteles, asesoró centros recreativos y, sobre todo, se desempeñó como profesor de la Escuela Nacional de Hotelería, instalada primero en el cabaré Tropicana y luego en el hotel Sevilla cuando el restaurante de Alta Cocina fue parte de esa instalación turística.
Fabio, que falleció con más de 80 años de edad, privilegió siempre su paso por Sloppy Joe’s. En la carta de ese famoso bar habanero siguen consignándose algunos de sus cocteles como Martini Especial, Cubanacán y Sol y Sombra.

¡Qué pareja!

En el Normandie, Fabio Delgado coincidió con Gilberto Smith. Al llamado Mago de las Salsas no le iba nada mal en El Carmelo, de Calzada y D, en el Vedado, adonde había llegado procedente de Los Tres Ases, el restaurante de Prado 356, donde ahora radica el Centro Andaluz. Pero recibió la oferta irresistible que le hacía el señor François Toussé, propietario del Normandie: si pasaba a trabajar con él, sería una especie de chef dueño, con un por ciento de los ingresos por concepto de la cocina. Además, la casa pondría a su disposición un automóvil con chofer.
Smith sentía abandonar El Carmelo, el mejor grill-room de La Habana de la década del 50 y donde en parrillas de carbón, se preparaban a diario 20 líneas de carne asada, sin contar las palomas, las perdices, los faisanes, los jabalíes, las liebres, los pollos de especialidades. Todo lo que había en el mundo de la cocina se encontraba en El Carmelo, una casa con 150 empleados, donde se vendían 25 jamones diarios.
Ganaba bien en El Carmelo y los dueños lo distinguían mucho. Y fue allí, sobre todo, donde se había convertido en el cocinero que era ya. En eso lo había ayudado mucho Juan Cañella, un catalán cascarrabias que era un artífice en el montaje de los platos, un genio en las gelatinas y un maestro dulcero sin igual. La posición de Cañella era un tanto ambigua en aquella casa donde latía el pulso de la ciudad. No era el chef ni cocinaba ni confeccionaba los pasteles ni las salsas, pero se metía en todo, aconsejaba, orientaba, ¡ordenaba! Álvarez y Méndez, los dueños de El Carmelo, lo tenían en funciones de especialista y, como no se hablaban entre ellos, lo utilizaban de mediador.
Aunque había de todo, el Normandie tenía una clientela selecta. Era el lugar de moda. Todas las grandes personalidades que pasaron por Cuba durante la segunda mitad de la década de los 50, comieron en el Normandie. Se concibió como un restaurante de cocina francesa, pero debido a que el cliente paga y, por tanto, manda, se cocinaba también al gusto de los comensales. Smith conocía a muchos de ellos, pues venían siguiéndolo desde sus tiempos en Los Tres Ases, trataba de satisfacerlos a todos.
Un día llegó el doctor Alberto Inclán, hijo del eminente ortopédico de igual nombre y ortopédico él mismo, sobrino del doctor Clemente Inclán, pediatra, rector de la Universidad habanera, el llamado Rector Magnífico; los tres con consulta privada en la calle 21 número 454, en el Vedado. Inclán hijo era el eterno rival del doctor Julio Martínez Páez, ambos profesores auxiliares de Ortopedia en la Universidad. Cuando el viejo Inclán muriera o se jubilara, solo uno podía ocupar su puesto. Quince personas acompañaban a Inclán aquel día... Se les entregó la carta y todos, los 16 se decidieron, cosas de la vida, por la suprema de faisán, de las que solo había 15 en la nevera.
«Esto se soluciona fácil», se dijo Smith, y buscó cuatro o cinco guineos muy tiernos y seleccionó el mejor.
Al ponerse el servicio en la mesa, el chef cuidó que la suprema de guineo tocara al doctor Inclán. A esa altura, los cocteles de Fabio Delgado alegraban al grupo. Comieron, bebieron, conversaron. Smith los miraba de lejos y advertía la cara de satisfacción de todos. Celebraban algún acontecimiento, y los cocteles, la buena mesa y los buenos vinos contribuían a hacerlos más felices.
Cuando se disponían ya a retirarse, Inclán hizo un aparte con el cocinero. Le dijo:
—No creas que no me percaté… me pusiste suprema de guineo.
—Es que solo había en la cocina 15 supremas de faisán. Puse a usted la de guineo porque era el anfitrión. No quería hacerlo quedar mal delante de sus invitados.
El doctor Inclán sonrió. Extendió su mano derecha y estrechó la de Smith, con fuerza para dejar en ella un billete de cien dólares cuidadosamente doblado.

Chisme de cocina

El escribidor no tiene la certeza de que lo que contará ahora sea cierto. No podrá corroborarlo nunca. Por eso omite el nombre de la dama, una actriz francesa muy joven entonces, famosa ya, deslumbrante por su belleza provocativa de mujer endemoniada, mirada pícara y labios que entreabría de una manera que hacía que a quienes la veían se les inflamara el lado oscuro del corazón. Una mujer como creada por Dios que llegaba a Cuba, por segunda vez, envuelta en otra nueva ola de popularidad.
Se decía que aquella actriz había venido a la Isla, en las dos ocasiones, invitada por uno de los propietarios del Gran Stadium del Cerro. Toussé quiso conquistarla y como no le llegaba, le ofreció una considerable suma de dinero. Si la muchacha aceptó o no, se desconoce; pero para congraciarse con ella, a Toussé no se le ocurrió idea mejor que invitarla al Normandie y disfrazarse esa noche de cocinero, atenderla personalmente y hacerle creer que los platos que degustaba salían de sus manos. Por cierto, la joven se decidió siempre por la langosta cardenal.
Que lo hiciera, pase. Si quería salir al salón con el gorro y el delantal y decir lo que le pareciera, no estaba mal. Tenía derecho como propietario del restaurante. Pero Toussé se fue de rosca, se creyó cocinero de verdad y se metió en la cocina a dar órdenes.
El chef Gilberto Smith no pudo permanecer en silencio. Le aconsejó con respeto que saliera de allí o se mantuviera callado. Toussé lo ignoró. Siguió dando órdenes. A Smith se le colmó la paciencia.
—¿Quién es este señor? —preguntó a sus compañeros. Yo soy el jefe de cocina. Sigan en lo suyo como hasta ahora y no le hagan caso.
La posibilidad de tener entre las sábanas a una de las mujeres más codiciadas del mundo, le había hecho perder la cabeza. Toussé se le encaró.
—Aquí el dueño soy yo —gritó.
Smith hizo lo que tenía que hacer. Se quitó el gorro y el delantal.
—Cocine usted —le dijo.
Con él se despojaron de sus gorros y delantales todos los componentes de la brigada que esa noche se ocupaba de la cocina.
En ese punto, a Toussé se le cayeron las medias, se le arrugaron los atabales. Smith no hablaba en broma; aquellos hombres se marchaban de verdad y se la dejaban en la mano. Se puso chiquitico, chiquitico. Imploraba. Que no le podían hacer aquello. Que él no era una mala persona. Que comprendía que se había extralimitado. Que se pusieran en su lugar. Que usted disculpe, señor Smith.
Ni modo. No hubo entendimiento. Aquella fue la última noche de Gilberto Smith en el restaurante Normandie. Perdía dinero y posición. Quedaba sin empleo y con una familia numerosa a su abrigo. Siempre podía volver a El Carmelo, pero resultaba duro hacerlo en ese momento. Alguien le habló de La Roca, un restaurante que acaba de abrir en la esquina de 21 y M, en el Vedado, en el mismo sitio que había ocupado el restaurante Colonial, y que estaba carente de personal. Se fue a La Roca como cocinero de a pie. Crearía allí un plato que hasta el final de su vida tuvo entre los mejores: la tortilla de frutas al ron. Y otro, la tortilla interventora del chef.
No estaría Smith mucho tiempo en La Roca. Un día entró en El Carmelo y, como quien no quiere las cosas, dijo al gerente que aquella era la casa que él prefería. Pues El Carmelo está abierto para usted, respondió el gerente.
Aquella misma noche se fue de La Roca. Volvió a El Carmelo con su ritmo de trabajo de siempre, pero esta vez con una responsabilidad especial: atender al grupo de Meyer Lansky, el financiero de la mafia, que estaba de nuevo en La Habana a fin de seguir, entre otros asuntos, la construcción del hotel Havana Riviera.
Mientras tanto, en el bar Actualidades, Fabio Delgado continuaba su exitosa carrera.

