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lunedì 28 aprile 2014
Come me lo hanno raccontato, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 27/4
Non reprime il suo stupore lo scrittore galiziano Jacinto Salas y Quiroga. La fregata Rosa, quella in cui fece il viaggio da Cadice, con scalo a Portorico, gettò l'ancora nell'ampia baia avanera, il visitatore che vuole scrivere un libro sull'Avana, si vede impedito a scendere a terra. Nonostante portasse i suoi documenti in ordine e il passaporto firmato dal Capitano Generale dell'isola vicina, gli dicono che non si autorizzerà lo sbarco fino a che non si disponga del permesso che, previa presentazione di un garante, deve richiedere al Capitano Generale dell'Avana.
Salas y Quiroga non capisce. Crede che fra autorità dipendenti dallo stesso Governo deve esistere una fiducia tale che la firma di una, basti come garanzia per l'altra. Nel suo libro Viaggio a Cuba, pubblicato nel 1840, scrive al rispetto: “Non capivo come essendo garantito dal documento di un'autorità superiore, un'altra della stessa categoria non mi permettesse di sbarcare”.
Il neo arrivato non ha altra alternativa che attenersi alla legge vigente e affida a un incaricato la ricerca della licenza. Il soggetto non tarda a tornare a mani vuote. Nonostante siano solo le due del pomeriggio, l'ufficio che può rilasciare il permesso non aprirà fino alla mattina seguente. Salas y Quiroga si rassegna a perdere il giorno a bordo dell'imbarcazione. Ciò nonostante si precipita a scrivere al Capitano Generale per dirgli che gli porta una lettera di suo fratello e supplicarlo perché, col suo passaporto e altri documenti vigenti si valesse di concedergli, se possibile quello stesso giorno, il permesso per scendere a terra.
Il capitano della fregata sogghigna davanti alle difficoltà del suo passeggero. Si avvicina alla guardia che vigila perché nessun passeggero sbarchi senza la dovuta autorizzazione e gli dice qualcosa all'orecchio per, immediatamente, fargli scivolare qualche moneta fra le dita.
Mesi dopo, Jacinto Salas y Quiroga, scriveva nel suo libro: “Il capitano mi fece ottenere il difficile permesso; così si rispettano le leggi quando l'incaricato di farle osservare non è convinto della loro utilità. Per terminare una volta per tutte questo affare, dirò che il giorno seguente ottenni io stesso il permesso per andare a terra stando già in essa, facendo previamente i passi necessari per avere quattro firme, una delle quali del Capitano Generale, col pagamento di quattro reales d'argento, avendo ottenuto la fortuna di essere esentato dalla presentazione di un garante.
Soldi di vostra maestà
La corruzione amministrativa, la malversazione e la deviazione di entrate pubbliche, cominciarono presto nella Colonia. Nel 1539 Lope Hurtado, tesoriere dell'Isola di Cuba, scriveva al monarca spagnolo da anni prima, quando assunse detto incarico. “ho sempre visto derubare l'impresa di Vostra Maestà”. Mali che, si dice, giunsero dalla vicina isola di Santo Domingo e che, in definitiva, erano originari della propria Spagna. Lo storico Ramiro Guerra scrive che durante il comando di Diego Velázquez, il primo governatore di Cuba, la rudimentale vita politico-amministrativa e la precaria vita sociale, si svolsero in un ambiente di relativa pace, normalità e onestà. La scarsa popolazione dell’Isola viveva consacrata al lavoro, specialmente agricolo, la costruzione di imbarcazioni, le miniere, l’impulso di nuovi insediamenti e il tracciato di strade. Molti abitanti portarono le loro famiglie dalla Hispaniola e altri contrassero legittimo matrimonio con indigene. Le rustiche capanne primitive si trasformarono poco a poco, per farle diventare più comode e si importarono da Siviglia, al porto di Santiago de Cuba, capi di abbigliamento e articoli diuso domestico: mobili, pentolame, posate, ornamenti...senza che restassero fuori alimenti, vini e liquori, così come candelabri pe l’illuminazione che si alimentavano con olio d’oliva.
Muore Velázquez e sopraggiunge, nell’Isola. Un periodo di decadenza economica e morale, povertà, brutalità e concupiscenza. All’ordine del giorno ci sono rancori, litigi, risse sanguinose.
