È appena apparso un libro di Enrique Nuñez Rodríguez. Si intitola El vecino de los bajos (Il vicino del
piano di sotto, n.d.t.) e comprende 99 delle cronache che il suo autore
pubblicò nell’edizione domenicale di Juventud
Rebelde tra il 1987 e il 2002 che fu l’anno della sua morte.
Nuñez Rodríguez ebbe una lunga e fruttifera collaborazione con questo
giornale. La colonna che vi mantenne, nutrì quasi tutti i suoi libri, da quelli
molto popolari Yo vendí mi bicicleta (1989)
e Mi vida al desnudo (2000) fino ai
meno ricordati Oyee, como lo cogieron (1991)
e Gente que yo quise (1995). Ma
rimase molto materiale, suo, negli archivi del quotidiano e da lì si estrassero
le cronache che conformano questo volume appena pubblicato.
Ma perché questo titolo di El
vecino de los bajos, pubblicato dalle Edizioni Union?
Succede che per diversi anni, Enrique, mantenne il suo spazio in quello
che chiamò “l’accogliente scantinato” della terza pagina del giornale della
domenica, mentre i piani superiori si riservavanoa Gabriel García Márquez.
Qunado finirono le valide collaborazioni dell’autore di Cent’anni di solitudine, la direzione del giornale offrì il “piano
di sopra” a Enrique. Alcuni fedelissimi lo incitarono a reclamare lo spazio che
lasciava il colombiano. L’antichità, la costanza e la lunga permanenza nel
lavoro – dicevano i lettori – concedevano a Enrique il diritto alla promozione.
L’umorista declinò l’offerta della direzione del giornale e disattese la
domanda del pubblico. Addusse che “non è facile, nel giornalismo, accreditare
una colonna e stabilire fra i lettori l’abitudine di cercarla nella stessa pagina
e nello stesso posto”. Aggiunse che era allergico ai traslochi e che il
trasferimento di posto all’interno della pagina non si confaceva col suo “sedentarismo
abitazionale”. In fine espresse al direttore di JR che “le cadute dai piani bassi, sono meno dolorose”.
D’altra parte, questo scantinato, gli permise di essere un “invidiabile
osservatorio verso l’alto”. Da lì si sentì più che compiaciuto con la compagnia
di autori latinoamericani consacrati come Eduardo Galeano, Mario Benedetti e
Arturo Alape, fra gli altri, che gli fecero mantenere “lo sguardo fisso verso
l’alto”, allo stesso modo di giovani creatori cubani, come Leonardo Padura che
gli diedero lezioni di buon giornalismo.
Aiutate
l’artista cubano
Túpac Pinilla,
nipote di Enrique Nuñez Rodríguez, redasse ed editò El vecino de los bajos. La gente richiedeva la riedizione dei libri dell’autore, completamente
esauriti. Dopo aver rovistato negli archivi, Pinilla preferì mettere alla luce
questi 99 testi. Gli dette un ordine cronologico. La distribuzione delle
cronache attraverso gli anni non è equilibrata in nessun modo, dichiara
Pinilla. Così, per esempio, del 1990 si raccolgono 25 cronache e nove del 1996;
ma solo quattro corrispondono al 2001 e tre all’anno 2000. “Quei periodi, meno
rappresentati qua, furono il cantiere essenziale dei precedenti libri
dell’autore”, scrive il compilatore.
Di cosa trattano queste cronache? Trattano semplicemente della vita.
Sono pagine di ricreazione autobiografica, di memoria allo specchio, di
evocazione di fatti e persone. Visione incisiva del fluire quotidiano.
Peripezie e intimità del mondo dello spettacolo, del teatro, la radio, la
televisione. Cronache scritte con disincanto, aliene a ogni tipo di lungaggine,
senza pretese moralizzanti e nelle quali la risata è, a volte, un tremito
inatteso e una stoccata a fondo. Nuñez Rodríguez, sottolinea Abel Prieto, non
si è immischiato in questioni teoriche; si è limitato a ricordare e raccontare
e così lasciò il suo apporto alla nostra permanente e instancabile definizione
collettiva e polifonica di “il cubano”.
Enrique, dice lo stesso Abel nel prologo della opera, fu un cacciatore
di esseri anonimi. I protagonisti delle sue pagine sono quindi giocatori di
dadi e cercafortuna di ogni tipo. Giornalisti che inventano la notizia.
