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lunedì 24 marzo 2014

Cedulones (Avvisi murali), di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 23/4/14

Uno dei gravissimi problemi che danneggiano l’immagine dei caffè e cantine cubani è quello del riempimento, scriveva Hilario Alonso Sánchez nel suo libro “L’arte del cantiniere o i vini e i liquori". Succede così, diceva, perché in questi esercizi non esiste quello che si chiama etica e onestà commerciale.
“Il riempimento consiste nel versare nelle bottiglie vuote, di vini o liquori di marche conosciute, altri liquidi di classe inferiore e che non hanno sbocco nel mercato per la loro poca qualità. Da questo riempimento non si salvano i grandi vini – eccetto quelli da tavola sigillati – i brandy spagnoli o il cognac francese, i whisky scozzesi o americani, i gin olandesi o inglesi, le creme di liquore. Niente, non si salva niente di ciò. “Perfino i rum cubani di marche conosciute e di qualità sono sostituiti da riempimenti di qualità inferiore.”
Lo affermava l’autore nel suo libro che aveva dedicato al Club dei Cantinieri di Cuba con l’intenzione di contribuire agli sforzi che svolgeva detto ente per il miglioramento professionale del settore, visto che non erano pochi i bar e cantine dell’Avana che ricorrevano a questa pratica, che non vacillò a definire immorale. Diceva che del paio di migliaia di bar e cantine conosciuti all’Avana, solo una ventina di loro non ricorrevano al riempimento ed erano quelli che offrivano i loro servizi a prezzi più elevati. “Il resto delle case riempiono, tutte senza eccezione, avvelenando corpi e anime e derubando spietatamente”.
“E questo, del riempimento, non è niente di nuovo; è vecchissimo, sono molti anni che lo sanno tutti i cittadini. Sia consumatori che non consumatori”, assicurava Hilario Alonso Sánchez nel 1948, che è l’anno della pubblicazione del suo utilissimo libro sui vini e i liquori.
Quanto vecchio? L’autore non precisa date, lo scriba in cambio, ha trovato un dato interessante. L’8 aprile del 1551 – si noti e annoti: 1551 – il Municipio avanero disponeva che le taverne non avessero più di una cisterna di vino e che questo vino "dev’essere tanto puro come l’uva stessa". Vale a dire, il riempimento, più che vecchio come dice Sánchez, è un procedimento che sembra essere sempre esistito.
Già che di liquori e bevande stiamo parlando, lo scriba fa un salto nel tempo e riproduce un’informazione che crede di aver preso da un libro di Leonardo Acosta, Premio Nazionale di Letteratura. Acosta dice che quando ci fu l’offensiva rivoluzionaria (13 marzo 1968), vennero espropriati 955 bar all’Avana e 1377 in Oriente. Nella capitale, inoltre, vennero espropriate 1578 botteghe di cui molte avevano la cantina. Nessuno, allora, poté spiegare da dove, questi locali facevano uscire i liquori che vendevano ai loro clienti, dato che l’azienda di produzione era da più di quattro mesi che non faceva consegne.

Serenata per il barbiere e chirurgo

Sempre del 1551, ma del 27 di febbraio, è la disposizione del Municipio che fissa, dopo lunga discussione, i prezzi al dettaglio per una serie di generi di largo consumo.
Quella che forse è, nel suo genere, la lista cubana più antica, comprende il pane, l’uovo, la lattuga, la rapa e il cavolo, fra altri generi commestibili come il casabe (focaccia di mais, n.d.t.) che si smercerebbe a due pesos d’oro per carico, mentre che la libbra di pane si offrirebbe a quattro quarti, lo stesso che una buona lattuga; la rapa – due unità – e il cavolo a 5 centesimi e a 20 la mezza dozzina di uova. Non sarà fino al 1557 quando si dispose il prezzo per le scarpe. Più o meno nello stesso periodo si stabilì il prezzo delle salsicce: un metro circa per un real.
Siccome allora non esistevano giornali, le notizie e i fatti d’interesse si scrivevano a mano su una superficie adeguata e si appendevano ai muri. Questi avvisi venivano chiamati “cedulones”. Il 20 agosto dello stasso anno 1557, il municipio dispose come misura da adottare, che ci fosse in città un tamburo o suonatore di questi che suonasse a tutto spiano, nelle strade, ogni volta che entrasse una nave in porto. Il primo tamburo fu quello del flamenco Juan de Emberas, con un salario annuale di 36 ducati, mentre che 60 anni dopo, dopo una lunga e patetica discussione, si accordava di concedere 100 ducati al diplomato Juan de Tejeda Peña al fine che, per il periodo di un anno, restasse come medico all’avana. Non ce n’era un altro.
Molto prima, il 1° luglio del 1552, si ricevette Juan Gómez come barbiere e chirurgo. Il popolo, gaudente, lo salutò con una serenata nella quale intervennero i tre unici musicisti che c’erano allora all’Avana, con il relativo tamburo.
Allora, era qualcosa di straordinario contare con un barbiere, tanto che il Municipio decise di essere il protettore di Gómez, disponendo che mentre rimaneva qua, nessuno poteva esercitare questa pratica, pena una multa di due pesos d’oro all’infrattore.
Nella disposizione del Municipio del 26 febbraio del 1569, si detta facoltà al diplomato Gamarra ad essere l’unico possessore di farmacia, obbligando i cittadini a che non si curassero con altra persona al di fuori di lui.

