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lunedì 14 aprile 2014

Origine, agonia e morte del tram, di Ciro Bianchi Ross


Pubblicato su Juventud Rebelde del 13/4/14


Perché sono scomparsi i tram? Cosa giustificò la sostituzione di quelle carrozze lente e democratiche, come le definì il poeta Nicolás Guillén, con autobus che noi avaneri chiamammo le “infermiere”? Dove sono finiti i vecchi vagoncini?
Una lenta agonia precedette la scomparsa di questo mezzo di trasporto. Guillén alluse alla “paralisi progressiva del tranvai” perché le carrozze e le infrastrutture andarono deteriorandosi senza che la Havana Electric, la compagnia che li operava, facesse investimenti imprescindibili per salvarli. Tutto ubbidiva ad affari torbidi che arricchirono i grandi proprietari della compagnia e rovinarono i piccoli azionisti, volti a far spazio all’impresa Autobus Modernos S.A. che introdusse le soprannominate “infermiere”, autobus di fabbricazione inglese, rimanenze della II Guerra Mondiale, dipinti di bianco.
All’inizio della decade del ’30, la stampa cubana era piena di annunci come questo: “Mandate i vostri figli a scuola in tram; arriveranno sicuri”. E a dire la verità, questo mezzo di trasporto garantiva, allora, un viaggio comodo e felice. Era il tranvai, aggiungeva Guillén in una delle sue cronache, il veicolo ideale per il trasporto di gente misurata, onesta, paziente e senza fretta: il paralitico, lo scrivano, il pensionato, il giocatore di scacchi...L’autore di Sóngoro cosongo che fu uno dei nostri grandi giornalisti, precisava: “Si metta lei, in un angolo e tutto consisterà in aspettare. La calza, la lettura di Jorge Mañach o la semplice divagazione su temi non urgenti, non di soluzione immediata...Quaranta minuti dopo sarà sorpreso da uno scampanellio inconfondibile. Lì c’è il tranvai! Lei si installa nella sua lenta carrozza, il suo vagone democratico e potrà dormire, sicuro di arrivare a destinazione sano e salvo”.
Il servizio tranviario cominciò a paralizzarsi progressivamente, più nell’ordine dell’efficacia che in quello delle utilità; ebbene nel 1942 con 521 carrozze, l’impresa che lo operava incassò qualcosa in più di due milioni di pesos; nel 1944 con 420 carrozze, ottenne introiti di oltre quattro milioni e mezzo di pesos e tre anni dopo, con solo 400 veicoli in uso, gli ingressi superarono i sette milioni.
Cosa succedeva? Più che di morte naturale il tranvai, a Cuba, moriva assassinato. La rivista Bohemia affermava; “Congestionati al massimo, gli arcaici veicoli cessavano di essere elemento di pubblica utilità per trasformarsi in strumenti di tortura urbana”.

