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lunedì 28 dicembre 2015

Fine anno a Cuba, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 27/12/15

L’anno è esempio di processo ciclico: ha una relazione analogica con processi tali come il giorno, la vita umana, il future di una cultura…tutti con una fase ascendente e un’altra discendente. La fine dell’anno per l’essere umano è sempre un occasione di bilancio e revisione; momento propizio per ripassare successi e sconfitte e contrapporre l’ottenuto con quello che non si è raggiunto. Alle 12 di sera del 31 dicembre si chiude una tappa che apre subito il passo a un’altra che si apre con nuove mete che a volte arrivano sempre prima di questi anelati e invariabilmente inconclusi propositi di abbandonare la sigaretta, visitare la vecchia zia malata o calare di peso corporeo.
Si dice; “Anno nuovo, vita nuova”.
La feste natalizie e di fine anno cominciano con sufficiente anticipo. Da quando inizia dicembre i grandi commerci ci ricordano, con motivi allegorici e timidi ribassi di prezzo, la loro vicinanza, l’installazione dell’alberello con le sue luci e palle colorate è una festa per la famiglia. Cresce l’allegria e cala il ritmo di lavoro. Le malattie danno un respiro. O la gente da un respiro alle sue malattie e nonostante i mali continuino ad esserci, si pospone fino a gennaio la visita medica. Quelli che pomeriggio dopo pomeriggio provano le bevande alcoliche allora non vacillano, in quello che “un giorno è un giorno”, nel mettersi un goccetto, avolte più di uno e quello che guarda da un’altra parte per non salutare nessuno, bisogna sopportarlo perché non stringa fra le braccia il vicino. Arrivano biglietti di auguri. Più o meno dicono lo stesso: “Buone feste e prospero anno nuovo”.
Sono le feste per la nascita del Figlio di Dio. Ma a Cuba, come succede in molti altri Paesi, la celebrazione si è dissacrata e questi giorni sono passati ad essere grato motivo di riunione familiare e di reincontro con amici, anche se i templi cattolici si riempiono di fedeli, non sempre devoti, per ascoltare la Messa di Mezzanotte che si officia alle 11 di sera del 24 e che adesso può essere alle nove o a qualsiasi altra ora.

Quello che è avanzato

La cena del 24, la Vigilia propriamente detta, è il centro della celebrazione. Questo giorno – può essere anche il 31 – per molti rende importante indossare un capo nuovo, sia una giacca che un paio di mutande. La famiglia cubana non ha, per l’occasione, un’ora fissa per cenare. Si impone, sí, nella maggior parte dell’Isola, di farlo con la famiglia e si spera di averla tutta a tavola per cominciare a degustare i fagioli neri “addormentati”  e il riso bianco sgranato e risplendente, la yuca con la salsa, il maiale al forno o il tacchino ripieno o senza ripieno che assieme ai dolci caserecci, come i krapfen di Natale e un’ampia gamma di dolci sciroppati e torroni spagnoli, sono piatti – anche il fagiano in salsa nera – che conformano la spanciata della data che, in un Paese senza tradizione né cultura vinicola, si annaffia generalmente con birra ghiacciata. Non sono frequenti nella Vigilia cubana l‘agnello né il pesce con frutti di mare, nemmeno il baccalà, abituali in altre latitudini.
In una fine evocazione della cucina cubana il poeta Miguel Barnet scriveva:
“Non sfuggono alla mia memoria le vigilie nella mia casa al mare, con il maialino allo spiedo, il tacchino gigante o il pargo arrostito alla catalana, tutto accompagnato dalla banana matura fritta, rotelle di banana tostata rubiconde o yuca con salsa d’aglio”.
Lo scriba sa che nella Cuba di oggi, non tutti mangiano sempre quello che vorrebbero. Me è convinto che non c’è famiglia cubana che vada a letto senza cena. Per modeste che siano le risorse, si riserva sempre qualcosa di speciale o diverso per questa sera.
Uno dei nostri grandi osservatori del costume diceva che per il cubano medio non è tanto importante quello che ha messo in tavola alla Vigilia, ma quello che è avanzato, al fine di poter commentare che c’è stato tanto da mangiare che in casa sua non è stato necessario cucinare il giorno seguente. In realtà la cubana non usa mettersi in cucina il 25 che è il giorno dei cosiddetti avanzi, questo è, mangiare quello che è rimasto dalla sera precedente.
Ci vuole un  25 il più tranquillo possibile, ideale per le visite, finire la bottiglia che è rimasta a metà dalla sera o per alleggerire l’agitazione dei giorni precedenti. Anche se ha guadagnato terreno negli ultimi anni la cena del 31, si preferisce una cena leggera in casa,per celebrare alla grande la data in strada, ricevere l’anno e cominciare un nuovo ciclo con il pranzo del 1° gennaio.
Tanta prodezza metabolica lascia, chi più chi meno, con l’apparato digesto scombussolato. Rimane ancora un giorno, quello dell’arrivo dei Re Magi, i tre savi che appaiono nei Salmi e che, come una rappresentazione omniscente dell’umanità intera, resero omaggio al bambino di Betlemme.
Con loro finiscono le feste. Rimane in un angolo, nessuno sa per quanti giorni ancora, l’alberello già buio e sempre più impolverato. Se si è montato con l’illusione dei giorni a venire, toglierlo diventa una tortura che si pospone di volta in volta fino a che qualcuno, in casa, si riempie di valore e lo si smonta per conservare con cura le palle colorate e le luci che si utilizzeranno di nuovo alla fine di quest’anno.