Barbieri. Sorelle zitellone che fanno quasi a pugni per abbassarsi l’età. Il
mutilato delle due mani che ha, senza ombra di dubbio, le impronte digitali
nella sua tessera elettorale. L’ex recluso simpatico che uccide la moglie.
Maestri, preti, ballerine, cuochi. Non manca il cantante dilettante che si
esibiva a bordo di un autobus o in qualunque angolo e, dopo la sua attuazione,
passava a rastrellare offerte con la scusa di “Aiutate l’artista cubano”.
Abel Prieto scrive che quando il cronista sceglieva il nucleo della sua
pagina e del suo personaggio centrale, si collocava invariabilmente agli
antipodi del giornalismo d’effetto. Adottava un punto di vista antagonista a
quello del paparazzo a quello del cacciatore di scandali di “famosi” di
“stelle”. In ogni caso, sottolinea Abel, Enrique sarebbe stato più un
cacciatore di situazioni insignificanti che immediatamente risultavano
interessanti.
Pagine attraversate dalla nostalgia. La fidanzatina che torna, profumata
di gelsomino di El Cabo, dal profondo di un’ingenua e dolorosa tenerezza.
L’amico dimenticato che percorre di nuovo le strade, in una notte di cammino,
alla caccia di occhi che oggi guardano i nipotini. Il ragazzino di Quemado de
Güines che conosce tutte le linee di autobus della capitale e di cui si
inorgoglisce che il bottegaio dell’angolo lo chiami già col suo nome,
nonostante per diplomarsi da avanero gli manca ancora di commettere il sacrilegio
di soppiantare la cena della sera con il caffelatte e il pane e burro della
colazione e lavarsi la mattina, prima di uscire per il lavoro, invece di farlo
di sera come si fa nel resto del Paese.
Quando molta gente di località dell’interno si garantiva il biglietto di
ritorno al paesello, se si disponeva a correre la propria avventura avanera,
Enrique Nuñez Rodríguez compro il biglietto di sola andata senza ritorno e, in
attesa del suo viaggio, vendette la sua bicicletta come modo di confermare a se
stesso che per lui non ci sarebbe stato ritorno.
Diventerà avvocato all’Università dell’Avana e si sentì avanero fin dai
suoi giorni di studente. L’Avana fu, per lui, non solo la Collina universitaria
con i suoi 88 scalini verso la speranza e la pensione della calle San Miguel,
1023, che chiamava La Posada Maledetta dove, per 17 pesos al mese gli
garantivano alloggio e tre pasti al giorno e gli restava un credito anche
perché gli dessero un po’ di affetto. La sua Avana fu anche qualla del tram
U-4, Playa-Stazione Centrale, quella del bottegone di Teodoro e l’hotel Andino,
vicini all’università, il romanzo clandestino su scale oscure,il vestito pagato
a rate e le manifestazioni studentesche. “Il fatto di aver visto i nostri figli
nascere all’Avana – dirà più tardi – basterebbe di per sé perché non che non
siamo nati qua, ci si senta avaneri”.
Il piattino di dolce
El vecino de los bajos evoca abitudini cubane profonde. Nella
cronaca che intitolò Il dolce della domenica:
“Ci sono abitudini cubanissime che non dovrebbero sparire. Mia mamma fu
un’eccellente preparatrice di dolci. Anche la nonna materna. Ricordo nomi che
già non sento: rabbia feroce, sollevato, boniatillo vagabondo...
C’era allora la gradevole abitudine, tra vicini, di passarsi al di sopra
del recinto un piattino con frittelle appena fatte o un pandolce fatto nel
forno di casa che é un modo di dire, magari era cucinata nel tegame, perché
avere un forno era così, come ostentare un titolo nobiliare...
In ciò di passarsi il piattino di dolce sopra il recinto, oltre a quanto
significava in quanto a solidarietà umana, c’era una specie di religiosità;
restituire il piattino, ma restituirlo vuoto costituiva un’infamante eresia.
Così se si arrivava con marmellata di mango, doveva tornare con un dolce di
latte, questo miracolo di teneri e deliziosi grumi, con la sua riga di cannella
in rametto e un leggero tocco di buccia di limone”.