Lo scarafaggio

Il trasporto pubblico, all’Avana, cominciò con veicoli a trazione animale. Si trattava di veicoli in affitto e a, partire dal 1859, le lente “guaguas” (onomatopeico, n.d.t.) trainate da muli. Però già alla fine del del XIX secolo, cominciò a circolare la celebre “cucaracha” (scarafaggio) macchinetta scatolone, com’era chiamata, mossa dal vapore. Il servizio era operato, come concessione del Governo spagnolo, dalla Empresa de Ferrocarríl Urbano y de Ómnibus de La Habana, ma all’avvicinarsi della cessazione della sovranità spagnola a Cuba, la giunta degli azionisti di detta entità, accettò di cedere i suoi diritti. È allora che appare un curiosissimo personaggio, degno di investigazione: Tiburcio Pérez Castañeda.
Era nato a Pínar del Río nel 1869, studiò Diritto all’Università di Barcellona e Medicina in quelle dell’Avana e Parigi. Si specializzò come chirurgo in Gran Bretagna e si disimpegnò come professore di Medicina Legale nella nostra casa di studi superiori. Membro del Reale Collegio dei Chirurghi di Londra, fu medico militare onorario degli eserciti dello zar di tutte le Russie e medico ad honorem del re d’Inghilterra, mentre in Francia lo fecero Cavaliere della Legion d’Onore, lo zar gli concedeva la Gran Croce Imperiale di San Stanislao e occupava in Spagna, per le regioni di Huesca e Burgos, un seggio come senatore del Regno. Alfonso XIII, nel 1927, gli conferì il marchesato di Taironas che rimase vacante alla sua morte, all’Avana, nel 1939.
Titoli a parte, Tiburzio era un vampiro per i soldi, e diffidente come pochi, godette appena della concessione nel maneggio dei trasporti urbani avaneri. La vendette, prima dell’occupazione militare nordamericana, a interessi canadesi che costituirono la Havana Electric Railway Co., passaggio che servì a sua volta per metterla in mano della Havana Electric Railway, Light end Power Company, impresa incorporata allo stato del New Jersey che controllava, non solo le tranvie, ma anche il servizio di illuminazione elettrica e di forza motrice oltre alla fabbricazione e distribuzione del gas artificiale all’Avana e sobborghi. Il primo tram elettrico circolò, in questa capitale, nel 1901.

Steinhart

Tedesco di origine, ma nazionalizzatto nordamericano, Frank Steinhart, giunse a Cuba facendo parte dell’esercito di occupazione e vi rimase quando le truppe interventiste lasciarono l’isola. Nel 1902 e 1903, attuò come rappresentante del Dipartimento della Guerra del suo Paese ed ebbe in custodia gli archivi del Governo intervenzionista. Da queste posizioni usurpò le funzioni principali del console generale nordamericano a Cuba, il presidente Estrada Palma lo preferiva a questi per trattare affari concernenti le relazioni con gli Stati Uniti. Così si fece posto nel consolato generale dove rimase fino al 1907. Le sue funzioni gli consentirono di avere un grande numero di valide relazioni personali nell’Isola.
Si dice che i soci nordamericani della Havana Electric Railway Co. Si lamentarono col console del loro Paese per le manovre che la parte canadese dell’azienda, faceva dei titoli di proprietà. Steinhart trasferì la lamentela al presidente della società con sede a Montreal e questi, indispettito, gli rispose che quando egli (Steinhard) fosse l’azionista di maggioranza e occupasse la direzione, avrebbe potuto amministrarla a suo piacimento.
Steinhart vide queste parole come una sfida e senza pensarci due volte tracciò una strategia per acquisirla. Visitò importanti banchieri nordamericani alla ricerca di prestiti. Non glie li concessero e a quelli che gli dicevano che desistesse da questo proposito rispondeva che aveva bisogno di soldi, non di consigli. Aveva bisogno di 750 mila dollari per acaparrare la maggioranza delle azioni e spodestare la giunta direttiva nell’assemblea del 1907. Gli risolse il problema l’Arcivescovo di New York che comprò un milione di dollari, in azioni da 85 centesimi con la garanzia che in un anno Steinhart le avrebbe ricomperate a 90, cosa che fece effettivamente.
Il dittatore Machado, in affari con la Compañia Cubana de Electrícidad che autorizzò a operare a Cuba, con la complicità di Steinhart, fece si che la Havana Electric passasse alla nuova impresa il monopolio della generazione di elettricità e di fabbricazione e distribuzione del gas. L’ex console e i suoi principali soci, beneficiarono dell’affare, non così la maggior parte degli azionisti cubani e spagnoli che videro come, a partire da quel momento, la loro entità cominciava a pagare l’elettricità che muoveva i tram, acquisendo debiti milionari.