Il pupazzo e la valigia

Nelle fine anno ci sono usanze che si mantengono e nuove che lottano per perpetuarsi.
Lo scriba che è già alla soglia dei 70 anni, non ricorda di aver visto mai, prima del 1959, uscire nessuno alle 12 di sera del 31 di dicembre, con una valigia in mano per fare il giro dell’isolato. Si tratta di un’usanza che adesso si va estendendo e quelli che la praticano dicono che è il modo di assicurarsi un viaggio all’estero. O di propiziarlo. Lo scriba non ha nemmeno visto bruciare un pupazzo che simbolizzasse l’anno vecchio, come si fa oggi in alcune località col pretesto di eliminare i mali del periodo che termina. Un pupazzo di stracci che modellano i più giovani della zona e che con nuovi annessi, si va ingrossando giorno dopo giorno fino alla fine. In alcune città, come Remedios, nella regione centrale del Paese, il 24 dicembre è la data di celebrazione delle sue celebri “Parrandas”. I remediani, allora, cenano presto per essere nella piazza centrale quando comincia la festa in cui “carmelitas” e “sansariés”   si disputeranno la vittoria a colpi di razzi.
Quando ero bambino, il porcellino che era come lo chiamavamo, o in sua mancanza la zampetta, si arrostiva in panetteria. Giunto il 24, la famiglia toglieva dal ripostiglio il vassoio o l’asse, riposte dall’anno prima che il panettiere metteva nel forno e che, già arrostito l’animale o la sua zampa, officiavano come una specie di barella per trasferirlo a casa. La cosa diventava brutta qyando l’orologio cominciava a correre, giungevano le otto o le nove di sera, l’ansietà cominciava a fare danni e il porcellino non arrivava dalla panetteria anche se dalle prime ore della mattina si era sollecitato il servizio. È che bisognava aspettare il proprio turno. Di quei tempi tornano alla memoria dello scriba i nomi di alcune panetterie, tutte nel reparto Lawton; Il buon Gusto, in Concepción angolo Armas;
Sasn Francisco, nella strada dallo stesso nome fra Delicias e Diez de Octubre; La Princesa al 16 angolo Concepción e El Bombero, in Porvenir angolo B che è, credo l’unico di questi quattro esercizi che è rimasto aperto.
Tanto si arrostisse nella panetteria come a casa, il procedimento aveva le sue complessità. Il giorno anteriore si ammazzava l’animale e si raccoglieva il sangue per i sanguinacci. Gli si gettava acqua bollente, si sfregava con un mattone per togliergli la pelle e sbiancarlo. Si radeva e si sciacquava.
Si apriva, e si toglievano le viscere. Quindi si sciacquava dentro e si appendeva perché scolasse. Si addobbava la sera e il giorno seguente si scolava la guarnitura e si metteva il maiale sulla graticola. Se si era deciso di arrostirlo in casa un’opzione era quella di aprire un buco di un metro quadrato nella terra, rifornirlo di carbone o legna sufficiente e collocare la graticola su quattro sostegni. L’arrosto si allontanava dalle fiamme a misura che l’animale si cucinava. Mentre il maiale si arrostiva, le viscere fritte che erano le prime ad essere mangiate, erano accompagnate da rum o birra. Tutto ciò era parte del folklore.

Aguinaldo

Si avvicinano le feste di fine anno e i raccoglitori di spazzatura e quelli che spazzavano le strade bussavano alle porte delle case per fare gli auguri alle famiglie. Le avevano servite durante i mesi precedenti e col loro saluto suggerivano una piccola ricompensa chiamata “aguinaldo”. La suggeriva anche il postino che lasciava, come gli altri, una piccola cartolina con un messaggio cordiale e speranzoso. Tutto in cambio della classica “peseta”; i 20 centesimi che era generalmente quello che si ossequiava. Giunta la data, il bottegaio regalava ai suoi clienti: una lattina di dolce sciroppato, un torrone, una bottiglia di rum o di vino, una regalia che era in proporzione con le spese che il cliente aveva fatto durante l’anno e che garantiva che il cliente continuasse a fare lì i suoi acquisti.
Allora non eravamo ancora utenti.
Ancora, fino ai primi anni della Rivoluzione, sulla stampa si annunciava il saluto del corpo diplomatico accreditato al Presidente della Repubblica e il cocktail con cui il primo cittadino corrispondeva al saluto, il primo giorno dell’anno, nel Salone degli Specchi del Palazzo. Il 31 dicembre del 1966, si celebrò l’anniversario della vittoria del 1959 con una cena gigante nella Piazza della Rivoluzione, alla quale assistettero i principali dirigenti e funzionari dell Stato.

Il secchio

Una tradizione che ha resistito a tutte le epoche è quella del secchio. Quando l’orologio segna le 12 del giorno 31, il cubano ha già preparato dietro la porta un secchi pieno d’acqua che getta in strada conil dodicesimo rintocco, con la speranza che si porti via tutto il male e che per buono che fosse l’anno che va, sia migliore quello che arriva.
Ci sono i 12 chicchi d’uva e la coppa di champagne o di sidro, una tradizione che è tornata. Ma mai prima che si lanci il secchio in strada con allegria e speranza.
Abbiamo avuto fine d’anno meglio di altri. Il 31 dicembre del 1898 cessò, a Cuba, la dominazione spagnola. La nuova situazione ha provocato sentimenti contrastanti nei cubani più semplici. Alcuni piangevano, altri ridevano, scriveva il cronista Federico Villoch.
Era una commozione nervosa, difficile da contenere, non si lottò per tanti anni perché alla fine fosse la bandiera nordamericana a sventolare in Plaza de Armas e nel Morro. Ma l’uscita della Spagna, dopo 400 anni di dominazione procurava sollievo e allegria.
Sessant’un anni dopo, l’acqua del secchio della fine anno 1958 portava via Batista e la sua banda. E tutto un regime sociale. Per la prima volta nella storia, la frase “Anno nuovo, vita nuova” cominciava a essere una realtà per i cubani.


Fin de año en Cuba
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
26 de Diciembre del 2015 20:19:20 CDT

El año es ejemplo de proceso cíclico; guarda una relación analógica con procesos tales como el día, la vida humana,  el devenir de una cultura… todos con una fase ascendente y otra, descendente. El fin de un año es siempre para el ser humano ocasión de balance y recuento; momento propicio para repasar éxitos y fracasos, y contrastar lo conseguido con lo que no se alcanzó. A las 12 de la noche del 31 de diciembre se cierra una etapa que da paso enseguida a otra que se abre con nuevas metas, que a veces vienen de antes como esos siempre anhelados e invariablemente incumplidos propósitos de abandonar el cigarrillo, visitar a la vieja tía enferma o rebajar el peso corporal.
Se dice: «Año nuevo; vida nueva».
Las fiestas navideñas y de fin de año comienzan con bastante anticipación. Desde que entra diciembre los grandes comercios nos recuerdan, con motivos alegóricos y tímidas rebajas de precio, su cercanía, y la puesta del arbolito, con sus luces y bolas de colores, es una fiesta para la familia. Crece el júbilo y el ritmo laboral decrece. Las enfermedades dan un respiro. O la gente da un respiro a sus enfermedades y, aunque los males sigan ahí, se aplaza hasta enero la visita al médico. Los que muy de tarde en tarde prueban las bebidas alcohólicas, no vacilan entonces,  por aquello de que «un día es un día», en darse su trago, y a veces más de uno, y el que mira hacia otro lado para no saludar a nadie, hay que aguantarlo para que no apurruñe entre los brazos al vecino. Llegan las tarjetas de felicitación. Dicen más o menos lo mismo: «Felices fiestas y Próspero año nuevo».
Son las fiestas por el nacimiento del Niño Dios. Pero en Cuba, al igual que sucede en otros muchos países, la celebración se ha desacralizado y esos días pasaron a ser grato motivo de reunión familiar y de reencuentro de amigos, aunque los templos católicos se llenen de feligreses, no siempre devotos, para escuchar la Misa del Gallo, que se oficia a las 11 de la noche del 24 y que ahora puede ser a las nueve o a cualquier otra hora.