Il cronista seppe raccogliere senza amarezza la aspra quotidianità del
periodo speciale e seppe, perfino, farci ridere in mezzo al dramma di
sopravvivere che caratterizzò quel momento. Nelle pagine di questo libro, gli
specialisti avvertono la risata riflessiva e filosofica dell’umorista. C’è
anche presente la volontà dell’autore di provocare risa di botto, di farci
passare un momento gradevole con quello che scrive come fa nella cronaca che intitola
Nel bar, la vita è più gradevole.
Succede che Carlos Más, quell’attore che per averlo tanto interpretato
rimase nel ricordo come il disoccupato della televisione, celebrava il suo
compleanno nel bar del ristorante La Roca e siccome invitava tutti i suoi
compagni dell’ICRT che passavano da lì, ad accompagnarlo nel condividere le
bevute, il conto cresceva e cresceva ad ogni istante. Quando decise di
andarsene e cercò il portafogli nella tasca, per pagare quello che aveva
consumato si accorse, terrorizzato, di non averlo. Aveva già chiesto il conto e
Richard, il cameriere glie l’aveva portato. Carlos Más spiegò la situazione e
chiese che gli dette l’opportunità per andare a casa a prendere i soldi.
Richard disse che non c’era nessuna opportunità e che doveva pagare il conto al
momento. Carlos Más pregò e Richard rimase sulle sue. Fu allora che l’attore,
disperato esclamò:
-Ma tu mi conosci, sono Carlos Màs.
E Richard, immutabile, rispose:
-E io sono Federico Engels e devi liquidarmi il conto.
Intrecciare la fune
Abel Prieto si dispiace, nel prologo, della pericolosa tendenza al
dimenticatoio. Muore una figura profonda della nostra cultura e non tardiamo a
vederla ad ogni istante sempre più distante e offuscata, nonostante gli si
offra un ricordo fugace in occasione dei suoi anniversari. “Adesso per fortuna,
rileggendo le cronache che Enrique ha pubblicato su Juventud Rebelde, compartiamo ancora quell’uomo dall’umore
acutissimo e la parola scintillante e fluida che traspirava cubania da ogni suo
poro ed era capace di dotare di equilibrio e senso anche l’aneddoto
apparentemente più triviale”.
A misura che lavorava nella selezzione dei testi che conformavano El vecino de los bajos, Túpac Pinilla
che è un lettore intelligente e critico acuto, si accorge dei feticci di suo
nonno alla ora di “intrecciare la corda” che era come chiamava l’atto di
scrivere – trucchi, manie e ossessioni -. Mentre avanzava, inciampava
continuamente in un insistente frammento che si insinuava in qualunque cronaca,
qualunque fosse il suo tema. Alludeva al bolerista Pablo Quevedo e diceva, con
leggere varianti: “Quevedo non ha inciso dischi si è portato via la sua voce
intima e piccola, come per proteggerla. Il suo ricordo si estinguerà con
l’ultima testimonianza: ‘Quevedo se ne è andato. Della sua voce non rimane
niente’. E con l’ultima testimonianza scomparirà, anche, quel mito lontano di
sonore campanelle di cristallo”.
Túpac scrive: “La sua era un’allerta tenera e seria – molto pertinace –
sulla fragilità dell’effimero, ma la sua sorprendente ricorrenza mi strappava
le risate. Ebbene, voglio invitarvi a che, con queste stesse risate, tenere e
serie avitiamo a Enrique il destino di Quevedo.
Lo scriba, con questa pagina, si aggiunge con modestia a questo
proposito.
El sótano acogedor de Núñez Rodríguez
Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
2 de Agosto del 2014 18:42:40 CDT
Acaba de aparecer un libro de Enrique Núñez Rodríguez. Se titula El
vecino de los bajos y compila 99 de las crónicas que su autor publicó
en la edición dominical de Juventud Rebelde entre 1987 y 2002, que fue
el año de su muerte.
Tuvo Núñez Rodríguez una larga y fructífera relación con este
periódico. La columna que mantuvo en él nutrió casi todos sus libros,
desde los muy populares Yo vendí mi bicicleta (1989) y Mi vida al
desnudo (2000) hasta los menos recordados Oyee, como lo cogieron
(1991) y Gente que yo quise (1995). Pero quedaba mucho material suyo
en los archivos del diario, y de allí se sacaron las crónicas que
conforman este volumen recién publicado.