Dizionario marino per lupi di terra

AGUGLIOTTO: possiede otto pinnacoli

sabato 13 febbraio 2016

Dizionario marino per lupi di terra

AGITATO: palesemente nervoso

Firmato il convegno per i voli commerciali (?)

Devo essermi perso qualche cosa…Ieri sera il Noticiero Nacional de Televisión ha diffuso un comunicato secondo il quale Cuba e Stati Uniti hanno firmato un accordo per l’inizio dei “voli commerciali” chiarendo (si fa per dire) che sarà il potenziamento degli attuali voli charter che trasportano gli statunitensi compresi nelle 12 “categorie” ammesse a visitare Cuba da parte del Ministero del Tesoro degli USA, senza altre formalità che dichiarare di appartenere a una di esse con realtivo programma, di massima, del viaggio e soggiorno a Cuba. Aggiungendo per chiarezza che i “normali” viaggi turistici sono ancora vietati ai cittadini statunitensi.

Forse sono un po’ tardo e duro di comprendonio, ma...cchevordì? Si tratta di un potenziamento dei charter, quindi...altri charter o voli commerciali veri e propri? Se il “cittadino comune” nordamericano non ne può usufruire, chi lo può fare? Cittadini di altri Paesi, anche non residenti che vogliono spostarsi nelle due direzioni? Le aerolinee statunitensi apriranno agenzie a Cuba per la biglietteria? Sarebbe bello saperlo chiaramente.

venerdì 12 febbraio 2016

Dizionario marino per lupi di terra

AGGUANTARE: prendere al volo, afferrare

giovedì 11 febbraio 2016

Parte oggi la XXV Fiera del Libro

Come da tradizione, oggi si è aperta la XXV Fiera Internazionale del Libro dell'Avana nella suggestiva cornice del Parco Militare Morro Cabaña.
Il Paese invitato d'Onore è la Repubblica Orientale dell'Uruguay. 
L'esposizione all'Avana conta di diverse sub sedi nei vari municipi della capitale di cui il più significativo, sempre come da tradizione, è nel Pavellon Habana della Rampa.
Dopo la chiusura, il prossimo giorno 21 la mostra verrà, come sempre, spostata nelle diverse province, a turno, fino alla prossima estate.

mercoledì 10 febbraio 2016

Nuovo corso (speriamo non sia un vialetto) della stampa cubana

Per la prima volta (che io sappia) una notizia del genere è stata riportata dalla televisione e stampa cubana. In passato queste informazioni venivano trattate col massimo riserbo...
Magari non si è ancora al pluralismo e massima libertà d'informazione, ma c'è un inizio per tutto e dopo oltre 50 anni di censura o autocensura, qualcosa si muove.

Abandonaron Yuliesky y Lourdes Gurriel la selección cubana de béisbol

8 de febrero de 2016 10:02:07

En horas de la madrugada de hoy se produjo el abandono del hotel donde se encontraba el equipo cubano de béisbol que asistió a la edición 58 de la Serie del Caribe de Béisbol, en la República Dominicana, de los peloteros Yuliesky y Lourdes Gurriel Castillo, en franca actitud de entrega a los mercaderes del béisbol rentado y profesional.
Este hecho fue inmediatamente rechazado por los integrantes de la selección cubana, quienes emitieron una declaración.


Dizionario di mare per lupi di terra

AGGHIACCIO: normalmente un cocktail

martedì 9 febbraio 2016

Dizionario di mare per lupi di terra

AFFORCARSI: appendersi per il collo

lunedì 8 febbraio 2016

Bar Avaneri, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 7/2/16 

In questi giorni è toccato allo scriba di condividere con un gruppo di ambasciatori del rum Havana Club. Si chiamano così i rapresentanti della prestigiosa marca nei Paesi dove risiedono; gente giovane, affabile, comunicativa e naturalmente molto ricettiva alla storia e alle novità dell’industria e del prodotto che rappresentano. Questo scriba doveva guidarli in un percorso che è cominciato il mezzogiorno al Floridita ed è terminato, nel tardo pomeriggio, al bar Vista al Golfo dell’Hotel Nacional de Cuba, dopo essere passati dallo Sloppy Joe’s, Bodeguita del Medio e Dos Hermanos.
Ognuno di questi esercizi ha ricevuto i visitatori con un cocktail. Vista al Golfo con il cocktail Nacional e Sloppy con Cuba Libre, mentre Bodeguita del Medio e Floridita con il mojito e il daiquirí che sono solo da immaginare. Dos Hermanos offrí l’Havana Special.
Curiosamente nella cena con cui si è chiuso l’incontro e che ebbe luogo nel Museo del Ron, l’Havana Special fu proprio il cocktail di benvenuto.

Un treno sulle onde

Per chi scrive queste note, fu una sorpresa constatare la vigenza di questa bevanda che alcuni chiamano il Manhattan cubano e che il cronista pensava dimenticato, anche se è reiterato nei menù di molti bar non statali. Un miscuglio la cui invenzione è attribuita a Constantino Ribalaigua, barman catalano residente nella capitale cubana che ispirò una linea di trasporto di passeggeri e merci che faceva il percorso New York – Key West – l’Avana – New York.
Da questa città, il treno impiegava due giorni a raggiungere Key West dove, un servizio di ferry boats, con una traversata di dieci ore, trasportava i vagoni fino all’Avana. Questa rotta si conobbe col nome di The Havana Special e permise che Cuba ne approfittasse per riaffermarsi come importante fornitore del mercato nordamericano.
Traversare il mare seduti comodamente in un vagone ferroviario che prima era passato sulla cima angusta di una montagna di corallo, sembra un racconto di fate. Siccome le fate non esistono, solo un uomo come il multimilionario Henry Flagler fu capace di un’impresa come questa che estese la strada ferrata fino a Miami e da lì, isoletta per isoletta, la portò a Key West per collegare così Cuba, il resto dei Caraibi e il Canale di Panama.
La strada ferrata si costruì con acciaio e cemento tedeschi e legname cubano.
Richiese di sette anni di lavoro alacre. Per periodi lunghi vi lavorarono simultaneamente fino a 4.000 uomini.
Tre cicloni - uno lasciò 200 lavoratori morti – intorbidirono la costruzione.
Non sarebbero stati gli eventi meteorologici gli unici inconvenienti. Il primo degli ingegneri che assunse il progetto, impazzì sugli scogli e quello che proseguì nel compito e la portò a termine, non poté mai più tornare al suo lavoro. In ogni modo, il 22 gennaio del 1912, con l’arrivo a Key West del primo treno proveniente da Miami, Flagler faceva realtà del suo sogno e quello stesso giorno si imbarcava verso l’Avana al fine di promuovere la sua rotta sulle isolette. Ventitré anni dopo, il 2 settembre 1935, un uragano di categoria cinque distrusse parzialmente l’infrastruttura ferroviaria. I proprietari di The Havana Special vendettero quello che restava allo stato della Florida.
Parte di queste rovine sono ancora visibili. Su tratti di esse si costruì la rete di strade che dal 1938, unisce fra loro le isolette della Florida e le allaccia alla penisola. Da allora i ferry non trasportarono più vagoni ferroviari. Proseguirono con la linea di passaggi e carichi generici, dando ai viaggiatori di entrambi i lati l’opportunità di visitare la sponda opposta con la propria automobile.
Il ferry di Key West si interruppe dopo il 1959. Oggi, per conseguenza dell’embargo imposto a Cuba dal Governo di Washington, l’Havana Special è solo un cocktail creato da Constantino Ribalaigua, mentre nel Key, un busto di Flagler ricorda la storia della sua famosa ferrovia.