Ramiro Guerra scrive che questa situazione fu il risultato della vita rude e selvaggia dei primi abitanti, avventurieri e incolti per la maggior parte, del comando senza legge e senza freno, della servitù e sfruttamento degli indios, per i lavori leggeri e del negro per la schiavitù, per la minaccia perenne di corsari e pirati...
Per coloro che gli succedettero nel governo dell’Isola, Velázquez fu colpevole in buona misura di tutti questi mali. Non bisogna dimenticare che, nonostante l’onestà relativa che Guerra avverte nel suo mandato, il primo governatore dell’Isola fu accusato al suo momento e multato, dopo morto, per essersi lasciato comprare con presenti e banchetti, consentire esazioni applicando in modo selettivo imposte e tasse oltre a beneficiare con lavori a carico di indios amici e conoscenti trattando pregiudizialmente quelli con cui non simpatizzava...
Quelli che lo seguirono nell’incarico non furono migliori. Gonzalo de Guzmán fu accusato di consentire la bestemmia, giocatori e manipolatori oltre a defraudare i redditi reali. Di ingiusto, ladro e cattivo come persona e nel suo incarico si affrancò Juanes Dávila e a Juan de Aguilar, di danneggiare Santiago con furti e ingiustizie.
Nemmeno un uomo energico e inesorabile come Antonio de Chávez, il primo governatore che stabilì la sua residenza all’Avana, sfuggì alla destituzione. Fece quello che era alla sua portata per alleggerire la servitù degli indios e obbligò a pagare quello che per decimi, quinte o sotterfugi, i potenti avevano in debito e finì per rendersi incompatibile con le ambizioni dei colonizzatori che finirono per accusarlo di cupidigia e mancanza di lealtà.
Facoltà multiple
Mai, durante tutta la Colonia, ci fu un civile al fronte del Governo dell’Isola. Spagna considerò sempre Cuba come una base militare di operazioni nel Golfo del Messico e nei Caraibi e in modo invariabile scelse i suoi governatori tra le file militari. A partire dal 1825, la Corona rilasciò facoltà multiple a questi governanti. Poteri straordinari questi, inerenti a una piazzaforte in tempo di guerra. Con uno di essi, José Gutiérrez de la Concha, mise in pratica la più brutale e arbitraria delle misure quando si negò ai cubani il diritto di chiedere.
Nella sua organizzazione marittima, Cuba era un Comando Generale della Marina spagnola. Aveva a fronte un contrammiraglio che risiedeva all’Avana ed esercitava il comando per tre anni. Questo Comando si divideva in sette “province” : L.Avana, Santiago de Cuba, Sagua la Grande, Remedios, Cienfuegos, Trinidad e Nuevitas.
Dei primi 18 governatori che ebbe l’Isola, otto passarono da governo alla prigione e alcuni vi morirono. Non si sa se per il rigore che dette luogo alle punizioni o se la delinquenza politica cominciò a godere di maggior impunità, dei 36 governatori, che dopo quei 18, si succedettero fino alla presa dell’Avana degli inglesi, solo quattro, videro interrotto il loro governo con un finale così disastroso.
Nessuno lo accusò
Immaginatevi come andavano le cose a Cuba, che nel 1695 il generale di galeoni Diego de Córdova y Laso de la Vega dovette sborsare 14.000 pesos o scudi d’argento e depositare una garanzia di altri 16.500 perché il re di Spagna lo nominasse governatore della colonia, incarico che assunse con l’impegno di trapassarlo al generale Diego de Viana, il precedente governatore, appena questi si liberasse del processo a cui era sottoposto e dal quale si supponeva venisse assolto.
Gli stipendi, diritti e onorari di un governatore coloniale non superavano, allora, i 5.000 scudi annuali, di modo che Diego de Cordova doveva affrettare il passo per recuperare il suo investimento. E lo fece. Migliorò le difese dell’Avana, riorganizzò le sue milize e non risparmiò sforzi per incrementare la ricchezza nel territorio: sotto il suo comando fiorirono le piantagioni di tabacco, si resero operanti non meno di 20 combinati per lo zucchero e si incrementò in modo considerevole l’allevamento mentre, sottobanco, si arricchiva. Lo faceva tanto discretamente che nessuno osò, al momento opportuno, accusarlo di essere un ladro. Lasciò la carica nel 1702 senza suscitare l’odio e il disgusto che ebbero a sopportare i suoi pari.