Pero, ¿por qué ese título de El vecino de los bajos, que publica
Ediciones Unión? Sucede que durante años, Enrique mantuvo su espacio
en lo que él llamó el “acogedor sótano” de la página tres del
periódico de los domingos, mientras que los “altos” se reservaban a
Gabriel García Márquez. Cuando se agotaron las valiosas colaboraciones
del autor de Cien años de soledad, la dirección del periódico ofreció
“el piso de arriba” a Enrique. Algunos seguidores le instaban a
reclamar el espacio que dejaba el colombiano. La antigüedad, la
constancia y la larga permanencia en el trabajo --decían los lectores--
concedían a Enrique el derecho al ascenso.
El humorista declinó la propuesta de la dirección del diario y desoyó
la demanda del público. Adujo que “no es fácil, en el periodismo,
acreditar una columna y establecer el hábito, entre los lectores, de
buscarla en la misma página y en el mismo sitio”. Añadió que era
alérgico a las mudadas y que el traslado de sitio dentro de la página
no se avenía con su “sedentarismo habitacional”. Por último, expresó
al director de JR, “que las caídas desde el piso bajo son menos
dolorosas”.
Por otra parte, ese sótano le permitió hacerse de “un envidiable
mirador hacia las alturas”. Desde allí se sintió más que complacido
con la compañía de autores latinoamericanos consagrados, como Eduardo
Galeano, Mario Benedetti y Arturo Alape, entre otros, quienes le
hicieron mantener “la vista fija en las alturas”, al igual que de
jóvenes creadores cubanos, como Leonardo Padura, quienes le dieron
lecciones de buen periodismo.
Ayude al artista cubano
Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
2 de Agosto del 2014 18:42:40 CDT
Acaba de aparecer un libro de Enrique Núñez Rodríguez. Se titula El
vecino de los bajos y compila 99 de las crónicas que su autor publicó
en la edición dominical de Juventud Rebelde entre 1987 y 2002, que fue
el año de su muerte.
Tuvo Núñez Rodríguez una larga y fructífera relación con este
periódico. La columna que mantuvo en él nutrió casi todos sus libros,
desde los muy populares Yo vendí mi bicicleta (1989) y Mi vida al
desnudo (2000) hasta los menos recordados Oyee, como lo cogieron
(1991) y Gente que yo quise (1995). Pero quedaba mucho material suyo
en los archivos del diario, y de allí se sacaron las crónicas que
conforman este volumen recién publicado.
Pero, ¿por qué ese título de El vecino de los bajos, que publica
Ediciones Unión? Sucede que durante años, Enrique mantuvo su espacio
en lo que él llamó el “acogedor sótano” de la página tres del
periódico de los domingos, mientras que los “altos” se reservaban a
Gabriel García Márquez. Cuando se agotaron las valiosas colaboraciones
del autor de Cien años de soledad, la dirección del periódico ofreció
“el piso de arriba” a Enrique. Algunos seguidores le instaban a
reclamar el espacio que dejaba el colombiano. La antigüedad, la
constancia y la larga permanencia en el trabajo --decían los lectores--
concedían a Enrique el derecho al ascenso.
El humorista declinó la propuesta de la dirección del diario y desoyó
la demanda del público. Adujo que “no es fácil, en el periodismo,
acreditar una columna y establecer el hábito, entre los lectores, de
buscarla en la misma página y en el mismo sitio”. Añadió que era
alérgico a las mudadas y que el traslado de sitio dentro de la página
no se avenía con su “sedentarismo habitacional”. Por último, expresó
al director de JR, “que las caídas desde el piso bajo son menos
dolorosas”.
Por otra parte, ese sótano le permitió hacerse de “un envidiable
mirador hacia las alturas”. Desde allí se sintió más que complacido
con la compañía de autores latinoamericanos consagrados, como Eduardo
Galeano, Mario Benedetti y Arturo Alape, entre otros, quienes le
hicieron mantener “la vista fija en las alturas”, al igual que de
jóvenes creadores cubanos, como Leonardo Padura, quienes le dieron
lecciones de buen periodismo.
Ayude al artista cubano
Túpac Pinilla, el nieto de Enrique Núñez Rodríguez, compiló y editó El
vecino de los bajos. La gente reclamaba la reedición de los libros del
autor, todos totalmente agotados. Luego de bucear en los archivos,
Pinilla prefirió sacar a la luz esos 99 textos. Les dio un orden
cronológico. La distribución de las crónicas a través de los años no
es equilibrada en modo alguno, asegura Pinilla. Así, por ejemplo, de
1990 se recogen 25 crónicas, y nueve de 1996; pero solo cuatro
corresponden a 2001, y tres al año 2000. “Aquellos períodos menos
representados aquí fueron cantera esencial de los anteriores libros
del autor”, escribe el compilador.