Anche nei romanzi

Tutto questo lo spiegai, nel bar Dos Hermanos, agli ambasciatori dell’Havana Club. Questo esercizio si trova di fronte al molo di The Havana Special e aprì le sue porte nel 1892, cosa che lo rende uno dei bar più antichi della capitale cubana. Si caratterizzò per il suo lungo banco di legno duro, incompleto da quando gli hanno segato un pezzo al fine di installarlo in uno dei bar dell’hotel Moka, a Las Terrazas.
Anche così continua ad essere lungo. Il poeta spagnolo Federico García Lorca, frequentò il Dos Hermanos durante il suo soggiorno cubano del 1930 e lì andarono anche, fra gli altri, Alejo Carpentier ed Enrique Serpa, autore di romanzi come Contrabando e La trampa così come un racconto antologico, Aletas de tiburón. E naturalmente, l’inevitabile Hemingway che nella radicata opinione di alcuni, deambulò per tutti i bar e cantine avanere, anche se scelse come preferito il Floridita. In Dos Hermanos “con passi incerti che lo portavano a una piccola, ma soddisfacente libertà”, entrò un pomeriggio Andrés il protagonista di Fiebre de caballos, (1988) il romanzo iniziale di Leonardo Padura. All’inizio bevette lentamente la sua bevanda amara e si dedicò a studiare la gente fino a che la quarta o quinta birra lo lasciò senza movimenti e cominciò a vedere nebulosi e deformi quelli che lo circondavano, come se stesse guardando un film girato con un grottesco grandangolo.
Il Floridita fu, fino al 1959, il bar più famoso della città, ma lo Sloppy Joe’s fu sempre quello dalle maggiori vendite. Pensai che lo Sloppy Joe’s di Key West fosse precedente a questo dell’angolo di Zulueta e Ánimas, all’Avana. Errore. Lo Sloppy avanero anticipò di 16 anni quello dell’altra parte che si inaugurò nel 1934 e tre anni dopo si installava nella calle Duval, ubicazione che mantiene ancora mentre un altro bar, chiamato Capitan Tony, occupava lo spazio che lo Sloppy originale lasciava libero. Capitan Tony non ha l’animazione dello Sloppy ne il suo incanto, ma lì si da una situazione insolita: molte delle donne che lo visitano si tolgono il reggiseno e lo appendono ai fili che si intersecano nel salone.
Se Padura fissò il bar Dos Hermanos nella letteratura e Hemingway il Floridita in Isole del Golfo, l’inglese Graham Greene, amante del rum invecchiato e inventore di diabolici cocktails, immortalò lo Sloppy – e anche l’hotel Sevilla – nel suo romanzo Il nostro uomo all’Avana, portato anche al cine. Una guida del 1954, pubblicata negli Stati Uniti, apporta un dettaglio importante che facilitava ai turisti nordamericani la loro visita all’Isola: Sloppy Joe’s era frequentato da visitatori statunitensi, ma non dai nordamericani residenti. La colonia nordamericana all’Avana preferiva il bar Mis Amigos, in settima e 42 a Miramar. Il Floridita ebbe fluttuazioni con relazione ai suoi parrocchiani. La maggioranza di loro era di origine nordamericana, fino all’inizio della II Guerra Mondiale. Durante il conflitto si riempì di cubani. I nordamericani non potevano venire a causa della guerra e i cubani non potevano uscire. Terminata la guerra, nazionali e visitatori godettero assieme il suo daiquirí che figura nella lista dei dieci grandi cocktails del mondo.
Nel 1937 il corrispondente all’Avana dell’agenzia americana UP, dedicò una cronaca a Constantino Ribalaigua. Riferì che un gruppo di amici conversava sul baseball in uno dei bar dell’Hotel Nacional quando uno di loro domandò chi si poteva considerare il miglior barman cubano. Constantino Ribalaigua, rispose il barman che li serviva, anche se la domanda non era diretta personalmente a lui. Immediatamente, riferisce il giornalista, uno del gruppo telefonò allo Sloppy, a Prado 86 e anche ai bar degli alberghi Plaza e Sevilla, molto famosi all’epoca. Ottenne la stessa risposta, Il reporter visitò Constantino al Floridita e rimase meravigliato. Il barman confessò che i suoi cocktails migliori erano il daiquirí, presidente e Pepín Rivero, ispirato al direttore e proprietario del Diario della Marina. Lo scriba che ha nel suo archivio le formule di oltre 300 cocktails raccolte in bar e cantine di tutta l’Isola, non ha potuto vedere la ricetta di quest’ultimo cocktail. Non appare nel ricettario del Floridita che Constantino pubblicò nel 1939, quando il signor Rivero era ancora vivo. per certo che in quella lista di cocktails si indica la formula di un daiquirí elaborato espressamente con Havana Club.

Un’incognita

Se è possibile precisare l’origine di molti cocktails e menzionare i loro creatori per nome, il Cuba Libre resta nel mistero. Ancora alla fine del XIX° secolo a Cuba non si conosceva la parola cocktail. La ginevra superava il rum nel gusto dei bevitori e si parlava di composti spumosi e sbattuti. L’intervento militare nordamericano mise una nota di modernità nei bar cubani, rum, bibita di cola e ghiaccio fecero un miscuglio da campionato. Terminò la sovranità spagnola, l’Isola rimase sotto la protezione degli Stati Uniti e nacque una repubblica incompleta. Ma la gente, con buona dose d’ingenuità, alzava il bicchiere e diceva: Cuba libera. Nel 1902 nasceva il bar La Florida che col tempo diventò il Floridita, esistevano già allora l’American Club che fallì e riaprì di nuovo e la cantina che dava servizio alle truppe nordamericane del campo di Columbia. Esisteva, come si è detto, il Dos Hermanos. Si parla anche di un bar Americano che lo scriba non ha potuto identificare, se pure è esistito. In qualsiasi di loro può essere nato il Cuba libre.
La Bodeguita del Medio ha entusiasmato i visitatori. Il suo fondatore, Ángel Martínez, ripeteva che a 12 anni di età suo padre lo codannó all’ergastolo dietro un banco. Nel 1942 comprò l’esercizio che allora si chiamava La Complaciente e che non era altro che una bottega di quartiere. Lì, sua moglie Armenia cominciò a cucinare per pochi clienti fra i quali Felito Ayón, un animale della notte avanera che si vincola, come stampatore a pietre miliari imprescindibili della poesia cubana, come la Elegía a Jesús Menéndez, di Nicolás Guillén con disegni di Carlos Enriquez. Felito che aveva la sua azienda nello stesso isolato di quella che si chiamava La Casa Martínez, diceva ai suoi clienti; “Se non sono in tipografia, cercatemi nella bottega, la botteguccia che sta nel mezzo della strada”. Da lì nacque La Bodeguita del Medio, qualcosa tanto ovvia che non ci pensò nessuno, prima. Così si chiama, dal 26 aprile del 1950, questo esercizio. Martínez finì di sbarazzarsi dei viveri e liquori comuni nelle botteghe e mise pochi tavoli nello spazio ridotto di cui disponeva, la fama della cucina di Armenia crebbe, rinforzata dalle mani prodigiose de “La China” Silvia Torres e i mojitos che lì acquisirono il documento di cittadinanza internazionale, fecero il resto.
Di lì sono passati tutti, si fa per dire. Come dal bar Vista al Golfo dell’Hotel Nacional, dove gli ambasciatori del rum Havana Club, col cocktail che porta il nome dell’esercizio alberghiero in mano, poterono apprezzare la estesa galleria con le foto delle celebrità che adornano le pareti del locale; tutti clienti dell’esercizio.
Gli invitati percorsero l’Avana su carrozze trainate da cavalli, bici taxi e grandi automobili scoperte. La sera finale, dopo cena, gli si regalò un’esperienza memorabile: poterono partecipare al matrimonio tra un Cohiba VI secolo e il rum Unión di Havana Club.
Una combinazione perfetta. 