Calzoni e spada alla cintura

Gli uomini portavano i calzoni corti ed era obbligatorio portare la spada alla cintura, le signore usavano scialli e “mantillas”. Gli abiti sia da uomo che da donna erano carissimi.
L’arredamento era molto rudimentale; abbondava quello che venne chiamato per secoli sgabello di cuoio. I mobili consistevano in panche e sedie di cedro o di caoba, senza schienale. Il letto era uno scheletro con quattro gambe ricoperto da una tela o pelle grezza. Era il letto della gente povera. La gente benestante spediva in Castiglia l’ebano e il granadillo, legname pregiato abbondante qua e ricevevano di ritorno ricchi talami con letti imperiali. In ogni sala c’era un quadro di devozione al quale, la sera, si accendevano le luci per le preghiere. Le famiglie si illuminavano con candele di sego. I ricchi usavano grandi lumi di cera portati da Siviglia e alimentavano le lampade con olio d’oliva.
Attorno al 1560 solo due commercianti avaneri pagavano le loro imposte e contributi al Municipio ed era molto difficile trovare quello che allora si chiamava “lavoro manuale” – sarti, falegnami, calzolai, ecc. – quelli che lo facevano, chiedevano in cambio cifre proibitive.
L’urbanizzazione dell’Avana agli inizi del XVII secolo era molto povera. Dalla Plaza de Armas partivano due strade ben allineate, quella di Oficos e quella di Mercaderes, entrambe sbucavano in quella che si chiamò la Plaza Vieja e in questo punto, con direzione ovest, si tracciò la calle Real (Muralla) che dava uscita alla campagna lungo la Calzada di San Luis Gonzaga (Reina) che conduceva a una fattoria chiamata San Antonio il Piccolo, dove si costruì in seguito uno zuccherificio che esisteva nel 1762, quando ci fu la presa dell’Avana da parte degli inglesi.
A continuazione di Mercaderes si tracciò un’altra strada quella di Redes (Inquisidor) che conduceva al quartiere di Campeche, dove organizzarono le loro case i messicani naufraghi della spedizione in Florida con Tristàn de Luna al tempo di Mazariegos.
Parallela alla calle Real, ce n’era una che si chiamava dell’Immondezzaio (Teniente Rey) perché conduceva alla discarica della città. Nella stessa direzione, partendo dalla Plaza de Armas, andava la calle di Sumidero (O’ Reilly), nome che si prese dal Secondo Capo che venne con il Conte de Ricla alla restaurazione spagnola dopo l’effimera dominazione inglese. Partivano da O’ Reilly, in direzione della bocca del Porto, quelle che si chiamarono Habana e Cuba che attraverso i secoli hanno conservato i loro nomi originali.
In queste strade, le case ubbidivano a una allineazione equidistante. Nel resto della città si costruiva a casaccio, vale a dire che ognuno edificava la sua casa dove lo riteneva conveniente. Tutte le costruzioni erano di guano (tipo di frasca, n.d.t.) e legno ed erano recintate o difese ai quattro lati da spuntoni. Il pavimento delle case era rustico e quando pioveva era intransitabile.
Le zanzare erano insopportabili, specialmente per gli equipaggi della flotta. C’era una quantità di granchi, in tutto il litorale,sopratutto nelle vicinanze della Punta e dell’insenatura di San Lázaro che di notte, quando si avvicinavano alla ricerca di immondizia lasciata dalla spazzatura domestica, emettevano tanto rumore che spesso li si scambiava per gli invasori inglesi.
La città si riforniva d’acqua dal fiume Casiguagua (Chorrera), portata tramite un fossato, al quale dette il dislivello necessario l’ingegnere italiano Antonelli che venne con Tejada per la costruzione del Morro, il quale fossato arrivava fino al Callejón del Chorro, vicino all’attuale Piazza della Cattedrale. L’acqua ristagnava in questo luogo che per la circostanza prese il nome di Piazza della Palude. Non si era ancora pensato di costruirvi la cattedrale.