Lo que sobró

La cena del día 24, la Nochebuena propiamente dicha, es el centro de la celebración. Ese día —puede ser también el 31— para muchos es importante estrenar una pieza de ropa, sea una chaqueta o un calzoncillo. La familia cubana no tiene, en la ocasión, una hora fija para cenar. Se impone, sí, en la mayoría de la Isla, hacerlo en familia, y se espera tenerla toda a la mesa para empezar a degustar los frijoles negros dormidos y el arroz blanco desgranado y reluciente, la yuca con mojo, el puerco asado o el guanajo relleno o sin rellenar que, junto con los postres caseros, como los buñuelos de navidad, y una amplia gama de dulces en almíbar y turrones españoles, son los platos —también el guineo en salsa negra— que conforman la comilona de la fecha que, en un país sin tradición ni cultura vinícola, se riega por lo general con cerveza helada. No son frecuentes en la Nochebuena cubana el cordero ni los pescados y mariscos, tampoco el bacalao, habituales en otras latitudes.
En una fina evocación de la cocina cubana escribía el poeta Miguel Barnet:
«No escapan a mi memoria las nochebuenas de mi casa marina, con el lechón al pincho, el pavo gigante o el pargo asado a la catalana, todo acompañado de plátano maduro frito, tostones rubicundos o yuca con mojo de ajos».
Sabe el escribidor que en la Cuba de hoy no todos comen siempre lo que quieren.  Pero está convencido de que no hay familia cubana que se acueste sin comer. Por modestos que sean sus recursos, siempre se reserva algo especial o al menos distinto para esa noche.
Decía uno de nuestros grandes costumbristas, que para el cubano promedio no es tan importante lo que llevó a la mesa en la Nochebuena, sino lo que sobró, a fin de poder comentar que hubo tanta comida que en su casa no se hizo necesario cocinar al día siguiente. En realidad, la cubana no suele meterse en la cocina el 25, que es el día de la llamada montería, esto es, de comer lo que quedó  de la noche anterior.
Se quiere un 25 lo más tranquilo posible, ideal para la visita, acabar la botella que quedó mediada de la noche  o para aliviar el ajetreo de jornadas anteriores. Aunque ha ganado espacio en los últimos años la cena del 31, se prefiere una comida ligera en casa para celebrar la fecha en grande en la calle y recibir el año y empezar un nuevo ciclo con el almuerzo del 1ro. de enero.
Tanta proeza metabólica deja, al que más y al que menos, con el aparato digestivo sobresaltado. Queda aún un día más, el de la llegada de los reyes magos, los tres sabios que aparecen en los Salmos y que, como una representación omnisciente de la humanidad toda, rindieron homenaje al niño de Belén.
Con ellos, se acaban las fiestas. Queda en un rincón, nadie sabe por cuántos días más, el arbolito ya oscuro y cada vez más empolvado. Si se montó con la ilusión de los días por venir, quitarlo se convierte en una tortura que se pospone una y otra vez hasta que alguien en la casa se llena de valor y lo desmonta para guardar con cuidado las bolas de colores y las luces que se utilizarán de nuevo al final de ese año.

El muñeco y la maleta

Hay en esto del fin de año costumbres que se mantienen y nuevos usos que pugnan por perpetuarse.
El escribidor, que está ya a las puertas de los 70 años, no recuerda haber visto nunca antes de 1959 salir a nadie, a las 12 de la noche del 31 de diciembre, con una maleta en la mano a fin de darle la vuelta a la manzana. Se trata de una costumbre que ahora se va extendiendo y los que la practican refieren que es la forma de asegurarse un viaje al exterior. O de propiciarlo. Tampoco vio el escribidor quemar un muñeco que simbolizara el año viejo, como se hace hoy en algunas localidades, con el pretexto de eliminar lo malo del período que termina. Un muñeco de trapo que conforman los más jóvenes de la zona y que, con nuevos añadidos,  va engrosando día a día hasta el final. En algunas ciudades, como Remedios, en la región central del país, el 24 de diciembre es la fecha de la celebración de sus célebres Parrandas. Los remedianos entonces cenan temprano para estar en la plaza central cuando se inicie una fiesta en que «carmelitas» y «sansaríes» discutirán el triunfo a cohetazo limpio.
Cuando yo era niño, el lechón, que era como le llamábamos, o, en su defecto, el pernilito, se asaba en la panadería. Llegado el 24, la familia sacaba del cuarto de los trastos la tártara o  plancha, guardada desde el año anterior, que el panadero metería en el horno y que, ya asado el animal o su pata, oficiaba como una especie de parihuela para trasladarlo a la casa. La cosa se ponía fea cuando el reloj empezaba a correr, llegaban las ocho o las nueve de la noche, la ansiedad comenzaba a hacer estragos y el lechón no regresaba de la panadería, aunque desde temprano en la mañana se había solicitado el servicio. Y es que debía esperar su turno.  De aquella época vienen a la memoria del escribidor los nombres de algunas panaderías, todas en el reparto Lawton: El Buen Gusto, en Concepción esquina a Armas; San Francisco, en la calle del  mismo nombre entre Delicias y Diez de Octubre;  La Princesa, en 16 esquina a Concepción y El Bombero, en Porvenir esquina a B, que es, creo, el único de estos cuatro establecimientos que permanece abierto.
Tanto si se asaba en la panadería o en la casa, el proceso tenía sus complejidades. Se mataba el animal el día antes y se recogía la sangre para las morcillas. Se le echaba  agua hirviendo, y se frotaba con un ladrillo para sacarle la piel y blanquearlo. Se afeitaba y enjuagaba.
Se abría y se extraían las vísceras. Se enjuagaba entonces por dentro y se colgaba para que escurriera. Se adobaba por la noche y al día siguiente se escurría ese adobo y se ponía el cerdo en la parrilla. Si se había decidido asarlo en la casa una opción era de la abrir en la tierra un hueco de medio metro cuadrado, abastecerlo de carbón o leña suficiente, y colocar la parrilla sobre cuatro estacas. El asado se alejaba de la candela a medida que el animal se cocinaba. Mientras el puerco se asaba, las vísceras fritas, que era  lo primero que se comía, acompañaban el ron o la cerveza. Todo eso era parte del folclor.