Bares habaneros

Ciro Bianchi Ross

En estos días tocó a este escribidor compartir con un grupo de embajadores del ron Havana Club. Se llama así a los representantes de la prestigiosa marca en los países donde residen; gente joven, afable, comunicativa y, desde luego, muy receptiva a la historia y las novedades de la industria y el producto  que representan. Este escribidor debía guiarlos en un recorrido que comenzó a medio día en el Floridita y terminó, tarde en la tarde, en el bar Vista al Golfo del Hotel  Nacional de Cuba, luego de haber pasado por Sloppy Joe’s, Bodeguita del Medio y Dos Hermanos.
Cada uno de esos establecimientos recibió a los visitantes con un coctel. Vista al Golfo con el  coctel Nacional y  Sloppy con  Cuba Libre, mientras que Bodeguita del Medio y Floridita con el  mojito y el  daiquirí, que son de imaginar. Dos Hermanos ofreció el Havana Special. Curiosamente, en la cena con la que se clausuró el encuentro y que tuvo lugar en el Museo del Ron, el Havana Special fue también el coctel de bienvenida.

UN TREN SOBRE LAS OLAS

Para quien esto escribe fue una sorpresa constatar la vigencia de ese
trago   que algunos llaman el Manhattan cubano, y que el cronista
suponía olvidado  ya en la preferencia y el paladar de los bebedores, aunque se reitera en la carta-menú de muchos bares no estatales.  Una mezcla cuya invención se atribuye a Constantino Ribalaigua, barman catalán radicado en la capital cubana, que se inspiró en una línea de transporte de pasajeros y mercancías que hacía el recorrido Nueva York—Cayo Hueso—La Habana—Nueva York.
Desde esa ciudad, el tren  demoraba dos días en llegar a Cayo Hueso, donde un servicio de ferry-boats, en una travesía de diez horas, transportaba los vagones hasta La Habana. Esa ruta se conoció con el nombre de The Havana Special y posibilitó que Cuba la aprovechara para reafirmarse como importante suministrador del mercado norteamericano.
Cruzar el mar sentado cómodamente  en un vagón de ferrocarril que
antes avanzó sobre la cumbre angosta de una montaña de coral,   parece
cosa  de hadas. Como las hadas no existen, solo un hombre como el multimillonario Henry Flagler fue capaz de una empresa como esa que extendió la vía férrea hasta Miami y desde allí, de isleta en isleta, la llevó hasta Cayo Hueso para conectar así con Cuba, el resto del Caribe y el Canal de Panamá.
El camino de hierro  se acometió con acero y cemento de Alemania y maderas cubanas. Requirió de siete años de ingente labor. Por largos periodos hasta  4 000 hombres laboraron allí de manera simultánea.
Tres ciclones —uno, con 200 trabajadores muertos— entorpecieron la construcción.
No serían los meteoros el único inconveniente. El primero de los ingenieros que asumió el proyecto, enloqueció sobre los arrecifes, y el que prosiguió la tarea y la llevó a término, nunca más pudo volver a trabajar en lo suyo. De cualquier manera, el 22 de enero de 1912, con la llegada a Cayo Hueso del primer tren procedente de Miami, Flagler hacía realidad su sueño, y ese mismo día embarcaba hacia La Habana a fin de promover su ruta sobre los cayos. Veintitrés años después, el 2 de septiembre de 1935, un huracán de categoría cinco destruyó parcialmente la infraestructura ferroviaria. Los propietarios de The Havana Special vendieron lo que quedó  al estado de Florida.
Parte de esas ruinas son todavía visibles. Sobre partes de ellas se erigió la red de carreteras que, desde 1938, une entre sí los cayos floridanos y los enlaza con la península.  Desde entonces los ferry no transportaron vagones de ferrocarril. Prosiguieron su línea de pasajes y carga general y dieron a los viajeros de ambos lados la oportunidad de visitar la orilla contraria con su propio automóvil.
El ferry de Cayo Hueso se interrumpió después de 1959. Hoy, a consecuencia del bloqueo impuesto a Cuba por el gobierno de Washington, el Havana Special es solo el coctel creado por Constantino Ribalaigua, mientras que en el Cayo un busto de Flagler recuerda la historia de su famoso ferrocarril.

TAMBIÉN EN LAS NOVELAS

Todo eso expliqué, en el bar Dos Hermanos,  a los embajadores de Havana Club. Ese establecimiento se ubica frente al muelle de The Havana Special y abrió sus puertas en 1892, lo que lo hace uno de los
bares más antiguos de la capital cubana.   Se caracterizó por su larga barra de madera dura, incompleta desde que le cercenaron un pedazo a fin de emplazarlo en uno de los bares del hotel Moka, en Las Terrazas.
Aun así, sigue siendo larga.  El poeta español Federico García Lorca frecuentó el Dos Hermanos durante su estancia cubana de 1930, y por allí estuvieron  asimismo, entre otros,  Alejo Carpentier y Enrique Serpa, autor de novelas como Contrabando y La trampa y de un cuento antológico, Aletas de tiburón. Y, por supuesto, el inevitable Hemingway,  que en la festinada opinión de algunos deambuló por todos los bares y cantinas habaneros, aunque centró su preferencia en Floridita.  En Dos Hermanos, «con pasos torpes que lo conducían a una pequeña pero satisfactoria libertad», entró una tarde Andrés, el protagonista de Fiebre de caballos, (1988) la novela inicial de Leonardo Padura. Al comienzo bebió lentamente su trago amargo y se dedicó a estudiar a la gente hasta que la cuarta o quinta cerveza lo dejó sin movimientos y empezó a ver neblinosos y deformes a los que lo rodeaban, como si estuviera viendo una película filmada con un grotesco ángulo ancho.
            Floridita fue hasta 1959  el bar  más famoso de la ciudad, pero Sloppy Joe’s fue siempre el de más ventas. Supuse que el Sloppy Joe´s de Cayo Hueso antecedió a este de la esquina de Zulueta y Ánimas, en La Habana. Error. El Sloppy habanero se anticipó  en 16 años al del lado de allá, que se inauguró en 1934 y tres años después se instalaba en la calle Duval, ubicación que todavía mantiene, mientras que otro bar llamado Capitán Tony ocupaba  el espacio que el Sloppy original dejaba libre. Capitán Tony no tiene la animación del Sloppy ni su hechizo, pero allí se da una situación insólita: muchas de las mujeres que lo visitan se despojan del ajustador y lo cuelgan en las tendederas que cruzan el salón.
            Si Padura fijó el bar Dos Hermanos en la literatura, y Hemingway el Floridita en Islas en el golfo,  el inglés Graham Greene, aficionado al ron añejo e inventor de cocteles diabólicos, inmortalizó el Sloppy —y también al hotel Sevilla— en su novela Nuestro hombre en La Habana,  llevada además al cine. Un detalle interesante aporta una guía de
1954 publicada en Estados Unidos  que facilitaba a turistas norteamericanos su visita a la Isla: Sloppy Joe’s era frecuentado por visitantes estadounidenses, no por los norteamericanos residentes.  La colonia norteamericana en La Habana prefería el bar Mis amigos, en Séptima y 42, Miramar. Floridita tuvo fluctuaciones con relación a sus parroquianos. La mayoría de ellos era de origen norteamericano hasta el inicio de la II Guerra Mundial. Durante la conflagración bélica se llenó de cubanos. Los norteamericanos no podían venir a causa de la guerra y los cubanos no podían salir. Finalizada la guerra, nacionales y visitantes disfrutaron juntos su daiquirí, que figura en la lista de diez grandes cocteles del mundo.
            En 1937, el corresponsal en La Habana de la agencia norteamericana UP dedica una crónica a Constantino Ribalaigua. Refiere que un grupo de amigos conversaba sobre beisbol  en uno de los bares del Hotel Nacional cuando uno de ellos preguntó sobre quién podría considerarse el mejor cantinero cubano. Constantino Ribalaigua, respondió el barman que los atendía, aunque la pregunta no le estaba dirigida expresamente. De inmediato, refiere el periodista, uno de los del grupo telefoneó al Sloppy y a Prado 86 y también a los bares de los hoteles Plaza y Sevilla, muy famosos en la época. Obtuvo la misma respuesta. El reportero visitó a Constantino en Floridita y quedó maravillado. Confesó el barman que sus mejores cocteles eran daiquirí, presidente y Pepín Rivero, inspirado en el director-propietario del Diario de la Marina. El escribidor,  que tiene en su archivo las fórmulas de más de 300 cocteles recogidas en bares y cantinas de toda la Isla,  no ha podido ver la receta de ese último coctel. No aparece en el recetario del Floridita que Constantino publicó en 1939, cuando el señor Rivero todavía vivía. Por cierto, en ese coctelario se consigna la fórmula de un daiquirí elaborado expresamente con Havana Club.
 Che aveva
UNA INCÓGNITA