Via Crucis

Nella metà del XVII secolo, i francescani, stabiliti dal 1591 nel loro convento concepirono il piano di condurre fino alla chiesa dell’Humilladero (poi El Cristo), nel pomeriggio del Venerdì Santo, la processione chiamata della Passione o della Via Crucis e scelsero per farlo la calle di San Francisco, parallela a quella del Basurero (Teniente Rey), che più tardi si chiamò Amargura.
All’angolo di Aguiar e Amargura si era stabilita la Cappella del Terzo Ordine Di San Agustin. La processione si fermava in questo luogo e si facevano altre soste in diversi luoghi di questa strada al fine di mettere in scena le stazioni della Passione. Una delle più notevoli era quella di Miguel de Castro Palomino y Borroto che, di fronte a casa sua, vicina alla calle Del Hoyo de la Artemisa (attuale Villegas), aveva collocato un’urna di grandi dimensioni che racchiudeva un’immagine di Gesù crocefisso e vi installò, sotto, un altare con due candelabri d’argento e altri ornamenti. Nel passare per di lì, la processione si fermava e si cantava qualcosa con relazione con la dodicesima stazione, Gesù muore sulla croce. Al suolo si collocava sempre un grande tappeto sul quale il sacerdote officiava.
L’angolo di Amargura e Aguacate si conosceva col nome de Le donne pietose, perché vi risiedevano le beate Josefa e Petrona Urrutia che al passaggio della processione, festeggiavano l’episodio della Passione nel quale le donne di Gerusalemme escono all’incontro di Cristo. In questo angolo si eresse una croce di grande misura.
Questa processione costituì, durante molti anni, uno dei più solenni spettacoli popolari dell’Avana, al quale partecipavano le principali famiglie e le autorità ecclesiastiche, civili e militari dell’Isola, presiedute dal Governatore e dal Capitano Generale.
Si celebrò per l’ultima volta nel 1807, ebbene questo atto degenerò poco a poco in qualcosa di grottesco e poco degno del progresso dell’Avana. A partire da questa data sparirono le numerose croci collocate lungo le strade per celebrare le stazioni, resistette al colpo di piccone solo quella che si trova all’angolo di Mercaderes, addossata a un vecchio edificio nel quale rimase per molto tempo il magazzino di carta di Barandiarán e C.ia. – oggi casa del Chocolate – che prese il nome della Croce Verde che vi esiste dall’inizio del XVII secolo.
(Con informazioni di Luís Bay e Emilio Roig)

Cedulones

Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
22 de Marzo del 2014 20:44:55 CDT