Aguinaldo

Se aproximaban las fiestas de fin de año y los recogedores de basura y los que barrían la calle tocaban a las puertas de las casas para felicitar a las familias. Las habían servido durante los meses precedentes  y con su saludo sugerían una pequeña recompensa, el llamado «aguinaldo». La sugería también el cartero, que dejaba, al igual que los otros, una pequeña tarjeta con un mensaje amable y esperanzador. Todo a cambio de la clásica peseta; los 20 centavos que era lo que por lo general se obsequiaba. Llegada la fecha, el bodeguero recompensaba a sus clientes: una lata de dulces en almíbar, un turrón o una botella de ron o de vino, una dádiva que estaba en proporción con el gasto en que el cliente hubiera incurrido durante el año y que aseguraba que el sujeto siguiera haciendo allí sus compras.
Entonces, todavía no éramos usuarios.
Todavía hasta los primeros años de la Revolución se anunciaba en la prensa el saludo del cuerpo diplomático acreditado al Presidente de la República y el coctel con que el mandatario correspondía al saludo  el día primero del año en el Salón de los Espejos de Palacio. El 31 de diciembre de 1966 se celebró el aniversario del triunfo de 1959 con una cena gigante en la Plaza de la Revolución, a la que asistieron los principales dirigentes y funcionarios del Estado.

El cubo

Una tradición que ha resistido todas las épocas es la del cubo. Cuando el reloj va a marcar las 12 del día 31, tiene ya el cubano preparado detrás de la puerta un cubo lleno de  agua que lanza a la calle con la duodécima campanada, con la esperanza de que se lleve todo lo malo y que, por bueno que fuera el año que se va, sea mejor el que llega.
Están las 12 uvas y la copa de champán o de sidra, una tradición que ha vuelto. Pero nunca antes que el cubo que se lanza a la calle con alegría y esperanza.
Hemos tenido fines de año mejores que otros. El 31 de diciembre de
1898 cesó en Cuba la soberanía española. La nueva situación provocó sentimientos encontrados en el cubano de a pie. Unos lloraban, otros reían, escribía el cronista Federico Villoch. Era una conmoción nerviosa difícil de contener. No se luchó durante tantos años para que al final fuera la bandera norteamericana la que tremolara en la Plaza de Armas y en el Morro. Pero la salida de España, luego de 400 años de dominación, ocasionaba alivio y alegría.
Sesenta y un  años después, el agua del  cubo del fin de año de 1958 arrastraba a Batista y a su camarilla. Y a todo un régimen social. Por primera vez en la historia la frase «Año nuevo; vida nueva» empezaba a ser una realidad para los cubanos.

Ciro Bianchi Ross


sabato 26 dicembre 2015

Viva, girato all'Avana precandidato all'Oscar

Ricevo su FB questo post della direttrice dei Casting dell'ICAIC, Libia Batista Mora, la segnalazione alla precandidatura all'Oscar del film "Viva", girato completamente all'Avana e interpretato da attori cubani nei ruoli principali.

Amigos nuestro filme VIVA quedo entre las 9 finalistas para los premios OSCAR, poner sus mente positiva para ver si en enero queda entre las 5 que competiran. Aunque para mi ya es un premio. Esta pelicula esta dirigida completamente en La Habana por el cineasta irlandes Paddy Breathnatch, protagonizada por los actores Hector Medina, Jorge Perugorria (Pichi) y Luis Alberto Garcia. Ya se estreno en Los Angeles, en La Habana, en el mes de febrero se pondra en Miami. Gracias

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venerdì 25 dicembre 2015

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lunedì 21 dicembre 2015

La Piazza e i suoi annessi, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 20/12/15


La Piazza Civica o della Repubblica, cominciò a chiamarsi in modo ufficiale Piazza della Rivoluzione José Martí, a partire del 16 luglio 1961.
A quel tempo questo spazio era circa quattro volte più piccolo di quello che si era previsto in origine e aveva percorso una strada piena di contrarietà e inconvenienti.
Lo storico Emilio Roig riferisce nel suo libro La Habana: apuntes historicos che nel 1905 l’ingegner Raúl Otero, nella sua tesi di laurea segnalò come centro della città futura una prominenza che si trovava non lontano dal Castillo del Príncipe e vicino alla calzada de Ayestarán.
In detta elevazione si ergeva allora la Ermita de Nuestra Señora de Monserrat, cappella dedicata al culto cattolico che per essere stata costruita dalla colonia catalana si conosceva popolarmente come la Ermita de los Catalanes.
Otero propose di creare lì una grande piazza nel cui centro si sarebbe eretto il Capitolio e dalla quale sarebbero partite, orientate coi quattro punti cardinali, larghe strade che l’avrebbero allacciata con i quartieri limitrofi.
Oltre dieci anni dopo di questa proposta, l’urbanista Camilo García de Castro risaltava l’importanza del luogo e nel 1922, l’ingegner Enrique J. Montelieu e l’architetto Pedro Martínez Inclàn riaffermavano il criterio di Otero e proponevano la creazione in questo luogo di un gran parco. Giunge al potere Gerardo Machado, si impegna a modernizzare l’Avana e con questo proposito porta, nel 1926, il gran urbanista francese J.C.N. Forestier che osservò da un aeroplano il territorio capitolino, fece gli studi e le misure pertinenti e con il concorso di ingegneri e architetti cubani – Raúl Otero fra di loro -, consegnò un progetto che prevedeva la Ermita dei Catalani come centro geometricvo della città.
La zona, raccomandava Forestier, doveva convertirsi in un centro civico a cui, per strade radiali e di circonvallazione, si poteva accedere da tutti i quartieri della capitale. Il progetto prevedeva la costruzione della Piazza Civica e di edifici pubblici. In realtà sarebbero state due piazze, una alta e l’altra bassa, nel centro della prima si sarebbe eretto un gran monumento a José Martí.
L’ingegner Otero, dirà poi che l’idea del monumento all’Apostolo dell’Indipendenza fu sua e non del francese.