L’ultimo viaggio

Fu l’inizio della fine. Ci furono ben pochi nuovi investimenti nella Havana Electric. Steinhart figlio, nell’assumere la direzione dell’azienda, non mise il soffio di gioventù che si sperava. Più che altro l’aiutò a morire. In un’abile manvora finanziaria, spazzò via i piccoli azionisti e liquidò l’azienda a condizioni che lo favorivano, così come alla Electric Bond & Share. Il fallimento tecnico della Havana Electric era un fatto. Durante il Governo del dottor Carlos Prío, il trapasso della concessione del trasporto avanero all’impresa Autobuses Modernos, dette il colpo finale alle tranvie.
Il dottor Manuel López Martínez dice che alle 12.08 del martedì 29 aprile 1952, fece il suo ingresso definitivo al capolinea di Príncipe il P2 numero 388, ultimo tram che circolò nei quartieri avaneri col suo utlimo viaggio di ritorno. Era uscito alle 23.22 della sera anteriore per compiere il suo percorso abituale. Il mossiere Guillermo Ferreiro, con oltre 30 anni di servizio, ordinò l’uscita con un po’ di nostalgia. Quando il motorista J. Amoedo e il conduttore M.Rey, alias “Seghetto”, ricevettero la tabella di uscita sentirono che qualcosa si scioglieva nel cuore. Era come uno strazio interiore e si misero a piangere, perché anche per loro sarebbe stato, quello, l’ultimo viaggio.
Làzaro E. García Driggs e Zenaida Iglesias, scrivono nel loro libro Tranvias en La Habana, pubblicato recentemente dall’Editrice José Martí e di cui raccomando la lettura, che a partire da lì, quei comodi e utili veicoli passarono nel dimenticatoio dei loro proprietari e finanziatori, non così nella memoria dei cubani perché in essi “i nostri genitori e nonni trasportarono le loro gioie e dolori e concertarono appuntamenti amorosi”. Questi vagoncini trasportavano, nelle loro piattaforme, gli oggetti più impensabili: valigie, borse con la corrispondenza, mobili, ceste di frutta e verdura...I menzionati investigatori precisano che nei tranvai era permesso trasportare tutto ciò che non ostacolasse il traffico dei passeggeri, ma non si poteva effettuare nessuna operazione di carico e scarico delle merci in mezzo alla strada. La tariffa iniziale per il trasporto di merci era di 25 centesimi di dollaro ogni 25 chili. Tra le 12 della notte e le 4 di mattina si potevano anche trasportare gli allora chiamati “materiali offensivi” che significava qualunque tipo di oggetto, ciò dette origine alla frase: “Non ho problemi...io salgo nella parte posteriore del tram e via”.

A mazzate

La scomparsa delle tranvie e l’entrata in funzione degli autobus beneficiarono non poche figure importanti della politica cubana del suo tempo. Mentre che politici a volte di tendenze antagoniste, si arricchivano con l’affare, cosa successe coi vagoncini, le lente e democratiche carrozze? Gli si tolsero i motori, gli assi, le ruote e le parti metalliche e si demolirono a colpi di mazza. Li schiacciarono dal tetto: spezzarono le colonne e si distrussero sedili e corrimano. I resti si dispersero in fosse apertre nel quartiere Miramar e nei dintorni del capolinea del Carmelo, nel Vedado, come ripieno della pavimentazione. Sopravvissero poche di quelle vetture. Allora si utilizzarono come chioschi di vedita di merende e caffetterie nella spiaggia di Marianao e una fu trasformata in abitazione. Un’altra, completa, si mantenne al capolinea del Cerro fino poco dopo il 1959. Ormai non ne esistono più, almeno che si sappia.
Sotto la pavimentazione dormono il sonno eterno la maggior parte dei tram che circolarono per la città. In quanto ai binari, si smantellarono alacremente, ma il lavoro non venne mai completato. Ancora oggi si affacciano frammenti di queste linee, sotto grossi strati di asfalto, come se volessero recuperare il passato.