Si es posible precisar el origen de muchos cocteles y mencionar a sus creadores por su nombre, el Cuba libre queda en el misterio. Todavía a fines del siglo XIX no se conocía en Cuba la palabra coctel. La ginebra superaba al ron en el gusto de los bebedores y se hablaba de compuestos, achampanados  y meneados. La intervención militar norteamericana puso una nota de modernidad en los bares cubanos, y ron, refresco de cola y hielo hicieron una mezcla de campeonato. Cesó la soberanía española, la Isla quedó  bajo la égida de Estados Unidos y nació una república mediatizada. Pero la gente, con una buena dosis de ingenuidad, levantaba su vaso y decía: Cuba libre. En 1902 surgía el bar La Florida que, con el tiempo, pasó a ser el Floridita, y existían ya entonces el American Club, que quebró y reabrió después y la  cantina que daba servicio a las tropas norteamericanas destacadas en el campamento de Columbia. Existía, como ya se dijo, el Dos Hermanos. Se habla asimismo de un bar Americano, que el escribidor no ha podido localizar, si es que existió. En cualquiera de ellos pudo surgir el Cuba libre. .
            La Bodeguita del Medio entusiasmó a los visitantes. Su fundador, Ángel Martínez, repetía que a los 12 años de edad su padre lo condenó a cadena perpetua detrás de un mostrador. En 1942 compró el establecimiento que  entonces se llamaba La Complaciente y que no era más que una bodega de barrio. Allí su esposa Armenia comenzó a cocinar para unos pocos clientes, entre ellos Felito Ayón, un animal de la noche habanera que se vincula, como impresor, a hitos imprescindibles de la poesía cubana, como la Elegía a Jesús Menéndez, de Nicolás Guillén con dibujos de Carlos Enríquez.  Felito que tenía su negocio en la misma cuadra de lo que se llamaba ya La Casa Martínez, decía a sus clientes: Si no estoy en la imprenta, búscame en la bodega, una bodeguita que está en el medio de la calle. De ahí surgió La Bodeguita del Medio, algo tan obvio que a nadie se le ocurrió antes. Así se llama este establecimiento desde el 26 de abril de 1950. Martínez terminó desembarazándose de los víveres y licores habituales en las bodegas y  puso unas pocas mesas en el reducido espacio de que disponía, creció la fama de la cocina de Armenia, reforzada luego por las manos prodigiosas de «La China» Silvia Torres, y los mojitos, que adquirieron allí carta de ciudadanía internacional, hicieron el resto.
            Por allí ha pasado todo el mundo, es un decir. Al igual que por el bar Vista al Golfo del Hotel Nacional, donde los embajadores del ron Havana Club, con el coctel que lleva el nombre del establecimiento hotelero  en la mano,  pudieron apreciar la extensa galería de fotos de famosos que adornan las paredes; clientes todos de la instalación.
            Los invitados recorrieron La Habana en coches tirados por caballos, bici taxis y grandes carrones convertibles. La noche final, después de la cena, les regaló una experiencia memorable: pudieron participar en un maridaje entre un Cohíba siglo VI y el ron Unión de Havana Club.
Una combinación perfecta.

Ciro Bianchi Ross



sabato 6 febbraio 2016

Profughi cubani e incontro storico fra i Capi di due Chiese Cristiane

Dal prossimo martedì 9, gli oltre settemila cubani ancora in attesa di uscire dal Costarica, potranno finalmente recarsi (in transito) nel Messico, direttamente in aereo, per proseguire il cammino verso gli Stati Uniti passando la frontiera sprovvisti di visto d’ingresso. All'uopo verrà istituito un imponente ponte aereo con circa 10 voli quotidiani. Resta sempre un mistero quello per cui i cittadini cubani che entrano illegalmente negli States vengano poi accolti e assistiti come nessun altro al mondo, ma il rilascio di visti regolari per cui possano entrare senza tante peripezie è estremamente ristretto e controllato. Al di la di gente che ormai è uscita dal suo territorio nazionale, ci sono decine di migliaia di cubani a cui è stato e viene negato il visto, prima dall’Ufficio d’Interessi e adesso dall’Ambasciata.

Cambiando tema, credo sia ormai risaputo ovunque dell’incontro previsto all’aeroporto José Martí dell’Avana tra il Papa Francesco e il Patriarca della Chiesa Russa Ortodossa, approfittando di uno scalo tecnico del Santo Padre in vista del suo viaggio in Messico.

venerdì 5 febbraio 2016

Dizionario di mare per lupi di terra

AFFONDARE: accostruire qualcosa di nuovo

mercoledì 3 febbraio 2016

Dizionario di mare per lupi di terra

AFFATICARE: a lavorare (Napoli)

martedì 2 febbraio 2016

Dizionario di mare per lupi di terra

ADDOSSATO: forma dialettale per capo di abbigliamento

lunedì 1 febbraio 2016

L'Avana di andata e ritorno...di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 31/1/16


Se si domanda a qualsiasi avanero dove situa il cuore dell’Avana, risponderà senza esitare che è nella Rampa. Questo pezzo di strada che si estende per una lunghezza di 500 metri lungo l’Avenida 23, nel Vedado, dalla gelateria Coppelia fino al mare, è la zona più centrale e frequentata della capitale. Il luogo ideale per la passeggiata, l’appuntamento galante, l’incontro di lavoro, la distrazione...Così è successo durante gli ultimi 60 anni nei quali La Rampa si è convertita, col Malecón, nel luogo più cosmopolita dell’urbe.
Andare alla Rampa, riunirsi in essa, sono abitudini dei cubani, come pure si prenderebbe come punto di riferimento per intraprendere il cammino, dopo, verso altri posti. Ci sono molti modi di percorrere l’Avana.
Una può essere quella di seguire la deriva che quì segna la storia.
Un’altra farlo in libera scelta, con fermate in quei luoghi che meritino una fermata lungo il cammino. Questo è, con La Rampa come punto di partenza, quello che faremo nelle pagine che seguono.