Speculazione di terreni

A partire del 1935 cominciò a parlarsi della necessità di erigere a Martí un monumento degno della sua statura. In questa data, mediante un decreto del presidente Carlos Mendieta, si costituiva la commissione che avrebbe dato impulso all’opera e si destinava per questa un credito di mezzo milione di pesos. Il presidente Federico Laredo Brú, insistette nell’idea di costruire questo monumento e col consenso di Fulgencio Batista che come capo dell’Esercito era il padrone della nazione, si accordò di unirlo al progetto della piazza. Il monumento si sarebbe installato nello spazio occupato dall’Ermita de los Catalanes.
Quando, nel 1944, Batista cessò alla presidenza, non si era avanzato molto nel tema della piazza e nemmeno ci furono avanzamenti interessanti sotto il Governo di Ramón Grau San Martín (1944-1948). Con Carlos Prío (1948-1952) si riattivarono i progetti, ma il risultato non fu felice.
L’altezza della collina si ridusse notevolmente quando si demolì o spostò l’Ermita de los Catalanes e si realizzarono i lavori di livellamento. Con tutto ciò, questo non fu il peggio. Nel 1926, Forestier e i suoi collaboratori, assegnarono alla piazza un’area di 2.305.000 metri quadrati. Nel 1941, un altro progetto le assegnò un’area di 2.023.000 metri quadrati. Nel 1942, decreto di Batista la ridusse a 1.049.841 metri quadrati. Nel 1951, Prio la riduceva a 850.000 metri quadrati.
Si addussero ragioni di economia. Guarda caso , il bilancio della nazione era di 232 milioni di pesos – davanti agli 89 milioni del 1942 – e il bilancio del 1950 aveva lasciato un attivo di 60 milioni. Per la verità e così si denunciò, figure del Governo e del Potere Giudiziario fecero una speculazione scandalosa con i terreni che si espropriarono per la piazza.

Edifici

Nel concorso decisivo per scegliere il monumento a Martí, venne premiato iol progetto dell’architetto Aquiles Maza e lo scultore Juan José Sicre che non giunse ad essere eseguito.
Questo progetto prevedeva che attorno al monumento a Martí si erigessero vari edifici più o meno simili nel loro aspetto esteriore e che avrebbero ospitato le istituzioni ufficiali.
Questi immobili avrebbero scortato il monumento; sarebbero stati, si diceva, una guardi d’onore permanente.
Non si rispettò questo progetto e in terreni molto vicini al luogo dove si sarebbe posto il monumento a Martí, si dette inizio a edifici che per il loro stile, forma e dimensioni avrebbero contrastato col monumento rompendo la prospettiva della piazza.
Il Governo di Prío assicurò che verbbe tenuta pronta la Piazza (senza monumento a Martí) il 20 maggio del 1952, in occasione del Cinquantenario della Repubblica, maa il 10 marzo di quell’anno, Prío non era già più il Presidente.
Promesse a parte, il primo edificio che si inaugurò nella zona (1954) fu la Corte dei Conti Oggi Ministero degli Interni). Era una specie di organismo di controllo dei fondi e bilanci della Repubblica, creato dal presidente Prío in risposta alle esigenze dela Costituzione del 1940.
Si tratta di un edificio modernissimo, i cui nove piani esibiscono una gra mole di cristalli. È opera dell’architetto Aquiles Capablanca con la collaborazione di Henry Griffing e Germán Hevia e nell’anno della sua inaugurazione meritò la Medaglia d’Oro del  Collegio degli Architetti. Dopo la vittoria della Rivoluzione ospitò il recentemente creato Ministero dell’Industria e gli si aggiunse un annesso quasi uguale al corpo originale. Lì si conservano gli uffici del Comandante Ernesto Che Guevara, Ministro dell’Industria del Governo Rivoluzionario.
Tre anni dopo si inaugurava il cosiddetto Palazzo delle Comunicazioni (oggi Ministero), opera dell’architetto Ernesto Gómez Sampera, lo stesso dell’edificio Focsa.
Comunicazioni, è un edificio monoblocco che occupa un’area di 22.000 metri quadrati e consta di due corpi, uno di dieci piani e l’altro di uno, con sotterranei molto estesi.
Rappresentò un investimento di di due miloni e mezzo di pesos.
Anche del 1957 è il Palazzo di Giustizia (attuale Palazzo della Rivoluzione). L’architetto Pérez Benitoa lo progettò nel 1943, ma non fu che fino a una decade successiva quando la ditta Max Borges e figli cominciò a costruirlo. Ha una superficie coperta di 72.000 metri quadrati e occupa una perimetro di un kilometro quadrato. La facciata ha un’estensione di 350 metri e la sua scalinata di marmo, di 60 metri di larghezza, triplica quella dell’Università. È costata cinque milioni di pesos e si è costruita per ospitare, nel corpo centrale di nove piani, il Tribunale Supremo, la Procura Generale l’Auditoria e la sua procura nel corpo di destra; sette piani e nei sette piani del corpo di sinistra, i processi municipali di prima istanza e di istruzione, così come il Tribunale Superiore Elettorale. Tra il 1964 e ’65 l’architetto Antonio Quintana Simonetti fece grandi trasformazioni all’edificio per adattarlo a Palazzo della Rivoluzione.

La lotteria e il teatro

La prima pietra dell’edificio della Biblioteca Nazionale si collocò nel 1952, ma l’immobile opera degli architetti Govantes e Cabarrocas, si inaugurò nel febbraio 1958. Ha dietro di sé una storia curiosa.
Quando cominciò a costruirsi, senza nessuna visione urbanistica, questo edificio così vicino al monumento a Martí, gli chiudeva la prospettiva.
Quando si erani già investiti oltre cento mila pesos, l’opera dovette essere paralizzata per reiniziarla nel suo sito attuale.
Il Ministero dell’Economia occupa l’edificio che si era destinato originariamente ai Redditi della Lotteria. La Rivoluzione lo convertì nella sede dell’Istituto Nazionale del Risparmio e Case, presieduto da Pastorita Nuñez che in solo due anni edificò e consegnò “chiavi in mano” 8.500 abitazioni. Separat dalla piazza, sul lato sud della collina del Principe, il Ministero delle Opere Pubbliche (della Costruzione) occupò quella che sarebbe stata la sede del Banco de Fomento Agricola e Industrial de Cuba (Banfaic) che si terminò di edificare nel settembre del 1959. Il Teatro Nacional, opera dell’architetto Nicolás Arroyo, tardò molto di più ad essere terminato.
Cominciò a costruirsi negli anni ’50 e si concluse alla vigilia delle celebrazioni, all’Avana, del Vertice dei Paesi non Allineati, nel 1979.
Una delle edificazioni di maggior altezza della città, è l’edificio del Ministero delle Forze Armate. Ha 24 piani e misura 94 metri dalla base. Sarebbe stata destinata a Municipio dell’Avana. La vittoria della Rivoluzione cambiò la sua destinazione. Gli si dette il nome di Sierra Maestra e vi si installarono gli uffici dell’Istituto Nazionale per la Riforma Agraria, presieduto da Fidel.