Uno de los gravísimos problemas que dañan la imagen de cafés y
cantinas cubanos es el del relleno, escribía Hilario Alonso Sánchez en
su libro El arte del cantinero o Los vinos y los licores. Sucede así,
decía, porque no existe en esos establecimientos lo que se llama ética
y probidad comercial.
<>.
Afirmaba el autor en su libro, que dedicó al Club de Cantineros de
Cuba en el intento de contribuir a los esfuerzos que acometía dicha
entidad por la superación profesional del sector, que son pocos los
bares y cantinas de La Habana que no recurren a esa práctica, la cual
no vaciló en calificar de inmoral. De los millares de bares y cantinas
que conocemos en La Habana, decía, solo en una veintena de ellos no se
recurre al relleno y son las que ofertan su servicio a precios
elevados. <>, aseveraba Hilario Alonso Sánchez en 1948, que es el
año en que publica su utilísimo libro sobre vinos y licores.
¿Qué tan viejo? No precisa fechas el autor. El escribidor, en cambio,
encontró un dato interesante. El 8 de abril de 1551 --nótese y anótese:
1551-- el Cabildo habanero disponía que los taberneros no tendrían más
de una pipa de vino y que ese vino sería tan puro como la uva misma.
Es decir, el relleno, más que viejo, como dice Sánchez, es un proceder
que parece haber existido siempre.
Ya que de bebidas y licores hablamos, el escribidor da un salto en el
tiempo y reproduce una información que cree haber tomado de un libro
de Leonardo Acosta, premio nacional de Literatura. Dice Acosta que
cuando la ofensiva revolucionaria (13 de marzo de 1968) fueron
expropiados 955 bares en La Habana y 1 377 en Oriente. En la capital
además, fueron expropiadas 1 578 bodegas, muchas de las cuales tenían
cantinas. Nadie pudo explicar entonces de dónde sacaban esos
establecimientos los licores que vendían a sus clientes, si la empresa
de bebidas hacía más de cuatro meses que no efectuaba suministros.
Serenata para el barbero y cirujano
También de 1551, pero del 27 de febrero, es la disposición del Cabildo
que fija, luego de una larga discusión, los precios minoristas para
una serie de artículos de amplio consumo.
La que quizá sea, en su tipo, la lista cubana más antigua, incluye el
pan, el huevo, la lechuga, el rábano y la col, entre otros renglones
comestibles, como el casabe, que se expendería a dos pesos oro la
carga, mientras que la libra de pan se ofertaría a cuatro cuartos, al
igual que una buena lechuga; el rábano --dos unidades-- y la col, a
medio, y a real la media docena de huevos. No sería hasta abril de
1557 cuando se dispuso precio para el calzado. Y más o menos por la
misma época se fijó el precio de las longanizas: vara y media de estas
por un real.
Como no existían periódicos entonces, las noticias y los asuntos de
interés se escribían a mano sobre una superficie adecuada y se pegaban
en las paredes. A esos avisos se les llamaba <>. El 20 de
agosto del mismo año 1557 dispuso el Cabildo, como medida de mérito,
que hubiera en la villa un tambor o tamborilero que tocase a redoble
por las calles, cada vez que entrase un navío en el puerto. El primer
tambor fue el flamenco Juan de Emberas, con un sueldo anual de 36
ducados, mientras que 60 años más tarde, luego de una dilatada y
penosa discusión, se acordaba abonar cien ducados al licenciado Juan
de Tejeda Peña a fin de que, por espacio de un año, quedase como
médico en La Habana. No había otro.
Mucho antes, el 1ro. de julio de 1552, se recibió a Juan Gómez como
barbero y cirujano. El pueblo, regocijado, lo saludó con una serenata
en la que intervinieron los tres únicos músicos que había entonces en
La Habana, con su correspondiente timbal.
Era entonces algo extraordinario contar con un barbero, tanto, que el
Cabildo decidió mostrarse protector de Gómez, disponiendo que mientras
estuviera aquí, nadie pudiera ejercer esa facultad con pena de dos
pesos oro de multa al infractor.
En la disposición del Cabildo del 26 de febrero de 1569 se facultó al
licenciado Gamarra como el único que podía tener botica, obligando a
los vecinos a que no se pudieran curar con otra persona sino con él.