Grandezza e servilismo del Capitano Generale
Nonostante l’immensità del suo potere, la vita sociale e la vita intima di un Capitano Generale, ai tempi della Colonia, erano sottoposte a non poche restrizioni. Salas y Quiroga annota nel suo citato libro: “ Questo potentissimo magistrato vive nel palazzo che gli destina il governo; ritirato e assente dagli affari pubblici, quando viene a conoscenza dei suoi poteri si riveste della vis comica di un monarca, senza poter avere quegli slanci di famigliarità protettrice perché il suo potere non è tanto solido e sicuro. Non visita nessunoi e non ha amici. Riceve con freddezza; parla misuratamente e crede di proteggere con lo sguardo. I suoi saloni solgono essere quasi sempre chiusi, la sua tavola poco frequentata. I balli, banchetti e riunioni nel suo palazzo non sono abituali, vuoi per economia, vuoi per disdegno. Solo nei baciamano vede le persone importante riunite e allora rappresenta le mille meraviglie e il potere del re al trono. Cammina serio per i saloni, saluta con grazia i grandi, maestosamente i piccoli, guarda alcuni, rivolge ad altri una domanda di cui aspetta appena la risposta, insomma, domina i cortigiani che lo circondano...
In pubblico, il Capitano Generale, si distingue ancora di più. La sua carrozza non è uguale alle altre, la sua semplicità nemmeno. Precedono la sua carrozza imponenti apripista; lo segue una scorta numerosa. I passanti si fermano, si tolgono il cappello, salutano con riverenza.
A teatro, il suo palco, è diverso da quello del pubblico in grandezza e ornamenti, ha un solo seggiolone. Nessuno vi si può sedere all’infuori di lui, sarebbe una profanazione. Non paga, né regala negli spettacoli pubblici, ammette come in un feudo, tutti gli ossequi e le attenzioni. Tutti lo nominano e si vantano di un suo saluto: essere visti al suo fianco è un segno inequivocabile di favore, vuol dire meritare la considerazione di tutti.
Como me lo contaron
Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
26 de Abril del 2014 20:41:09 CDT
No reprime su asombro el escritor gallego Jacinto Salas y Quiroga. La
fragata Rosa, en la que hizo el viaje desde Cádiz con escala en Puerto
Rico, ancló ya en la espaciosa bahía habanera, pero el visitante, que
quiere escribir un libro sobre La Habana, se ve impedido de saltar a
tierra. Pese a traer sus documentos en orden y el pasaporte firmado
por el Capitán General de la isla vecina, le dicen que no se le
autorizará el desembarco hasta que no disponga del permiso que, previa
presentación de un fiador, debe solicitar al Capitán General de La
Habana.
Salas y Quiroga no entiende. Cree que entre autoridades dependientes
del mismo Gobierno debe existir una confianza tal que la firma de una
baste por garantía a la otra. Escribe al respecto en su libro Viaje a
Cuba, publicado en 1840: “Yo no comprendía cómo garantizándome un
documento de una autoridad superior, no me permitiese saltar a tierra
otra de igual clase”.
No tiene más alternativa el recién llegado que atenerse a lo dispuesto
en la ley vigente y confía a un comisionado la búsqueda de la
licencia. No tarda el sujeto en regresar con las manos vacías. Aunque
son apenas las dos de la tarde, la oficina que puede otorgar el
permiso no abrirá hasta la mañana siguiente. Se resigna ya Salas y
Quiroga a perder el día a bordo de la embarcación. Aun así proyecta
escribir al Capitán General para decirle que le trae carta de su
hermano y suplicarle que con su pasaporte y otros documentos a la
vista se sirviese concederle, de ser posible ese mismo día, el permiso
para ir a tierra.
Ríe por lo bajo el capitán de la fragata ante los apuros de su
pasajero. Se acerca al guardia que vela porque ningún viajero
desembarque sin la autorización correspondiente y le dice algo al oído
para, enseguida, deslizar unas monedas entre sus dedos.