Strade

Fino al 1946, Boyeros arrivava fino alla Calzada del Cerro e Paseo fino a Zapata. Fu quest’anno quando si tracciò l’avenida 20 di Maggio per facilitare l’accesso allo stadio del Cerro e a questo quartiere popolato.
In questa stessa epoca, l’avenida 26 si estese fino a Boyeros, dove incrociò anche la via Blanca. Nel 1950, Santa Catalina si prolungò da Boyeros fino a oltre la calzada di 10 de Octubre e l’avenida Acosta uscì da Dolores fino a connettersi con San Miguel e Camagüey per arrivare a Boyeros. Da Boyeros uscì Vento costeggiando il canale di Albear fino a Santa Catalina. Il Terminal degli Omnibus prestò servizio dal 1952.

E il monumento?

Nel concorso definitivo per selezionare il progetto del monumento a Martí (quarto e ultimo concorso, 1943) risultò premiato, come si disse sopra, quello dell’architetto Aquiles Maza e lo scultore Juan José Sicre.
Al secondo posto venne selezionato quello degli architetti Govantes e Cabarrocas. Il terzo posto lo occupò quello degli architetti e ingegneri Varela, Labatut, Raúl Otero, Manuel Tapia Ruano e lo scultore Alexander Sambugnac.
Siccome il monumento che si sarebbe elevato era quello di Maza-Sicre, si suggerì che il progetto di Govantes-Cabarrocas si erigesse come Biblioteca Nazionale e quello di Varela si adattasse per il monumento a Carlos Manuel de Céspedes.
Ma, nel 1952, si decise di erigere quello di Varela, ministro delle Opere Pubbliche dell’allora dittatore Batista. Questo motivò la protesta del Collegio degli Architetti che reclamò in quanto quello scelto per essere eretto doveva essere quello di Maza-Sicre. Ma Sicre accettò di scolpire la statua seduta dell’Apostolo che si aggiunse al progetto di Varela che originalmente non l’aveva e che oggi è quella che c’è nella Piazza. Da parte sua, la Giunta dei Patroni della Biblioteca Nazionale decise di portare alla realizzazione, con fondi propri, il progetto Govantes-Cabarrocas, al fine di installarla nella Biblioteca.

Paradossalmente, l’unico monumento che non si costruí fu quello del progetto che venne premiato nel concorso.

La Plaza y sus lugares
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
19 de Diciembre del 2015 22:04:42 CDT

La Plaza Cívica o de la República comenzó a llamarse de manera oficial Plaza de la Revolución José Martí a partir del 16 de julio de 1961.
Para entonces, dicho espacio era unas cuatro veces menor de lo que se planteó en sus orígenes y había recorrido un camino lleno de contrariedades e  inconvenientes.
Refiere el historiador Emilio Roig en su libro La Habana: apuntes históricos, que en 1905 el ingeniero Raúl Otero en su tesis de grado señaló como centro de la ciudad futura una eminencia que se localizaba no lejos del Castillo del Príncipe y cerca de la Calzada de Ayestarán.
En dicha elevación se alzaba entonces la Ermita de Nuestra Señora de Montserrat, capilla dedicada al culto católico y que por haber sido construida por la colonia catalana se le conocía popularmente como Ermita de los Catalanes.
Otero propuso crear allí una gran plaza en cuyo centro se erigiría el Capitolio y de la que partirían, orientadas hacia los cuatro puntos cardinales, sendas avenidas que la enlazarían con los barrios colindantes.
Más de una década después de esa propuesta, el urbanista Camilo García de Castro resaltaba  la importancia del lugar, y en 1922 el ingeniero Enrique J. Montoulieu y el arquitecto Pedro Martínez Inclán reafirmaban el criterio de Otero y proponían la creación en ese sitio de un gran parque. Llega Gerardo Machado al poder, se empeña en modernizar La Habana y, con ese propósito, trae en 1926  al gran urbanista francés J. C. N. Forestier, quien observó desde un aeroplano el territorio capitalino, hizo los estudios y las mediciones pertinentes y, con el concurso de arquitectos e ingenieros cubanos —Raúl Otero, entre ellos—, entregó un proyecto que situaba a la Ermita de los Catalanes como centro geométrico de la ciudad.
La zona, recomendaba Forestier, debía convertirse en un centro cívico al que por avenidas radiales y de circunvalación podría accederse desde todos los barrios de la capital. El plan contemplaba la construcción de la Plaza Cívica y de edificios públicos. Serían en verdad dos plazas, una alta y otra baja, y en el centro de la primera se erigiría un gran monumento a José Martí.
El ingeniero Otero diría después que la idea del monumento al Apóstol de la Independencia fue suya y no del francés.

Especulación de terrenos

A partir de 1935 comenzó a hablarse de la necesidad de erigir a Martí un monumento digno de su estatura. En esa fecha, mediante un decreto del presidente Carlos Mendieta se constituía la comisión que impulsaría la obra y se destinaba para ella un crédito de medio millón de pesos. El presidente Federico Laredo Brú insistió en la idea de construir ese monumento y con el consentimiento de Fulgencio Batista que, como jefe del Ejército, era el amo de la nación, se acordó fusionarlo con el proyecto de la plaza. El monumento se emplazaría en el sitio ocupado por la Ermita de los Catalanes.
Entre 1938 y 1942 se libraron varias convocatorias a concurso para la elección del monumento, y el ya presidente Batista, en aras de la utilidad pública del proyecto, dispuso  mediante decretos la expropiación de terrenos colindantes que se hallaban en manos de particulares.
Cuando en 1944 Batista cesó en la     presidencia no se había avanzado
mucho en el tema de la plaza, y tampoco hubo avances de interés bajo el Gobierno de Ramón Grau San Martín (1944-1948). Con Carlos Prío
(1948-l952) se reactivaron los proyectos, pero el resultado no fue feliz.
La altura de la colina se redujo notablemente cuando se demolió o desplazó la Ermita de los Catalanes y se realizaron las tareas de nivelación. Con todo, eso no fue lo peor.
En 1926, Forestier y sus colaboradores asignaron a la plaza un área de
2 305 000 metros cuadrados. En 1941, otro proyecto le asignó un área de 2 023 000 metros cuadrados. En 1942, un decreto de Batista la redujo a 1 049 841 metros cuadrados. En 1951, Prío la reducía a 580 000 metros cuadrados.
Se adujo razones de economía. Sin embargo, el presupuesto de la nación en 1951 era de 232 millones de pesos  —frente a los 89 millones de 1942— y el presupuesto de 1950 había dejado un superávit de 60 millones. En verdad, y así se denunció, figuras del Gobierno y del Poder Judicial acometieron una especulación escandalosa con los terrenos que se expropiaron para la plaza.