Origen, agonía y muerte del tranvía

Ciro Bianchi Ross *
12 de Abril del 2014 19:13:57 CDT

¿Por qué desaparecieron los tranvías? ¿Qué justificó la sustitución de
aquellas carrozas lentas y democráticas, como las definió el poeta
Nicolás Guillén, por ómnibus a los que los habaneros llamamos “las
enfermeras”? ¿Dónde fueron a parar los vetustos carritos?
Una lenta agonía precedió a la desaparición de ese medio de
transporte. Guillén aludió a la “parálisis progresiva del tranvía”
porque los carros y la infraestructura se fueron deteriorando sin que
la Havana Electric, la compañía que los operaba, acometiera las
inversiones imprescindibles para salvarlos. Todo obedecía a un turbio
negocio, que enriqueció a los grandes propietarios de la compañía y
arruinó a los pequeños accionistas, encaminado a dar entrada a la
empresa de los Autobuses Modernos S.A., que trajo las aludidas
“enfermeras”, ómnibus de fabricación inglesa, remanentes de la II
Guerra Mundial, pintados de blanco.
A comienzos de la década de los 30 la prensa cubana se inundaba de
anuncios como este: “Mande a sus hijos a la escuela en tranvía;
llegarán seguros”. Y a decir verdad, ese medio de transporte
garantizaba entonces un viaje cómodo y feliz. Era el tranvía, añadía
Guillén en una de sus crónicas, el vehículo ideal para el trasiego de
gente mesurada, honesta, paciente y sin prisa: el paralítico, el
escribiente, el pensionado civil, el jugador de ajedrez... Precisaba el
autor de Sóngoro cosongo, que fue uno de nuestros grandes periodistas:
“Situábase usted en una esquina y todo consistía en esperar. La
calceta, la lectura de Jorge Mañach o la simple divagación sobre temas
no urgidos de resolución inmediata... Cuarenta minutos más tarde era
usted sorprendido por un timbreteo inconfundible. ¡Ahí estaba el
tranvía! Se instalaba usted en su lenta carroza, en su coche
democrático, y ya podía dormir seguro de llegar sano y salvo a su
destino”.
El servicio tranviario empezó a paralizarse progresivamente, más en el
orden de la eficacia que en el de las utilidades, pues si en 1942, con
521 carros, la empresa que lo operaba recaudó algo más de dos millones
de pesos; en 1944, con 420 coches, obtuvo ingresos por más de cuatro
millones y medio, y tres años después, con solo 400 vehículos en uso,
la recaudación sobrepasó los siete millones.
¿Qué sucedía? Más que de muerte natural, el tranvía moría asesinado en
Cuba. Afirmaba la revista Bohemia: “Congestionados hasta el máximo,
los arcaicos vehículos dejaban de ser elemento de utilidad pública
para transformarse en instrumentos de tortura urbana”.