¿De qué tratan esas crónicas? Tratan, sencillamente, de la vida. Son
páginas de recreación autobiográfica, de memoria espejeante, de
evocación de hechos y personas. Visión incisiva del fluir cotidiano.
Peripecias e intimidades del mundo de la farándula, del teatro, la
radio y la televisión. Crónicas escritas con desenfado, ajenas a todo
tipo de estiramiento, sin pretensiones moralizantes y en las que la
risa es, a veces, temblor inesperado y también una puntada a fondo.
Núñez Rodríguez, precisa Abel Prieto, no se inmiscuyó en cuestiones
teóricas; se limitó a recordar y contar, y así dejó su aporte a
nuestra permanente e incansable definición colectiva y polifónica de
“lo cubano”.
Enrique, dice el propio Abel en el prólogo de la obra, fue un cazador
de seres anónimos. Los protagonistas de sus páginas son entonces
jugadores de cubilete y buscavidas de toda laya. Periodistas que
inventan las noticias. Barberos. Hermanas solteronas que discuten casi
a puñetazos para rebajarse la edad. El manco de las dos manos que
tiene, sin embargo, huellas dactilares en su carné electoral. El ex
recluso simpático que asesina a su mujer. Maestros, curas, rumberas,
cocineros. No falta el cantante aficionado que hacía lo suyo a bordo
de un ómnibus o en cualquier esquina, y que luego de su actuación
pasaba el “cepillo” a la voz de “Ayude al artista cubano”.
Escribe Abel Prieto que cuando el cronista escogía el núcleo de su
página y su personaje central, se colocaba invariablemente en las
antípodas del periodismo efectista. Adoptaba un punto de vista
antagónico al del paparazzi, al del cazador de escándalos, de
“famosos”, de “estrellas”. En todo caso, subraya Abel, Enrique sería
más bien un cazador de situaciones insignificantes que resultaban, de
súbito, iluminadoras.
Páginas transidas por la nostalgia. La noviecita que regresa, olorosa
a jazmín de El Cabo, desde el fondo de una ingenua y dolorosa ternura.
El amigo olvidado que recorre de nuevo las calles, en noche de
verbena, a la caza de unos ojos que hoy miran nietos. El hijo de
Quemado de Güines que empieza a conocer todas las rutas de guagua de
la capital y que se enorgullece de que el bodeguero de la esquina lo
llame ya por su nombre, aunque para graduarse de habanero le falta aún
cometer el sacrilegio de suplantar la comida de la tarde por el café
con leche y el pan con mantequilla de los desayunos, y bañarse por la
mañana, antes de salir para el trabajo, en vez de hacerlo por la
tarde, como se hace en el resto del país.
Cuando mucha gente de localidades del interior se aseguraba el pasaje
de regreso al terruño si se disponía a correr su aventura habanera,
Enrique Núñez Rodríguez compró el boleto de venida, sin regreso, y, en
vísperas del viaje, vendió su bicicleta, como forma de confirmarse a
sí mismo de que no habría retorno para él.
Se haría abogado en la Universidad de La Habana y se sintió habanero
desde sus días de estudiante. La Habana para él fue no solo la Colina
universitaria con sus 88 escalones hacia la esperanza y la casa de
huéspedes de la calle San Miguel, 1023, a la que llamaba La Posada
Maldita, y en donde por 17 pesos mensuales le garantizaban hospedaje y
tres comidas diarias, y aún quedaba crédito para que le dieran un poco
de cariño. Su Habana fue también la del tranvía U-4 Playa-Estación
Central, la del bodegón de Teodoro y el hotel Andino, aledaños a la
Universidad, el romance clandestino en escaleras oscuras, el traje
pagado a plazos y las manifestaciones estudiantiles. “El hecho de
haber visto nacer a nuestros hijos en La Habana, diría más tarde,
bastaría por sí mismo para que los que no nacimos aquí nos sintamos
habaneros”.