Edificios

En el concurso definitivo para seleccionar el monumento a Martí fue premiado el proyecto del arquitecto Aquiles Maza y el escultor Juan José Sicre, el que no llegó a ejecutarse.
Ese proyecto contemplaba que en torno al monumento a Martí se erigiesen varios edificios, más o menos similares en su aspecto exterior y que albergarían a las instituciones oficiales. Esos inmuebles escoltarían al monumento; serían, se dijo, una guardia de honor permanente.
No se respetó ese proyecto y en terrenos muy próximos al lugar donde se ubicaría el monumento a Martí, se acometió la construcción de edificios que por su estilo, forma y dimensiones contrastarían con el monumento y romperían la perspectiva de la plaza.
El Gobierno de Prío aseguró que tendría lista la Plaza (sin el monumento a Martí) el 20 de mayo de 1952, en ocasión del Cincuentenario de la República. Pero el 10 de marzo de ese año, Prío no era ya el Presidente.
Promesas aparte, el primer edificio que se inauguró en la zona (1954) fue el del Tribunal de Cuentas (ahora, Ministerio del Interior). Era una especie de organismo auditor de los fondos y presupuestos de la República creado por el presidente Prío en respuesta a una exigencia de la Constitución de 1940.
Se trata de un edificio modernísimo, cuyos nueve pisos remedan una mole de cristal. Es obra del arquitecto Aquiles Capablanca con la colaboración de Henry Griffing y Germán Hevia, y mereció en el año de su inauguración, la Medalla de Oro del Colegio de Arquitectos. Tras el triunfo de la Revolución albergó el recién creado Ministerio de Industrias y se le agregó un anexo casi igual al cuerpo original. Allí se conservan las oficinas del Comandante Ernesto Che Guevara, ministro de Industrias del Gobierno Revolucionario.
Tres años después se inauguraba el llamado Palacio de las Comunicaciones (hoy, Ministerio), obra del arquitecto Ernesto Gómez Sampera, el mismo del edificio Focsa. Comunicaciones es un edificio monobloque que ocupa un área de 22 000 metros cuadrados y consta de dos cuerpos, uno de diez pisos y otro, de uno, con sótanos muy extendidos. Representó una inversión de dos millones y medio de pesos.
También de 1957 es el Palacio de Justicia (actual Palacio de la Revolución). El arquitecto Pérez Benitoa lo proyectó en 1943, pero no fue hasta una década después que la firma de Max Borges e hijos comenzó a ejecutarlo. Tiene una superficie de fabricación de 72 000 metros cuadrados y ocupa un perímetro de un kilómetro cuadrado. La fachada tiene una extensión de 350 metros y su escalinata, de mármol, de 60 metros de ancho, triplica la de la Universidad. Costó cinco millones de pesos y se construyó para albergar, en el cuerpo central de nueve pisos, el Tribunal Supremo y la Fiscalía General; la Audiencia y su fiscalía en el cuerpo de la derecha; siete pisos, y en los siete pisos del cuerpo de la izquierda, los juzgados municipales, de primera instancia y de instrucción, así como el Tribunal Superior Electoral. Entre 1964 y 1965 el arquitecto Antonio Quintana Simonetti hizo grandes transformaciones al edificio para adaptarlo a Palacio de la Revolución.

La lotería y el teatro

La primera piedra del edificio de la Biblioteca Nacional se colocó en 1952, pero el inmueble, obra de los arquitectos Govantes y Cabarrocas, se inauguró en febrero de 1958. Tiene detrás una historia curiosa.
Cuando comenzó a construirse, sin visión urbanística alguna, este edificio tan cerca del monumento a Martí, le cerraba la perspectiva.
Cuando ya se habían invertido más de cien mil pesos, la obra debió ser paralizada para reiniciarla en su emplazamiento actual.
El Ministerio de Economía ocupa el edificio que se destinó originalmente a Renta de Lotería. La Revolución lo convirtió en la sede del Instituto Nacional de Ahorro y Vivienda, presidido por Pastorita Núñez, que en solo dos años edificó y entregó «llave en mano» 8 500 viviendas. Apartado de la plaza, al lado sur de la loma del Príncipe, el Ministerio de Obras Públicas (de la Construcción) ocupó la que hubiera sido la sede del Banco de Fomento Agrícola e Industrial de Cuba (Banfaic) que se terminó de edificar en septiembre de 1959. El Teatro Nacional, obra del arquitecto Nicolás Arroyo, demoró mucho más en terminarse. Comenzó a construirse en los años 50 y se concluyó en vísperas de la celebración en La Habana de la Cumbre de los Países No Alineados, en 1979.
Una de las edificaciones de mayor altura en la ciudad es el edificio del Ministerio de las Fuerzas Armadas. Tiene 24 pisos y mide 94 metros desde los cimientos. Se destinaría a Alcaldía de La Habana. El triunfo de la Revolución cambió su destino. Se le dio el nombre de Sierra Maestra y allí se instalaron las oficinas del Instituto Nacional de la Reforma Agraria presidido por Fidel.

Calles

Hasta 1946, Boyeros llegaba hasta la calzada del Cerro y Paseo hasta Zapata. Fue en ese año cuando se trazó la avenida de 20 de Mayo para facilitar el acceso al Estadio del Cerro y a esa populosa barriada.
Por esa misma época, la avenida 26 se extendió hasta Boyeros, donde también entroncó la Vía Blanca. En 1950 Santa Catalina se prolongó desde Boyeros hasta más allá de la calzada del 10 de Octubre, y la Avenida de Acosta salió de Dolores hasta conectarse con San Miguel y Camagüey para llegar a Boyeros. De Boyeros salió Vento y bordeó el Canal de Albear hasta Santa Catalina. La Terminal de Ómnibus prestó servicios desde 1952.

