Pubblicato su Juventud Rebelde del 24/8/14
Cintio Vitier lo
chiama “l’ossesso”. Altri più bruschi, meno delicati lo chiamano “il pazzo”. Lo
sfortunato poeta José Jacinto Milanés passò metà della sua vita nella notte
della follia.
Era un male
ereditario? Lo provocarono quelle strane febbri di cui patì nel 1839 e che si
diceva gli avessero danneggiato il cervello? Amori contrastati lo portarono
alla demenza?
José Lezama Lima
scriveva nel 1965: “Milanés è un esempio, come Heredia, delle impossibilità che
crescono nel nostro miglior spirito. Lo schiacciarono difficoltà economiche. La
famiglia, numerosa, doveva essere sostenuta con frequenza. Dove credette di trovare
soluzioni e aiuto, come nel suo amore per la cugina, gli si trasformarono in
divinità ostili. Alla fine la pazzia gli chiuse la strada in modo inesorabile”.
È certo che c’erano
precedenti di demenza nella famiglia del poeta; riferimenti molto vicini come
quella sorella di sua madre, la zia Pastora, “alta secca incartapecorita”,
sempre seduta imbronciata e accigliata nella modesta sala della casa e che,
quando sentiva il piano, correva all’interno della casa tappandosi le orecchie
con le mani per non sentire le cose poco decorose che diceva il piano. Il
poeta, d’altra parte, fu sempre un tipo strano. Quelli che lo conobbero
parlarono della sua estrema sensibilità, del suo temperamento ingenuo,
semplice, impressionabile. Si sa che quando debuttò, nel 1838 al teatro Tacón
dell’Avana, il suo dramma El conde
Alarcos, Milanés, insicuro di sé e con i nervi a pezzi davanti alla
possibilità che la reazione del pubblico fosse avversa, si negò a presenziare
la messa in scena della sua opera.
“In molti dei versi
di Milanés, specialmente ne El beso,
dietro il tono idilliaco si sente un’idea fissa, un’ossessione: l’ossessione
della purezza che è, naturalmente, l’ossessione dell’impurità. Non possiamo
sapere il ruolo che, nel suo crescente desequilibrio psichico, giocò
l’insuccesso del suo amore per Isa. Più giovane di 14 anni di lui e di una
famiglia molto potente. Ci è solo permesso scoprire nei suoi versi una costante
ossessiva, nevrotica, legata allo scrupolo e alla colpa iperbolizzata che
raggiunge ne El mendigo la sua
formulazione più profonda. Si tratta di un mendicante alla porta di un ballo.
Il poeta, trascinato dalla tormenta sensuale, entra senza farci caso, apparentemente
però la sua immagine gli si registra per ossessionarlo e riapparire
inesorabile, vendicativa, dalla parte dell’ombra...”, dice Cintio.
Essenza della cubania
José Jacinto Milanés
Fuentes, nacque nella città di Matanzas il 16 agosto del 1814, 200 anni orsono.
Era il primo dei 15 figli di Rita e Álvaro, un modesto impiegato pubblico che
la vedeva nera nel tentativo di coprire le necessità della sua numerosa prole.
La mancanza di risorse lo costrinse a iscrivere il figlio in una scuola
pubblica. Era di apparenza fragile e sguardo sognante, meditabondo, discreto.
Dedicava alla lettura quasi tutti i suoi momenti liberi. Divorava un libro
dietro l’altro nella sala della casa, assieme alla zia Pastora, sempre in un
ostinato silenzio e lo sguardo perso. Altre volte, di malavoglia, Josè Jacinto
cercava di condividere i divertimenti dei suoi fratelli e cugini. Perché di
fronte a loro abitavano Isabel, la sorella di doña Rita, sposata con il ricco
commerciante Don Simón de Ximeno e i loro sei figli.
José Jacinto non poté
effettuare studi regolari, ma per conto suo imparò latino, francese e italiano.
Correva già l’anno 1830 e voleva lavorare per aiutare, così, il sostentamento
della famiglia. Suo zio Don Simón, con molte ralzioni, gli trova lavoro in una
ferramenta del’Avana. Qui, l’epidemia di colera del 1833 sorprende il poeta che
non tarda a tornare nella sua città natale, dove lavora nell’ufficio dello zio
acquisito.