El platico de dulce
vecino de los bajos. La gente reclamaba la reedición de los libros del
autor, todos totalmente agotados. Luego de bucear en los archivos,
Pinilla prefirió sacar a la luz esos 99 textos. Les dio un orden
cronológico. La distribución de las crónicas a través de los años no
es equilibrada en modo alguno, asegura Pinilla. Así, por ejemplo, de
1990 se recogen 25 crónicas, y nueve de 1996; pero solo cuatro
corresponden a 2001, y tres al año 2000. “Aquellos períodos menos
representados aquí fueron cantera esencial de los anteriores libros
del autor”, escribe el compilador.
¿De qué tratan esas crónicas? Tratan, sencillamente, de la vida. Son
páginas de recreación autobiográfica, de memoria espejeante, de
evocación de hechos y personas. Visión incisiva del fluir cotidiano.
Peripecias e intimidades del mundo de la farándula, del teatro, la
radio y la televisión. Crónicas escritas con desenfado, ajenas a todo
tipo de estiramiento, sin pretensiones moralizantes y en las que la
risa es, a veces, temblor inesperado y también una puntada a fondo.
Núñez Rodríguez, precisa Abel Prieto, no se inmiscuyó en cuestiones
teóricas; se limitó a recordar y contar, y así dejó su aporte a
nuestra permanente e incansable definición colectiva y polifónica de
“lo cubano”.
Enrique, dice el propio Abel en el prólogo de la obra, fue un cazador
de seres anónimos. Los protagonistas de sus páginas son entonces
jugadores de cubilete y buscavidas de toda laya. Periodistas que
inventan las noticias. Barberos. Hermanas solteronas que discuten casi
a puñetazos para rebajarse la edad. El manco de las dos manos que
tiene, sin embargo, huellas dactilares en su carné electoral. El ex
recluso simpático que asesina a su mujer. Maestros, curas, rumberas,
cocineros. No falta el cantante aficionado que hacía lo suyo a bordo
de un ómnibus o en cualquier esquina, y que luego de su actuación
pasaba el “cepillo” a la voz de “Ayude al artista cubano”.
Escribe Abel Prieto que cuando el cronista escogía el núcleo de su
página y su personaje central, se colocaba invariablemente en las
antípodas del periodismo efectista. Adoptaba un punto de vista
antagónico al del paparazzi, al del cazador de escándalos, de
“famosos”, de “estrellas”. En todo caso, subraya Abel, Enrique sería
más bien un cazador de situaciones insignificantes que resultaban, de
súbito, iluminadoras.
Páginas transidas por la nostalgia. La noviecita que regresa, olorosa
a jazmín de El Cabo, desde el fondo de una ingenua y dolorosa ternura.
El amigo olvidado que recorre de nuevo las calles, en noche de
verbena, a la caza de unos ojos que hoy miran nietos. El hijo de
Quemado de Güines que empieza a conocer todas las rutas de guagua de
la capital y que se enorgullece de que el bodeguero de la esquina lo
llame ya por su nombre, aunque para graduarse de habanero le falta aún
cometer el sacrilegio de suplantar la comida de la tarde por el café
con leche y el pan con mantequilla de los desayunos, y bañarse por la
mañana, antes de salir para el trabajo, en vez de hacerlo por la
tarde, como se hace en el resto del país.
Cuando mucha gente de localidades del interior se aseguraba el pasaje
de regreso al terruño si se disponía a correr su aventura habanera,
Enrique Núñez Rodríguez compró el boleto de venida, sin regreso, y, en
vísperas del viaje, vendió su bicicleta, como forma de confirmarse a
sí mismo de que no habría retorno para él.
Se haría abogado en la Universidad de La Habana y se sintió habanero
desde sus días de estudiante. La Habana para él fue no solo la Colina
universitaria con sus 88 escalones hacia la esperanza y la casa de
huéspedes de la calle San Miguel, 1023, a la que llamaba La Posada
Maldita, y en donde por 17 pesos mensuales le garantizaban hospedaje y
tres comidas diarias, y aún quedaba crédito para que le dieran un poco
de cariño. Su Habana fue también la del tranvía U-4 Playa-Estación
Central, la del bodegón de Teodoro y el hotel Andino, aledaños a la
Universidad, el romance clandestino en escaleras oscuras, el traje
pagado a plazos y las manifestaciones estudiantiles. “El hecho de
haber visto nacer a nuestros hijos en La Habana, diría más tarde,
bastaría por sí mismo para que los que no nacimos aquí nos sintamos
habaneros”.