Calzón y espada al cinto

Los hombres vestían calzón corto y era obligatorio llevar espada al
cinto, y las señoras usaban mantillas y mantas. Era carísima la
indumentaria tanto del hombre como de la mujer.
El mobiliario era muy primitivo; abundaba lo que se llamó durante
siglos el taburete de cuero. Los muebles consistían en bancos y
asientos de cedro o caoba, sin espaldar. La cama era una armazón con
cuatro patas que cubrían con una pieza de lona o cuero crudo. Era el
lecho de la gente pobre. La gente acomodada mandaba a Castilla el
ébano y el granadillo, maderas preciosas abundantes aquí, y de allí
recibían ricos dormitorios con camas imperiales. En todas las salas
había un cuadro de devoción al que, de noche, se le encendían luces
para las plegarias. Las familias se alumbraban con velas de sebo. Los
ricos usaban velones de cera traídos de Sevilla y que alimentaban con
aceite de oliva.
Hacia 1560 solo dos comerciantes habaneros pagaban sus impuestos y
contribuciones al Cabildo, y se hacía muy difícil conseguir quien
acometiese lo que entonces se llamaba <> --sastres,
carpinteros, zapateros, etc.-- y los que lo hacían pedían a cambio
sumas prohibitivas.
La urbanización de La Habana en los comienzos del siglo XVII era muy
pobre. De la Plaza de Armas partían dos calles bien alineadas, la de
Oficios y la de Mercaderes y ambas iban a encontrarse en lo que se
llamó Plaza Vieja, y en ese punto, en dirección oeste, se trazó la
calle Real (Muralla), que daba salida al campo por la Calzada de San
Luis Gonzaga (Reina) y que conducía a una hacienda nombrada San
Antonio el Chiquito, donde se fomentó luego un ingenio de azúcar, que
existía en 1762 cuando la toma de La Habana por los ingleses.
A continuación de la de los Mercaderes, se trazó otra calle, la de
Redes (Inquisidor) y que conducía a la barriada de Campeche, en donde
organizaron sus viviendas los mexicanos náufragos de la expedición a
la Florida con Tristán de Luna, en tiempos de Mazariegos.
Paralela a la calle Real, había una que se llamaba del Basurero
(Teniente Rey) porque conducía al vertedero de la ciudad. En la misma
dirección, partiendo de la Plaza de Armas, iba la calle de Sumidero
(O'Reilly), nombre este que tomó por el Segundo Cabo que vino con el
Conde de Ricla a la restauración española, después de la efímera
dominación inglesa. Arrancaron desde O'Reilly, rumbo a la boca del
Puerto las que se llamaron de La Habana y de Cuba y que a través de
los siglos han conservado sus primitivos nombres.
En esas calles, las casas obedecían a una alineación y equidistancia.
En el resto de la ciudad se construía a la diabla, es decir, cada cual
establecía su casa donde lo creía conveniente. Todas las edificaciones
eran de guano y de madera y estaban cercadas o defendidas por sus
cuatro costados con tunas bravas. El piso de las calles era primitivo
y cuando llovía la ciudad era intransitable.
Los mosquitos eran insoportables, especialmente para los tripulantes
de las flotas. Y había tal cantidad de cangrejos en todo el litoral,
sobre todo en las cercanías de la Punta y la caleta de San Lázaro, que
por las noches, cuando se acercaban en busca de los desperdicios de
las basuras domésticas, metían tanto ruido que muchas veces se les
tomaba por invasores ingleses.
La ciudad se surtía del agua del río Casiguagua (Chorrera) traída
mediante una zanja a la que dio el desnivel necesario el ingeniero
italiano Antonelli, quien vino con Tejada a construir el Morro, la
cual llegaba hasta el Callejón del Chorro, cerca de la actual Plaza de
la Catedral. El agua anegaba ese lugar, que tomó por esa circunstancia
el nombre de Plaza de la Ciénaga. No se había pensado todavía que allí
se levantaría la catedral.

Vía crucis

A mediados del siglo XVII, los franciscanos establecidos desde 1591 en
su convento concibieron el plan de conducir hasta la iglesia del
Humilladero (después El Cristo), la tarde del Viernes Santo, la
procesión llamada de la Pasión o del Vía Crucis, y eligieron para
hacerlo la calle de San Francisco, paralela a la del Basurero
(Teniente Rey), que más tarde se llamó Amargura.
En la esquina de Aguiar y Amargura se había establecido la Capilla de
la Tercera Orden de San Agustín. En ese lugar se detenía la procesión
y se hacían otras paradas en varios lugares de esa calle a fin de
escenificar las estaciones de la Pasión. Una de las más notables era
la de Miguel de Castro Palomino y Borroto, quien al frente de su casa,
cercana a la calle Del Hoyo de la Artemisa (actual Villegas), había
colocado una urna de gran tamaño que encerraba una imagen de Jesús
crucificado, e instaló debajo un altar con dos candelabros de plata y
otros adornos. Al cruzar por allí la procesión, se detenía y se
cantaba algo relacionado con la duodécima estación Jesús muere en la
cruz. En el piso se colocaba siempre una gran alfombra, sobre la que
oficiaba el sacerdote.
La esquina de Amargura y Aguacate se conocía con el nombre de Las
piadosas mujeres, porque allí residían las beatas Josefa y Petrona
Urrutia, quienes al cruzar la procesión festejaban el episodio de la
Pasión en el que las mujeres de Jerusalén salen al encuentro de
Cristo. En esa esquina se fijó una cruz de gran tamaño.
Esta procesión constituyó, durante muchos años, uno de los más
solemnes espectáculos populares de La Habana, al que concurrían,
confundiéndose con el pueblo, las principales familias y las
autoridades eclesiásticas, civiles y militares de la Isla, presididas
por el Gobernador y el Capitán General.
Se celebró por última vez en 1807, pues el acto degeneró poco a poco
en algo grotesco y poco digno del progreso de La Habana. A partir de
esa fecha desaparecieron las numerosas cruces colocadas a lo largo de
la calle, para celebrar las estaciones, resistiendo solo el golpe de
la piqueta la que se encuentra en la esquina de Mercaderes, adosada a
un viejo edificio en que estuvo mucho tiempo el almacén de papel de
Barandiarán y Cía. --hoy Casa del Chocolate-- que tomó el nombre de La
Cruz Verde, por la que allí existe desde comienzos del siglo XVII.
(Con información de Luis Bay y Emilio Roig)

Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/

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