Meses después Jacinto Salas y Quiroga escribía en su libro: “El
capitán me obtuvo el difícil permiso; que así se obedecen las leyes
cuando el encargado de cumplirlas no está convencido de su utilidad. Y
para terminar de una vez en este negocio, diré que al día siguiente
conseguí yo mismo el permiso para ir a tierra estando ya en ella,
previos los pasos necesarios para obtener cuatro firmas, de las cuales
una del Capitán General, y el pago de cuatro reales de plata, habiendo
tenido la dicha de ser eximido de la presentación del fiador”.
Dineros de vuestra majestad
La corrupción administrativa, la malversación y el desvío de los
caudales públicos empezaron temprano en la Colonia. En 1539 Lope
Hurtado, tesorero de la Isla de Cuba, escribía al monarca español que
desde años antes, cuando asumió dicho cargo, “siempre he visto hurtar
la hacienda de Vuestra Majestad”. Males que, se dice, llegaron desde
la vecina isla de Santo Domingo y que, en definitiva, eran originarios
de la propia España. Escribe el historiador Ramiro Guerra que durante
el mando de Diego Velázquez, el primer gobernador de Cuba, la
rudimentaria vida político-administrativa y la precaria vida social se
desenvolvieron en un ambiente de relativa paz, normalidad y
honestidad. Los escasos habitantes de la Isla vivían consagrados al
trabajo, en especial la agricultura, la construcción de barcos, la
minería, el fomento de nuevas poblaciones y el trazado de caminos.
Muchos vecinos trajeron a sus familias de La Española y otros
contrajeron legítimo matrimonio con indias. Los rústicos bohíos
primitivos se transformaron poco a poco para hacerlos más cómodos y se
importaron desde Sevilla, por el puerto de Santiago de Cuba, prendas
de vestir y artículos de uso doméstico: muebles, cacharros de cocina,
utensilios para la mesa, adornos... sin que quedaran fuera víveres,
vinos y licores, así como velones para el alumbrado que se alimentaban
con aceite de oliva.
Muere Velázquez y sobreviene para la Isla una época de decaimiento
económico y moral, pobreza, brutalidad y concupiscencia. Están a la
orden del día las rencillas, los pleitos, las riñas sangrientas.
Escribe Ramiro Guerra que esa situación fue resultado de la vida ruda
y salvaje de los primitivos pobladores, incultos y aventureros en su
mayoría, del mando sin ley y sin freno, de la servidumbre y
explotación del indio, por las encomiendas, y del negro, por la
esclavitud, por la amenaza perenne de corsarios y piratas...
Para los que lo sucedieron en la gobernatura de la Isla, Velázquez fue
culpable en buena medida de todos esos males. No hay que olvidar que
pese a la honestidad relativa que Guerra advierte en su mandato, el
primer gobernador de la Isla fue acusado en su momento y multado
después de muerto por haberse dejado comprar con presentes y
banquetes, consentir exacciones, aplicar de manera selectiva impuestos
y aranceles y beneficiar con las encomiendas de indios a amigos y
allegados en perjuicio de aquellos que no le simpatizaban...
No fueron mejores los que les siguieron en el cargo. A Gonzalo de
Guzmán lo acusaron de consentir blasfemos, jugadores y amancebados y
de defraudar las rentas reales. De injusto, ladrón y malo en su
persona y en su cargo se tachó a Juanes Dávila, y a Juan de Aguilar,
de asolar Santiago con robos e injusticias.
Un hombre enérgico e inexorable como Antonio de Chávez, el primer
gobernador que fijó su residencia en La Habana, tampoco escapó a la
destitución. Hizo lo que estuvo a su alcance por aliviar la
servidumbre de los indios y obligó a pagar lo que por diezmos, quintos
y almojarifazgos adeudaban los poderosos y acabó por hacerse
incompatible con las ambiciones de los colonizadores, que terminaron
acusándolo de avaricia y falta de probidad.
Facultades omnímodas
Nunca, durante toda la Colonia, hubo un civil al frente del Gobierno
de la Isla. España consideró siempre a Cuba como una base militar de
operaciones en el Golfo de México y en el Caribe, y de manera
invariable escogió a sus gobernadores entre las filas de la milicia. A
partir de 1825 la Corona otorgó facultades omnímodas a esos
gobernantes. Poderes extraordinarios esos, inherentes al mando de una
plaza fuerte en tiempo de guerra. Con uno de ellos, José Gutiérrez de
la Concha, se puso en práctica la más brutal y arbitraria de las
medidas cuando se negó a los cubanos el derecho de pedir.