La cucaracha

El transporte público en La Habana comenzó con vehículos de tracción
animal. Se trataba de los coches de alquiler y, a partir de 1859, de
lentas “guaguas” tiradas por mulos. Pero ya a finales del siglo XIX
comenzó a circular la célebre “cucaracha”, maquinita de cajón, como se
le llamaba, movida por vapor. Operaba entonces el servicio, como una
concesión del Gobierno español, la Empresa de Ferrocarril Urbano y de
Ómnibus de La Habana, pero al acercarse el fin de la soberanía de
España en Cuba, la junta de accionistas de dicha entidad acordó ceder
sus derechos. Es entonces que aparece en escena un personaje
curiosísimo y digno de investigación, Tiburcio Pérez Castañeda.
Había nacido en Pinar del Río, en 1869, y estudió Derecho en la
Universidad de Barcelona, y Medicina en las de La Habana y París. Se
especializó como cirujano en Gran Bretaña y se desempeñó como profesor
de Medicina Legal en nuestra casa de altos estudios. Miembro del Real
Colegio de Cirujanos de Londres, fue médico militar honorario de los
ejércitos del zar de todas las Rusias y médico ad honorem del rey de
Inglaterra, mientras que en Francia lo hacían Caballero de la Legión
de Honor, el zar le concedía la Gran Cruz Imperial de San Estanislao y
ocupaba en España, por las regiones de Huesca y Burgos, un escaño como
senador del Reino. Alfonso XIII, en 1927, le conferiría el marquesado
de Taironas, que quedó vacante a su muerte, en La Habana, en 1939.
Títulos aparte, don Tiburcio era una fiera para el dinero, y
desconfiado como él solo, apenas disfrutó de la concesión en el manejo
de los ómnibus urbanos habaneros. La vendió, antes de la ocupación
militar norteamericana, a intereses canadienses que constituyeron la
Havana Electric Railway Co., traspaso que sirvió a su vez para
ponerla, con el tiempo, en manos de la Havana Electric Railway, Light
and Power Company, empresa incorporada al estado de New Jersey, que
controlaría no solo los tranvías, sino también el servicio de
alumbrado eléctrico y de fuerza motriz y la fabricación y distribución
del gas artificial en La Habana y sus suburbios. El primer tranvía
eléctrico circuló en esta capital en 1901.

Steinhart

Alemán de origen, pero nacionalizado norteamericano, Frank Steinhart
llegó a Cuba como parte del ejército de ocupación y se quedó cuando
las tropas interventoras salieron de la Isla. Durante 1902 y 1903
actuó aquí como representante del Departamento de Guerra de su país y
tuvo en custodia los archivos del Gobierno interventor. Desde esos
puestos usurpó las principales funciones del cónsul general
norteamericano en Cuba, pues el presidente Estrada Palma lo prefería a
este para tratar los asuntos concernientes a las relaciones con EE.UU.
Así se calzó en propiedad el consulado general, que desempeñó hasta
1907. Sus funciones le valieron un sinnúmero de relaciones personales
valiosas en la Isla.
Se dice que los socios norteamericanos de la Havana Electric Railway
Co. se quejaron al cónsul de su país del manejo que la parte
canadiense de la empresa hacía de los títulos de propiedad. Steinhart
trasladó la queja al presidente de la compañía, radicado en Montreal,
y este, despectivamente, le contestó que cuando él (Steinhart) fuera
el accionista mayoritario y ocupase la dirección, podría administrarla
a su antojo.
Steinhart vio esas palabras como un reto y sin pensarlo apenas trazó
su estrategia para adquirirla. Visitó a importantes banqueros
norteamericanos en busca de préstamos. No se los dieron, y a los que
le sugirieron que desistiera de ese propósito les ripostó que requería
de dinero y no de consejos. Necesitaba 750 000 dólares para acaparar
la mayoría de las acciones y derribar a la junta directiva en la
asamblea de 1907. Resolvería su problema con el Arzobispo de Nueva
York, que adquirió un millón de dólares en acciones de 85 y al cinco
por ciento con la garantía de que en un año Steinhart se las compraría
a 90, lo que hizo, en efecto.
El dictador Machado, en tratos con la llamada Compañía Cubana de
Electricidad, a la que autorizó a operar en Cuba, y en complicidad con
Steinhart, hizo que la Havana Electric traspasara a la nueva empresa
el monopolio de la generación de electricidad y de fabricación y
distribución de gas. El ex cónsul y sus principales asociados se
beneficiaron con el negocio, no así la mayor parte de los accionistas
cubanos y españoles, que vieron cómo a partir de ese momento su
entidad debía comenzar a pagar la electricidad que movía a los
tranvías y adquiría una deuda millonaria.