Nel 1834, Domingo del
Monte si stabilisce a Matanzas e fa amicizia con Milanés, come con tutti i
giovani dalle inquietudini letterarie. È grazie a Del Monte che nel 1841, si
nomina il poeta come segretario della Compagnia Ferroviaria matanzera, lavoro
che consente a José Jacinto una certa sicurezza economica. Ne può appena
godere, c’è già alle porte la pazzia.
Corrisponde a questi
anni la maggior attività creatrice di Milanés. Scrive alcuni drammi, come il
già citato Alarcos, ma è nella
lirica dove raggiunge il suo maggior rilievo. Gli studi dividono la sua poesia in tre fasi. Una
iniziale, idilliaca, caratterizzata per l’ingenuità lirica, una svenevole
malinconia e l’espressione vaga dei sentimenti amorosi. Nella seconda fase si
avverte l’influenza di Del Monte; si inclina verso i temi sociali e, dice
Salvador Bueno, il “moralismo filantropico converte in secca e rigida la soave
musa del poeta matanzero” che vuole, con la sua opera, censurare vizi e
riformare costumi. Verso il 1840, la sua terza tappa segna un giro all’origine
della prima. A questo periodo corrispondono poemi come De codos en el puente (Di
gomiti sul ponte, n.d.t.) e La fuga
della Tórtola (La fuga della colomba, n.d.t.).
Lezama Lima si
domandava se, per lo sviluppo del poeta, furono davvero convenienti le
indicazioni che gli fece Domingo del Monte. L’autore di Paradiso precisava: “Del Monte volle portare Milanés all’apologia
moralizzante, al pastiche del teatro
spagnolo, a una poesia di una fattura più ambiziosa che il temperamento di
Milanés potesse ralizzare”. Perché per Lezama, il miglior Milanés sta nella
depurata semplicità con cui si affaccia alla natura, come lo fa nel poema
intitolato La madrugada (Prima
dell’alba, n.d.t.). Dice Lezama: “Nelle poesie che scrive nel modo de La madrugada, come sono La fuga de la Tórtola e El beso, si vede agile, pieno di
incanto. Con un veloce riflesso dove penetrano sottili e profonde le nostre più
pure essenze”.
Cintio Vitier
osserva, da parte sua, che tutta l’opera poetica di Milanés, incluso le sue
composizioni moralizzanti, sono “legate al tema centrale delle sue migliori
poesie e a quella che, probabilmente, l’ossessione dominante della sua vita,
che finì nella follia: l’ossessione della purezza”.
Amori disgraziati
Ne La madrugada, c’è un’allusione
all’insuccesso amoroso del poeta. Si sente il nostalgico avvertire che la
natura si integra in amori piacevoli, mentre lui sente: “Guardo tanta unione e
piango/la mia solitudine perpetua”.
Quasta soltudine, di
qualcuno, fu il preludio alla pazzia dell’autore de La fuga de la tórtola. Federico Milanés, poeta notevole egli
stesso, editore delle oper di suo fratello, volle tenere un velo protettore
sulla vita amorosa di José Jacinto, cosa che non poté evitare che venissero
alla luce i suoi amori con Dolores Rodríguez y Varela. Era la cugina dello
scrittore di costume José María Cárdenas y Rodríguez e il poeta aveva 20 anni
quando la conobbe, un’epoca in cui egli stesso si presenta – e forse non è vero
– come “di bell’aspetto, allegro e frequentatore di balli e feste”. Lo attrasse
la bellezza di Dolores e alcuni suppongono che giunsero a essere fidanzati. In
ogni modo lei lo disdegnò. Al rispetto Federico Milanés scrisse che “stanco di
amarla invano, desistette dal vederla e parlarle, consacrandosi a pensieri
tristi e a vertere nelle sue composizioni poetiche una sequela di pianti e
lamenti per la sua solitudine”. Di
quest’epoca data La madrugada. Alla
fine smise di visitare la casa di Dolores; ruppe con lei.