El platico de dulce
Evoca El vecino de los bajos costumbres cubanas entrañables. Escribe
en la crónica que tituló El postre del domingo:
“Hay costumbres cubanísimas que no debieran desaparecer. Mi mamá fue
una excelente repostera. Mi abuela materna, también. Recuerdo nombres
que ya no escucho: mala rabia, subío, boniatillo sato...
“Había entonces, entre los vecinos, la agradable costumbre de pasarse,
por encima de la cerca, un platico con buñuelos recién hechos o una
panetela horneada en casa --lo cual es un decir: podía cocinarse en una
cazuela, porque tener un horno constituía algo así como ostentar un
título nobiliario...
“En eso de pasarse el platico de postre sobre la cerca, además de lo
que significaba en cuanto a solidaridad humana, había una especie de
religión: devolver el platico, pero devolverlo vacío constituía una
infamante herejía. Así, si llegaba con mermelada de mango, tenía que
regresar con dulce de leche, ese milagro de suaves y deliciosos
grumos, con su rajita de canela en rama y un ligero toque de cáscara
de limón”.
Supo el cronista recoger sin amargura la áspera cotidianidad del
período especial y hasta supo hacernos reír en medio del drama de
sobrevivir que caracterizó aquella etapa. En las páginas de este libro
advierten los especialistas la risa reflexiva y filosófica del
humorista. También está presente la voluntad del autor por provocar la
risa a secas, de hacernos pasar un rato agradable con lo que escribe,
como lo hace en la crónica que titula En el bar, la vida es más
sabrosa.
Sucede que Carlos Más, aquel actor que de tanto interpretarlo quedó en
el recuerdo como el cesante de la televisión, celebraba su cumpleaños
en el bar del restaurante La Roca, y, como invitaba a todos sus
compañeros del ICRT que pasaban por el lugar a que lo acompañaran a
compartir los tragos, la cuenta crecía y crecía por momentos. Cuando
decidió marcharse y buscó la billetera en el bolsillo para pagar lo
consumido, comprobó, horrorizado, que no la tenía. Había pedido ya la
cuenta, y Richard el camarero se la trajo. Carlos Más le explicó la
situación y pidió que le diera un chance para ir a su casa a buscar el
dinero. Richard adujo que no había chance alguno, que debía liquidar
la cuenta al momento. Rogó Carlos Más, y Richard en sus trece. Fue
entonces que el actor, desesperado, exclamó:
--Pero tú me conoces a mí. Yo soy Carlos Más.
Y Richard, sin inmutarse, repuso:
--Y yo soy Federico Engels y me tienes que liquidar la cuenta.
Trenzar la ristra
Se duele Abel Prieto en el prólogo de la peligrosa tendencia a la
desmemoria. Fallece una figura entrañable de nuestra cultura y no
tardamos en verla cada vez más distante y borrosa, aunque le
ofrendemos un recuerdo fugaz en ocasión de sus aniversarios. “Ahora,
por fortuna, releyendo las crónicas que publicó Enrique en Juventud
Rebelde, vamos a compartir de nuevo con aquel hombre de humor
agudísimo y palabra chispeante y fluida, que transpiraba cubanía por
cada uno de sus poros y era capaz de dotar de gravitación y sentido a
la anécdota en apariencia más trivial”.
A medida que trabajaba en la selección de los textos que conforman El
vecino de los bajos, Túpac Pinilla, quien es lector inteligente y
crítico agudo, advierte sobre los fetiches de su abuelo a la hora de
“trenzar la cuerda”, que era como llamaba al acto de escribir --trucos,
manías y obsesiones--. Mientras avanzaba tropezaba a ratos con un
insistente fragmento que se colaba en cualquier crónica, fuera cual
fuera su tema. Aludía al bolerista Pablo Quevedo y decía con ligeras
variantes: “Quevedo no grabó discos, y se llevó su voz íntima,
pequeña, como para protegerla. Su recuerdo se extinguirá con el último
testigo: ‘Ya Quevedo se ha marchado. De su voz no queda nada’. Y con
el último testigo, desaparecerá, también, aquel mito lejano de sonoras
campanitas de cristal”.
Escribe Túpac: “Era la suya una alerta tierna y seria --y muy pertinaz--
sobre la fragilidad de lo efímero, pero su sorpresiva recurrencia me
arrancaba la risa. Quiero invitarlos, pues, a que con esa misma risa,
tierna y seria, evitemos para Enrique el destino de Quevedo”.
El escribidor, con esta página, se suma con modestia a ese propósito.
Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/
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