El último viaje

Fue el comienzo del fin. Apenas hubo ya inversiones nuevas en la
Havana Electric. Steinhart hijo, al asumir la dirección de la empresa,
no le insufló el soplo de juventud que de él se esperaba. Más que
nada, la ayudó a morir. En una hábil maniobra financiera barrió a los
pequeños accionistas y liquidó la empresa en condiciones que lo
favorecían tanto a él como a la Electric Bond & Share. La quiebra
técnica de la Havana Electric era un hecho. El traspaso, durante el
Gobierno del doctor Carlos Prío, de la concesión del transporte urbano
habanero a la empresa de los Autobuses Modernos, dio el puntillazo a
los tranvías.
Dice el doctor Manuel López Martínez que a las 12:08 del martes 29 de
abril de 1952, hizo su entrada para siempre en el paradero de Príncipe
el P2, número 388, último tranvía que circuló por las barriadas
habaneras, en su postrer viaje de regreso. Había salido a las 11:22 de
la noche anterior para cumplir su itinerario de siempre. El
despedidor, Guillermo Ferreiro, con más de 30 años de servicio, ordenó
la salida con algo de nostalgia. Cuando el motorista J. Amoedo y el
conductor M. Rey, alias Serrucho, recibieron el cartón de salida
sintieron que algo se les desprendía del corazón. Era como un
desgarramiento interior y rompieron a llorar, porque para ellos aquel
sería también su último viaje.
Escriben Lázaro E. García Driggs y Zenaida Iglesias en su libro
Tranvías en La Habana, publicado recientemente por la editorial José
Martí y cuya lectura recomendamos, que a partir de ahí aquellos
cómodos y útiles vehículos quedaron en el olvido de sus dueños e
inversionistas, no así en la memoria de los cubanos, porque en ellos
“nuestros padres y abuelos transportaron sus penas y alegrías y
concertaron citas amorosas”. Esos carritos cargaban en su plataforma
los objetos más inimaginables: maletas de viaje, valijas con
correspondencia, muebles, canastas con frutas y viandas... Precisan los
mencionados investigadores que en los tranvías estaba permitido
transportar todo lo que no obstaculizara el tráfico de pasajeros, pero
no se podía acometer operación alguna de carga y descarga de
mercancías en medio de la calle. La tarifa inicial para la
transportación de mercancías fue de 25 centavos de dólar por cada 25
kilogramos. Entre las 12 de la noche y las 4 de la mañana podía
incluso transportarse desperdicios y los entonces llamados “materiales
ofensivos”, esto es, cualquier tipo de tareco, lo que dio origen y
popularidad a la frase: “No tengo problemas... lo monto en la parte de
atrás del tranvía y andando”.

A mandarriazos

La desaparición de los tranvías y la entrada en funcionamiento de los
autobuses beneficiaron a no pocas figuras importantes de la política
cubana de su tiempo. Mientras que políticos a veces de tendencias
antagónicas se enriquecían con el negocio, ¿qué sucedió con los
carritos, las lentas y democráticas carrozas? Se les quitaron los
trucks y las partes metálicas y se les demolió a golpes de mandarria.
Los aplastaron desde el techo; les quebraron las columnas y se
destruyeron asientos y pasamanos. Los restos se depositaron en zanjas
abiertas en calles del reparto Miramar y en los alrededores del
paradero del Carmelo, en el Vedado, como relleno de su pavimentación.
Sobrevivieron unos pocos de esos carros. Se utilizaron entonces como
merenderos y cafeterías en la playa de Marianao, y uno se transformó
en vivienda. Se conservó otro completo que se mantuvo en exposición en
el paradero del Cerro hasta poco después de 1959. Ya no existe
ninguno, al menos que sepamos.
Bajo el pavimento duermen el sueño eterno la mayor parte de los
tranvías que circularon por la ciudad. En cuanto a los rieles, se les
desmontó paulatinamente, pero el trabajo nunca llegó a completarse.
Todavía asoman fragmentos de esas líneas, bajo gruesas capas de
pavimento, como si quisieran recuperar el pasado.

Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/


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