Allora entra in scena Isabel
Ximeno, Isa. Sono cugini, come si è già detto e il poeta che è tutta una gloria
locale, a 28 anni, le raddoppia tranquillamente l’età. Sorgono problemi
riguardanti Isa, la madre di Josè Jacinto e la madre di Isabel osservano questo
amore con preoccupazione. È probabile che don Simon volesse per sua figlia un
pretendente di quel cugino poveraccio e poeta. Non si sa con certezza, ma sono
da supporre gli inconvenienti e le difficoltà che avrebbe posto a quella
relazione la famiglia di Isabel.
È allora che cominciano a
vedersi i primi sintomi dell’alienazione del poeta. Sono inutili gli sforzi per
fargli recuperare la ragione. Medici dell’Avana, con cui la famiglia si era
consultata, suggeriscono un viaggio all’estero ed è il padre di Isa che
facilita i soldi necessari perché José Jacinto, accompagnato da Federico, visiti
gli Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Italia...un costoso periplo che alla
fine non giunge a risultati favorevoli. Il malato va di male in peggio. Soffre
attacchi di ira e gli si deve servira il cibo già tagliato per impedire che
aggredisca i famigliari o aggreda se stesso. Un pomeriggio scappò dalla
vigilanza dei suoi. Attraversò la strada e si diresse a casa di sua cugina. Nel
vederla irruppe in grida disperate.Isa, terrorizzata, fuggì verso il fondo
della casa. Carlotta, sorella di José Jacinto, prese per un braccio il poeta e
lo condusse a fare una passeggiata. Dopo un attacco di violenza rimaneva
racchiuso, malinconico, sottomesso a un mutismo assoluto.
Dolores e Maria de Ximeno y
Cruz scrisse, in un libro delizioso che ha per titolo Memorias de Lola Maria, che Carlotta passava notti intere al lato
di Josè Jacinto, trattando di distrarlo nelle sue insonnie. Come le sue
sorelle, sacrificò la gioventù e gli amori in virtù di quell’affetto. “Per
intrattenere le interminabili veglie d’inverno, alla luce di una lampada e
vicino al seggiolone dell’ammalato – che avvolto nella sua ampia cappa
spagnola dai riflessi granata, non si rendeva conto di niente – scriveva col pennino, in una
finissima tela di lino, con caratteri piccoli, stupende poesie in italiano,
tradotte in altri tempi da suo fratello.”.
È sempre Lola María che da
le notizie di Isabel Ximeno. La ritratta, nelle sue memorie, come “pura, degna,
intelligente, distintissima, delicatissima”. Racconta che un altro suo cugino –
Josè María Jenekes y Ximeno – innamorato perdutamente di lei e altrettanto
disprezzato, dimagrì, divenne addetto alle “bevande acide e non si sposò mai in
omaggio a quell’amore impossibile”.
Isa contrasse matrimonio.
Tra i suoi molti pretendenti si decise per quello che considerò il miglior
partito. Si sposò nel 1862 con Manuel Mahy y León, nipote del Capitano Generale
Nicolás Mahy, governatore dell’Isola di Cuba. La coppia si recò in Spagna e a
Madrid lei godette del riconoscimento di notevoli figura della Corte. Ventura
de la Vega le dedicò un poema, quando decise di tornare a Cuba. Morì a Matanzas
nel 1897.
Già per allora, José Jacinto
Milanés era morto. Il 14 novembre del 1863 era arrivata alla fine quella vita
dolorosa che imprigionò nella sua poesia e questo, è il suo apporto imperituro,
l’impronta dell’anima di Cuba.
23 de
Agosto del 2014 19:30:24 CDT
Cintio
Vitier le llama “el obseso”. Otros, más bruscos, menos delicados, le llaman “el
loco”. El desdichado poeta José Jacinto Milanés pasó la mitad de su vida en la
noche de la locura.
¿Fue un
mal hereditario? ¿Se lo provocaron aquellas extrañas fiebres que padeció en
1839 y que, se decía, le habían afectado el cerebro?
¿Amores
contrariados lo llevaron a la demencia?