Stili diversi

Si insiste così tanto nei valori dell’Avana coloniale che si corre il rischio di supporre che il resto della nostra città non ne abbia. Dell’Avana moderna, il meglio è il Vedado, ha raggiunto il meglio dell’urbanismo cubano. Con l’instaurazione della Repubblica (1902), questo quartiere acquisì un’auge inusitata. Già l’Università si era installata in esso, i signori di lunga data e i nuovi ricchi fecero costruire le loro residenze nella zona.
Si impose quindi una modalità eclettica nell’architettura che raggiunse le sue migliori espressioni nella casa dove ha sede l’Unione degli Scrittori e Artisti di Cuba, nel palazzetto che ospita il Museo delle Arti Decorative e l’Auditorium Amadeo Roldán. È di stile genuinamente fiorentino la Casa de la Amistad e neobarocca la grande casa dov’è installato il caffè ristorante 1830 vicino alla foce del río Almendares.
Anche se esistevano, nella capitale, alcuni edifici alti – mai superiori ai 10 piani -, è nel Vedado dove prolifera la smania dei grattacieli – Quasi mai maggiori di 20. L’Hotel Nacional (1930) ad esempio ha solo otto livelli, ma col suo stile di provenienza spagnola fu la prima installazione alberghiera di vero lusso di cui dispose la città.
Poco dopo si costruiva l’edificio di appartamenti López Serrano, di stile Art Decó che fu il più alto dell’Avana fino alla decade del ’50.
È in questa epoca che il Vedado torna a rinascere. La Rampa, più che una strada comincia a convertirsi in uno stato d’animo. Si inaugurano grandi alberghi – Rosita de Hornedo, Capri, Riviera, Habana Hilton – e edifici come quelli del Fondo Pensioni Odontologico e quello Medico segnano punti di molto valore nell’architettura cubana. A questi si aggiunge l’edificio Focsa, una delle costruzioni più alte del Paese e meraviglia dell’ingegneria civile cubana.

La Piazza

Chiaro che se si parla di altezze raggiunte per mano dell’uomo niente supera, a Cuba, il monumento a José Martí nella Piazza della Rivoluzione. Dall’Avenida 23, l’Avenida Paseo conduce direttamente a questo luogo che è stato il centro politico della nazione dal 1959. In essa, il cubano ha vibrato di emozioni e gioia con le parole di Fidel, ha pianto, come la notte della straordinaria veglia per la morte del Che, si è indignato come nel commiato alle vittime dell’aereo cubano sabotato alle Barbados nel 1976, in ogni momento ha riaffermato il suo appoggio a una Rivoluzione e ad un leader vittoriosi. Nella calle G, chiamata anche Avenida de los Presidentes, colpisce il monumento al generale José Miguel Gómez, secondo presidente della nazione (1909-1913), costruito con colletta popolare nel 1936 e il Castillo del Príncipe è esponente  di uno dei baluardi definitivi della città coloniale. Già nella Piazza, incorniciata dagli edifici della Biblioteca José Martí e il Teatro Nacional, la sede di vari ministeri e il Palazzo della Revolución, la statua dell’eroe, di 18 metri d’altezza, si staglia contro un obelisco di 142 metri. Una scalinata di 567 gradini e un ascensore conducono al belvedere del monumento. Da lí con l’Avana ai piedi, si regala una prospettiva mozzafiato.

El Prado

Il Paseo del Prado segna il confine tra la città moderna e l’antica. Non si può concepire l’Avana senza questo corso; nemmeno senza il suo Parco Centrale, che si affaccia sul Paseo. Lì si trova anche quel palazzo dei palazzi che è il Capitolio, inaugurato nel 1929 e attualmente in restauro.
La cupola di questo edificio è, per il suo stile, il suo diametro e altezza, la sesta del mondo. Al momento della sua costruzione, il lucernario che lo sovrasta era superato solo da San Pietro a Roma e San Paolo a Londra. Sotto la cupola si apprezza la Statua della Repubblica, una tra le più alte fra le sculture che esistono in interni, si sa poco però circa la cubana che servì da modella per l’opera. Ai suoi piedi, incastonato nel pavimento del Salone dei Passi Perduti, un brillante che appartenne a una delle corone dell’ultimo Zar di Russia, segnava il kilometro zero di tutte le distanze dell’Isola.

Obispo

È un piacere percorrere la calle Obispo, arteria eminentemente commerciale che allaccia il Paseo del Prado con la Plaza de Armas nell’Avana Vecchia.
Questa piazza è la più antica della città e fu il politico-militare dell’Isola durante la Colonia. Uno degli edifici che si affaccia aquesto spazio è il Castillo de la Fuerza, la seconda delle fortezze che gli spagnoli costruirono in America e che sfoggia sulla sua torre ornamentale, La Girardilla, simbolo dell’Avana. Vicino alla Fuerza si eleva col suo patio andaluso e la sua facciata maestosa, il Palazzo del Secondo Capo (1772) e sull’altro lato della piazza, di fronte a quello occupato dall'hotel Santa Isabel, il Palazzo dei Capitani Generali (Museo della Città) si erge come il più genuino dell’architettura barocca avanera.
Nonostante lo splendore della Plaza de Armas, quella della Cattedrale è il complesso più armonioso dell’Avana di ieri, mentre quella di San Francisco esibisce, a lato del convento dallo stesso nome, la bellissima Fonte dei Leoni e la Plaza Vieja offre nelle sue edificazioni un compendio di stili che va dal barocco all’art nouveau.
È impensabile uscire dall’Avana Vecchia senza visitare la dimora della calle Leonor Pérez, 314. È modesta, non ci sono lussi in essa, ma per i cubani ha un significato speciale: lì nacque José Martí, l’Apostolo dell’Indipendenza di Cuba.

Il tunnel

È, senza discussione, “l’opera del secolo” a Cuba. La si considera una delle sette meraviglie dell’ingegneria civile cubana e uno studioso come Jacques Budet la include tra le grandi opere dell’umanità. In effetti nel suo libro The Great Works of Mankind (Londra, 1961) appare il Tunnel dell’Avana assieme alla città di Machu Picchu e l’Alhambra di Granada, la Grande Muraglia cinese e la Città Proibita, il cavo transatlantico e il Canale di Suez, il Ponte di Brooklyn e la modernizzazione di Mosca... Per la prima volta un viadotto sottomarino si costruiva in quel modo, il suo progetto e la sua tecnologia rivoluzioneranno il mondo delle costruzioni.
Pe renderlo possibile si dragarono 25.000 metri cubi di roccia e oltre 100.000 di sabbia. Ha un’estensione di 733 metri e una larghezza di 22 e le sue quattro corsie si disegnarono per permettere il transito di 1.500 veicoli all’ora in entrambe le direzioni. I tubi o cassoni che lo conformano si costruirono in un bacino asciutto, poi si trasportarono per galleggiamento per essere affondati sul fondo del canale della baia avanera dove si era scavato, in precedenza il fossato in cui sarebbero stati depositati.
Il Tunnel dell’Avana si inaugurò il 31 maggio del 1958, dopo tre anni di lavoro e con l’opera si faceva realtà il desiderio di allacciare in modo veloce e comodo L’Avana con l’allora chiamata Città dell’Est e un corollario di spiagge incantevoli con le loro sabbie bianche e acque cristalline. Basta attraversare sotto il mare la rada avanera e questo si fa in questione di secondi.