En su organización marítima, Cuba era una Comandancia General de la
Marina española. Tenía al frente a un contraalmirante, que radicaba en
La Habana y ejercía el mando durante tres años. Esa Comandancia se
subdividía en siete “provincias”: La Habana, Santiago de Cuba, Sagua
la Grande, Remedios, Cienfuegos, Trinidad y Nuevitas.
De los 18 primeros gobernadores que tuvo la Isla, ocho pasaron del
Gobierno a la prisión y algunos murieron en ella. No se sabe si por el
rigor que dio lugar al escarmiento o porque la delincuencia política
comenzó a disfrutar de mayor impunidad, de los 36 gobernadores que
luego de aquellos 18 se sucedieron hasta la toma de La Habana por los
ingleses, solo cuatro vieron interrumpido su gobierno con un fin tan
desastrado.
Nadie lo acusó
Imaginen cómo andarían las cosas en Cuba, que en 1695 el general de
galeones Diego de Córdova y Laso de la Vega tuvo que desembolsar 14
000 pesos o escudos de plata y depositar una fianza de otros 16 500
para que el rey de España lo nombrase gobernador de la colonia, cargo
que asumiría con el compromiso de traspasarlo al general Diego de
Viana, el antiguo gobernador, tan pronto se librase este del juicio al
que se le sometía y del que se suponía saldría absuelto.
Los sueldos, derechos y honorarios de un gobernador colonial no
superaban entonces los 5 000 escudos anuales, de manera que Diego de
Córdova tendría que apretar el paso para recuperar su inversión. Y lo
hizo. Mejoró las defensas de La Habana, reorganizó sus milicias y no
escatimó esfuerzos para fomentar la riqueza en el territorio: bajo su
mando florecieron las vegas de tabaco, se levantaron no menos de 20
ingenios azucareros y la ganadería se incrementó de manera
considerable, mientras que, por la izquierda, se adineraba. Y lo hacía
tan discretamente que nadie se atrevió en su momento a acusarlo de
ladrón. Cesó en el cargo en 1702 sin suscitar los odios y denuestos
que debían soportar sus iguales.
Grandeza y servileza del Capitán General
Pese a lo inmenso de su poder, era muy limitada la vida social de un
Capitán General en tiempos de la Colonia y su vida íntima, sometida a
no pocas restricciones. En su libro citado, apunta Salas y Quiroga:
“Este poderoso magistrado vive en el palacio que el gobierno le
destina; retirado y abstraído en los negocios públicos, tan luego como
llega a conocer su poder se reviste de la gravedad cómica de un
monarca, sin poder tener aquellos arranques de familiaridad protectora
porque no es tan sólido ni afianzado su poderío. No visita a nadie ni
tiene amigos. Recibe con frialdad; habla mesuradamente y cree proteger
cuando mira. Sus salones suelen estar casi siempre cerrados, su mesa
poco concurrida. Los bailes, banquetes y reuniones en su palacio no
son de costumbre, sea economía, sea desdén. Solo en besamanos ve a las
personas importantes de la población reunidas, y entonces él
representa a las mil maravillas el poder del rey reinante. Circula
grave por los salones, saluda graciosamente a los grandes,
majestuosamente a los pequeños, mira a unos, dirige a otros una
pregunta de que apenas espera la contestación, y, en suma, domina a
los cortesanos que le rodean...
En público, un Capitán General se distingue más todavía. Su carruaje
no es igual al de los demás, su sencillez, tampoco. Preceden su coche
soberbios batidores; síguele una escolta numerosa. Los transeúntes se
detienen, se quitan el sombrero, saludan reverentemente.
En el teatro, su palco, distinto a los del público en tamaño y
adornos, tiene un sillón único. Nadie lo llena más que él, tocarlo
fuera una profanación. No paga ni regala en los espectáculos públicos,
admite, como en feudo, todos los obsequios y atenciones. Todos le
citan y se glorian de un saludo suyo: ser visto a su lado, en un lugar
público, es inequívoco signo de favor, es merecer la consideración de
todos”.
Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/
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