¿Y el monumento?

En el concurso definitivo para seleccionar el proyecto del monumento a Martí (cuarto y último concurso, 1943) resultó premiado, como se dijo antes, el del arquitecto Aquiles Maza y el escultor Juan José Sicre.
En segundo lugar, resultó seleccionado el de los arquitectos Govantes y Cabarrocas. Ocupó el tercer lugar el de los arquitectos e ingenieros  Varela, Labatut, Raúl Otero, Manuel Tapia Ruano y el escultor Alexander Sambugnac.
Como el monumento que se acometería era el de Maza-Sicre, se sugirió que el proyecto de Govantes-Cabarrocas se erigiese como Biblioteca Nacional, y el de Varela se adaptase para monumento a Carlos Manuel de Céspedes.
Pero en 1952, se decidió que se erigiera el de Varela, ministro de Obras Públicas del entonces dictador Batista. Esto motivó la protesta del Colegio de Arquitectos, que reclamó que el escogido para erigirse era el de Maza-Sicre. Pero Sicre aceptó esculpir la estatua sedente del Apóstol que se adicionó al proyecto de Varela y que originalmente no tenía, y que es la que está hoy en la Plaza. Por su parte, la Junta de Patronos de la Biblioteca Nacional decidió llevar a la realidad, con fondos propios, el proyecto Govantes-Cabarrocas, a fin de instalar la Biblioteca.
Paradójicamente, el único monumento que no se construyó fue el del proyecto que resultó premiado en el concurso.

Ciro Bianchi Ross


domenica 20 dicembre 2015

Tomás Milián, un anno dopo il ritorno

Un anno dopo averlo riportato a Cuba dopo circa un sessantennio di assenza dal suo Paese natale, l’architetto Marini vice presidente della IXCO e produttore del film “The cuban Hamlet”, è andato a trovare Tomás Milián nella sua casa di Miami Beach. Una breve visita, ma sufficiente per portare alcune fotografie dell’attore nella sua casa dove, fra i molti ricordi campeggia solo un unico manifesto dei film interpretati da Tomás: quello di “Tepepa”, forse il personaggio in cui si identifica di più, dopo Nico Giraldi? Fra le foto dei muri che rappresentano un hobby di Milián e altri oggetti artistici campeggia, in camera da letto una statuina fatta da lui stesso a cui ha dato il nome, con un gesto tipico della religione cubana ove si mischia il sacro col profano, di “Nuestra Señora de la Basura”, ovvero Nostra Signora della Monnezza, a ricordo perenne del personaggio che si era inventato e lo ha reso popolarissimo, dopo una carriera "impegnata", dandogli anche un supporto economico da non disprezzare.
Tomás ha ribadito di aver compiuto un gesto liberatorio dai fantasmi di un passato anche tragico e dichiarato di non escludere di tornare all’Avana, magari senza impegni di lavoro.

Ringrazio, l’amico Marco per la gentile concessione delle foto e il permesso di pubblicarle.





sabato 19 dicembre 2015

Presentata la storia dell'automobile a Cuba



Presentato dal dottor Claudio Izquierdo, sociologo, scrittore e regista, il libro “Historia y pasión del automóvil en Cuba”, di Marcelo Israel Gorajuría Marichal, naturalmente giunto a bordo di auto d’epoca, pluripremiata. Per la precisione una Ford modello A del 1930.
Un libro ricco di testo, documenti, statistiche e sopratutto di immagini che fanno rivivere la storia dell’automobilismo cubano, sportivo e non, fin dall’arrivo della prima quattroruote nel 1898, proveniente dalla Francia e di marca rimasta sconosciuta: La Parisienne. Probabilmente un prodotto artigianale.
Nella raccolta di dati e documentazione non potevano mancare  le citazioni dei Gran Premi dell’Avana del 1957 e 1958 nel quale il pilota argentino pluricampione del mondo con Maserati e Ferrari, Juan Manuel Fangio, fu il grande assente in quanto venne rapito da giovani rivoluzionari ai quali è poi rimasto legato da amicizia, poche ore prima dell’inizio della gara. Non manca nemmeno il Gran Premio dell Stelle del 1997, organizzato grazie all’impulso organizzativo del comune amico Sergio Terni, all’epoca presidente e fondatore della TES (Turismo Specializzato a Cuba), nel quale hanno partecipato diversi campioni del Mondo di Formula 1 che si sono cimentati, per l’occasione in una gara di karting. 
La storia, non conlusa, racconta poi della fondazione del club di auto d'epoca "A lo cubano", di cui l'autore del libro è stato uno degli artefici e i flash sulle recenti visite di Stirlig Moss e Jean Todd.
Ho visto crescere questo libro fin dalla sua gestazione la passione e la dedizione posta nel lavoro, lungo e meticoloso dal suo autore a cui mi lega un’amicizia quasi quarantennale. L’edizione, peraltro molto curata, viene un po’ penalizzata dalla mancata pubblicazione in colore di molte immagini che lo sono nell’originale, specie le più recenti e le riproduzioni dei marchi dei fabbricanti.

Vadano i complimenti e gli auguri all’autore per questo suo terzo volume che, per il sottoscritto, è indubbiamente superiore agli altri due e che merita di trovare edizioni, magari tradotte in atre lingue per altri Paesi, dove gli si possa dare una veste editoriale ancora più ricca e completa. 



MSC Opera inizia la stagione invernale 2015/16 ai Caraibi





Con un arrivo a sorpresa, anticipato di cinque ore sull’orario previsto, è arrivata nel porto dell’Avana la nave da crociera MSC Opera che è la più grande che sia giunta nella baia di Carenas. Il primato precedente forse fu nel 1983, anno in cui attraccò la Eugenio C. A differenza di questa che fu di passaggio nel suo giro del mondo, la Opera si ferma per tutta la stagione invernale iniziando il 22 con le crociere a base settimanale che partono dal porto avanero e toccando la Giamaica, le isole Cayman e lo Yucatan, vi fanno ritorno fino al 12 aprile quando la nave tornerà in Europa con una maxi crociera che toccherà: Giamaica, Antille Olandesi, Aruba e Barbados per poi traversare l’Atlantico giungendo in Spagna, Portogallo, Francia, Inghilterra, Danimarca, per finire Warnemunde (Germania) dopo ben 26 giorni e 25 notti di viaggio.