Verso l’est

La città si era estesa verso sud e verso occidente, mentre l’est continuava costretto alle sue spiagge che attraevano sempre più l’attenzione dei vacanzieri e gente desiderosa di investire in esse.
Per la lontananza e lo stato deplorevole delle strade, arrivare a queste spiagge fu un martirio fino alla costruzione della Via Blanca a metà degli anni ’40. E una volta inaugurata questa, il viaggio continuava facendosi di una lunghezza non necessaria, quando un tunnel avrebbe garantito una via rapida e avrebbe rivalutato i terreni siti al di la delle fortezze del Morro e la Cabaña.
I grandi proprietari dell’est non cessavano nel loro impegno e nel 1949 si effettuavano studi di fattibilità per il Tunnel dell’Avana. Già nel 1954 l’idea era irrefrenabile. Grazie al tunnel si sarebbe spostato il centro dell’Avana e in principio la città sarebbe cresciuta verso est per gli stessi 18 km. in cui, per 40 anni, era cresciuta verso ovest.
Le spiagge, da parte loro, continuavano la loro espansione inarrestabile.
Guanabo era già una città-spiaggia e Santa Maria del Mar era cresciuta enormemente e molto ben pianificata, in meno di dieci anni. Si parcellizzò e si costruìrono Boca Ciega, Tarará e Bacuranao, la Via Blanca propiziò il sorgere di quartieri residenziali in Colinas de Villa Real, Alamar, Bahia...mentre Cojimar si confermava come paese di pescatori non esente da interesse turistico.
Se dalla parte ovest dell’Avana viveva un milone di avaneri e poi continuava verso la provincia di Pinar del Río, la “Cenerentola”, povera e dimenticata, dalla parte est risiedeva la maggior parte della popolazione cubana e si apriva un territorio di emergente o potenziale ricchezza.

La strada più veloce

Il Malecón risulta essere la strada più veloce per raggiungere l’ovest avanero.
Qualunque dei due tunnel che passano al di sotto del río Almendares – uno dei quali soppiantò il famoso ponte di Pote, che si apriva in due parti al fine di dare passaggio alle imbarcazioni – allaccia il Vedado con Miramar, il quartiere dei diplomatici e imprenditori per eccellenza, con una Quinta Avenida fastosa. Più in la, per la via Panamericana, la marina Hemingway apre una porta all’avventura.
L’avanero si dimentica spesso dell’Almendares. Invece, questo fiume, è uno dei due simboli dell’Avana e parte integrante della sua identità.
Dal Parco Metropolitano arrivano all’Avana i parchi naturali, il polmone verde di cui necessita la capitale e di cui formano parte, nella capitale dell’urbe, il Parco Lenin, il Giardino Botanico, i terreni di Expocuba, Río Cristal e lo Zoologico Nazionale. È difficile riprodurre a parole tanta meraviglia.
Dal sud, lungo l’Avenida di Rancho Boyeros, si può tornare al Vedado. La Città Sportiva si trova su questo cammino e di fronte a lei, La Fonte Luminosa. Si lascia indietro la Piazza della Rivoluzione e si sfocia un’altra volta, di colpo, nell’Avenida 23. Se si prosegue per G verso il mare, si apprezzano i monumenti a Salvador Allende, Benito Juarez, Omar Torrijos, Eloy Alfaro e Simón Bolívar e più sotto, all’incrocio col Malecón, quello che rende omaggio al generale independista cubano Calíxto García. Alla sinistra c’è la Casa de las Américas, una delle grandi istituzioni culturali del continente.
Si Impone un ritorno alla Rampa. Che ne dite di un gelato di ciocolato o vaniglia? Ebbene, lì c’è Coppelia, più che una gelateria, un’istituzione nazionale, dove a volte è possibile degustare i migliori gelati del mondo.


La Habana de ida y vuelta
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
30 de Enero del 2016 20:20:34 CDT

Si se le pregunta a cualquier habanero dónde sitúa el corazón de La Habana, responderá sin vacilar que en La Rampa. Ese pedazo de calle que se extiende a lo largo de 500 metros por la Avenida 23, en el Vedado, desde la heladería Coppelia hasta el mar, es lo más céntrico y concurrido de la capital. El sitio ideal para el paseo, la cita amorosa, el encuentro de trabajo, la distracción… Así ha sucedido a lo largo de los últimos 60 años en los que La Rampa se convirtió, junto al Malecón, en el lugar más cosmopolita de la urbe.
Ir a La Rampa, reunirse en ella, son costumbres de los cubanos, como también lo es tomarla como punto de referencia para emprender camino después hacia otros sitios. Hay muchas maneras de recorrer La Habana.
Una puede ser la de seguir el derrotero que marca aquí la historia.
Otra es hacerlo a libre arbitrio, con paradas en aquellos lugares que merezcan un alto en el camino. Eso es lo que, con La Rampa como punto de partida, haremos en las páginas que siguen.

Estilos diversos

Se insiste tanto en los valores de La Habana colonial que se corre el riesgo de suponer que el resto de la ciudad no los tiene. De La Habana moderna lo mejor es el Vedado, logro mayor del urbanismo cubano. Con la instauración de la República (1902), esa barriada adquirió auge inusitado. Ya la Universidad se había instalado en ella y los señores de abolengo y los nuevos ricos hicieron construir sus residencias en la zona.
Se impuso entonces una modalidad ecléctica en la arquitectura que alcanzó sus mejores exponentes en la casa donde radica la Unión de Escritores y Artistas de Cuba, el palacete que alberga el Museo de Artes Decorativas y el Auditórium Amadeo Roldán. Es de estilo genuinamente florentino la Casa de la Amistad, y neobarroca la casona donde está instalado el café-restaurante 1830 junto a la desembocadura del río Almendares.
Aunque existían en la capital algunos edificios altos —nunca mayores de diez pisos—, es en el Vedado donde prolifera el afán de los rascacielos —casi nunca mayores de 20. El Hotel Nacional (1930) sin embargo tiene solo ocho niveles, pero —con su estilo plateresco español— fue la primera instalación hotelera de verdadero lujo de que dispuso la ciudad. Poco después se construía el edificio de apartamentos López Serrano, de estilo art decó, que fue el más alto de La Habana hasta la década de los 50.
Es por esta época en que el Vedado vuelve a renacer. La Rampa, más que una calle, comienza a convertirse en un estado de ánimo. Se inauguran grandes hoteles —Rosita de Hornedo, Capri, Riviera, Habana Hilton— y edificios como los del Retiro Odontológico y el Retiro Médico marcan puntos muy valiosos en la arquitectura cubana. A estos se une el edificio Focsa, una de las construcciones más altas del país y maravilla de la ingeniería civil cubana.

La plaza

Claro que si de alturas conseguidas por la mano del hombre se trata, nada supera en Cuba al monumento a José Martí en la Plaza de la Revolución. Desde la Avenida 23, la Avenida Paseo conduce directamente a ese sitio que ha sido centro de la vida política de la nación desde 1959. En ella, el cubano ha vibrado de emoción y júbilo con las palabras de Fidel, ha llorado como en la noche de la extraordinaria velada por la muerte del Che, se ha indignado como en la despedida del duelo de las víctimas del avión cubano saboteado en Barbados, en 1976, y en todo momento ha reafirmado su apoyo a una Revolución y a un líder victoriosos.
En la calle G, llamada también Avenida de los Presidentes, impacta el monumento al mayor general José Miguel Gómez, segundo mandatario de la nación (1909-1913), construido por cuestación popular en 1936, y el Castillo del Príncipe es exponente de uno de los baluartes definitivos de la ciudad colonial. Ya en la Plaza, enmarcada por los edificios de la Biblioteca José Martí y el Teatro Nacional, la sede de varios ministerios y el Palacio de la Revolución, la estatua del héroe, de 18 metros de alto, se recorta contra un obelisco de 142 metros. Una escalera de 567 peldaños y un ascensor conducen al mirador del monumento. Desde allí, con La Habana a los pies, se regala una perspectiva que corta el aliento.

El prado

El Paseo del Prado marca la frontera entre la ciudad moderna y la antigua. No se concibe a La Habana sin esa calzada; tampoco sin su Parque Central, que se asoma sobre el Paseo. Allí también se ubica ese palacio de palacios que es el Capitolio, inaugurado en 1929 y ahora en restauración.
La cúpula de este edificio es, en su estilo, por su diámetro y altura, la sexta del mundo. A la linterna que la remata, en el momento de construirse el edificio solo la superaban la de San Pedro, en Roma, y la de San Pablo, en Londres. Bajo la cúpula se aprecia la Estatua de la República, una de las más altas entre todas las esculturas que existen bajo techo, aunque poco se sabe acerca de la cubana que sirvió de modelo para la obra. A sus pies, empotrado en el piso del Salón de los Pasos Perdidos, un brillante que perteneció a una de las coronas del último zar de Rusia marcaba el kilómetro cero de todas las distancias de la Isla.

Obispo

Da gusto caminar la calle Obispo, arteria eminentemente comercial que enlaza el Paseo del Prado con la Plaza de Armas en La Habana Vieja.
Esa plaza es la más antigua de la ciudad y fue el centro político-militar de la Isla durante la Colonia. Una de las edificaciones que a ese espacio se asoma es el Castillo de la Fuerza, la segunda de las fortalezas que los españoles construyeron en América y que luce en su torre de homenaje a La Giraldilla, símbolo de La Habana. Junto a la Fuerza se alza, con su patio andaluz y su portada mayestática, el Palacio del Segundo Cabo (1772) y en otro lado de la plaza, frente al que ocupa el hotel Santa Isabel, el Palacio de los Capitanes Generales (Museo de la Ciudad) se yergue como el exponente más genuino de la arquitectura barroca habanera.
Pese al esplendor de la Plaza de Armas, la de la Catedral es el conjunto más armonioso de La Habana de ayer, en tanto que la de San Francisco exhibe, aledaña al convento de ese nombre, la bellísima Fuente de los Leones, y la Plaza Vieja ofrece en sus edificaciones un compendio de estilos que va del barroco al art nouveau.
Resulta impensable salir de La Habana Vieja sin visitar la morada de la calle Leonor Pérez, 314. Es modesta, nada de lujos hay en ella, pero tiene para los cubanos una significación especial: allí nació José Martí, el Apóstol de la Independencia de Cuba.

El túnel

Es, sin discusión, «la obra del siglo» en Cuba. Se le considera una de las siete maravillas de la ingeniería civil cubana y un estudioso como Jacques Boudet la incluye entre las grandes obras de la humanidad. En efecto, en su libro The Great Works of Mankind (Londres, 1961) aparece el Túnel de La Habana junto a la ciudad de Machu Pichu y el Alhambra de Granada, la Gran Muralla china y la Ciudad Prohibida, el cable trasatlántico y el Canal de Suez, el puente de Brooklyn y la modernización de Moscú… Por primera vez un viaducto submarino se construía de esa forma y su proyecto y su tecnología revolucionarían el mundo de las construcciones.
Para hacerlo posible se dragaron 250 000 metros cúbicos de roca y más de 100 000 de arena. Tiene una extensión de 733 metros y un ancho de
22 y sus cuatro carriles se diseñaron para permitir el tránsito de 1
500 vehículos por hora en ambas direcciones. Los tubos o cajones que lo conforman se construyeron en un dique seco y luego se trasladaron por flotación para ser hundidos en el fondo del canal de la bahía habanera, donde previamente se había excavado la zanja en que se depositarían.
El Túnel de La Habana se inauguró el 31 de mayo de 1958, después de tres años de trabajo, y con la obra se hacía realidad el anhelo de enlazar de una manera rápida y cómoda a La Habana con lo que entonces se llamaba la Ciudad del Este y un rosario de playas de encantamiento con sus arenas blancas y aguas cristalinas. Basta con atravesar bajo el mar la rada habanera y eso se hace en cuestión de segundos.

Hacia el este

La ciudad se había expandido hacia el sur y hacia occidente, mientras que el este seguía constriñéndose a sus playas que atraían cada vez más la atención de vacacionistas y gente deseosa de invertir en ellas.
Por la lejanía y el estado deplorable de los caminos, llegar a esas playas fue un martirio hasta la construcción de la Vía Blanca a mediados de los años 40. Y una vez inaugurada esta, el viaje seguía haciéndose innecesariamente largo cuando el túnel garantizaría una vía expedita y revalorizaría los terrenos situados más allá de las fortalezas del Morro y la Cabaña.
Los grandes propietarios del este no cejaban en su empeño y en 1949 se acometían estudios de factibilidad del Túnel de La Habana. En 1954 la idea era ya indetenible. Gracias al túnel, se desplazaría el centro de La Habana y, en principio, la capital crecería hacia el este los mismos 18 kilómetros que durante 40 años había crecido hacia el oeste.
Las playas, por su parte, continuaban su expansión indetenible.
Guanabo era ya una ciudad-playa y Santa María del Mar había crecido enormemente, y muy bien planificada, en menos de diez años. Se parceló y construyó en Boca Ciega, Tarará y Bacuranao, y la Vía Blanca propició el surgimiento de repartos residenciales en Colinas de Villa Real, Alamar, Bahía… mientras que Cojímar se consolidaba como un poblado de pescadores no exento de interés turístico.
Si del lado oeste de La Habana vivían un millón de habaneros y seguía luego la provincia de Pinar del Río, la «Cenicienta», pobre y olvidada, del lado este radicaba la mayor parte de la población cubana y se abría un territorio de pujante o potencial riqueza.

La vía más rápida

El Malecón resulta la vía más rápida para alcanzar el oeste habanero.
Cualquiera de los dos túneles que cruzan bajo el río Almendares —uno de los cuales suplantó al famoso puente de Pote, que se abría en dos partes a fin de dar paso a las embarcaciones— enlaza el Vedado con Miramar, el barrio diplomático y empresarial por excelencia, con una Quinta Avenida fastuosa. Más allá, por la carretera Panamericana, la Marina Hemingway abre una puerta a la aventura.
El habanero se olvida a menudo del Almendares. Sin embargo, ese río es uno de los símbolos de La Habana y parte entrañable de su identidad.
Por el Parque Metropolitano llegan a la capital los parques naturales, el pulmón verde que la capital necesita y del que forman parte, en la capital de la urbe, el Parque Lenin, el Jardín Botánico, los terrenos de Expocuba, Río Cristal y el Zoológico Nacional. Es difícil reproducir con palabras tanta maravilla.
Desde el sur, por la Avenida de Rancho Boyeros, puede retornarse al Vedado. La Ciudad Deportiva se encuentra en ese paso y, frente a ella, la Fuente Luminosa. Queda atrás la Plaza de la Revolución y se desemboca otra vez, de golpe, en la Avenida 23. Si se sigue por G hacia el mar, se apreciarán los monumentos a Salvador Allende, Benito Juárez, Omar Torrijos, Eloy Alfaro y Simón Bolívar y, más abajo, en la intersección con Malecón, el que rinde homenaje al general independentista cubano Calixto García. A la izquierda está la Casa de las Américas, una de las grandes instituciones culturales del continente.
Se impone una vuelta a La Rampa. ¿Qué tal un helado de chocolate o de vainilla? Bueno, ahí está Coppelia, más que una heladería, una institución nacional, donde a veces es posible degustar los mejores helados del mundo.

Ciro Bianchi Ross