José Lezama
Lima escribía en 1965: “Milanés es un ejemplo, al igual que Heredia, de las
imposibilidades que le van surgiendo a nuestros mejores espíritus. Dificultades
económicas lo acosan. La familia, muy numerosa, tiene que apuntalarse con
renovada constancia. Donde cree encontrar soluciones y facilidades, como en su
amor por la prima, se le vuelven divinidades hostiles. Por último, la locura le
cierra su camino en forma inexorable”.
Cierto es
que había antecedentes de demencia en la familia del poeta; referencias muy
cercanas como aquella hermana de su madre, la tía Pastora, “alta, seca y
apergaminada”, sentada siempre, arisca y ceñuda, en la modesta sala de la casa,
que cuando escuchaba el piano corría hacia el interior de la vivienda con las
manos tapándose los oídos para no escuchar las cosas poco decorosas que el
piano decía. El poeta, por otra parte, fue siempre un tipo raro. Los que lo
conocieron hablaron de su sensibilidad extrema, de su temperamento ingenuo,
sencillo, impresionable. Ya se sabe que cuando en 1838 se estrenó en el teatro
Tacón, de La Habana, su drama El conde Alarcos, Milanés, inseguro de sí mismo y
con los nervios destrozados ante la posibilidad de que la reacción del público
le fuese adversa, se negó a presenciar la puesta en escena de su obra.
“En muchos
de los versos de Milanés, especialmente en El beso, detrás del tono idílico se
siente una idea fija, una obsesión: la obsesión de la pureza, que es, desde
luego, la obsesión de la impureza. No podemos saber el papel que en su
creciente desequilibrio psíquico jugó el trauma producido por el fracaso de sus
amores con Isa, 14 años más joven que él y de familia más pudiente. Solo nos
está permitido detectar en sus versos una constante obsesiva, neurótica, ligada
al escrúpulo y a la culpa hiperbolizados, que alcanza en El mendigo su más
profunda formulación. Se trata de un mendigo a la puerta de un baile. El poeta,
arrastrado por el torbellino sensual, entra sin hacerle caso, aparentemente,
pero su imagen se le graba para obsesionarlo y reaparecer inexorable, vengativa,
en el lado de la sombra...2, dice Cintio.
Esencias de lo cubano
José
Jacinto Milanés Fuentes nació en la ciudad de Matanzas, el 16 de agosto de
1814, hace ahora 200 años. Era el primero de los 15 hijos de Rita y Álvaro, un
modesto empleado de Hacienda que se las veía negras en el intento de cubrir las
necesidades de su numerosa prole. La carencia de recursos obligó a matricular
al niño en una escuela del Ayuntamiento. Era de apariencia frágil y mirada soñadora,
meditabundo, discreto. Dedicaba a la lectura casi todos sus ratos libres.
Devoraba un libro tras otro en la sala de la casa, junto a la tía Pastora,
siempre en cerrado silencio y la mirada extraviada. Otras veces, a
regañadientes, José Jacinto trataba de compartir los jubilosos entretenimientos
de sus hermanos y primos. Porque frente a ellos vivían Isabel, la hermana de
doña Rita, casada con el rico comerciante don Simón de Ximeno, y sus seis
hijos.
No puede
José Jacinto hacer estudios regulares, pero por su cuenta aprende latín,
francés e italiano. Corre ya el año de 1830 y quiere trabajar y ayudar así al
sostenimiento familiar. Su tío don Simón, muy relacionado, le consigue empleo
en una ferretería de La Habana. Aquí, la epidemia de cólera de 1833 sorprende
al poeta, que no demora en regresar a su ciudad natal, donde trabaja en las
oficinas de su tío político.
En 1834
Domingo del Monte se establece en Matanzas y hace amistad con Milanés, al igual
que con todos los jóvenes con inquietudes literarias. Es gracias a Del Monte
que se nombra al poeta, en 1841, secretario de la Compañía del Ferrocarril
matancero, empleo que posibilita a José Jacinto cierta seguridad económica.
Apenas puede disfrutarla, pues está ya a las puertas de la locura.
Corresponde
a estos años la mayor actividad creadora de Milanés.
Escribe
algunos dramas, como el ya citado Alarcos, pero es en la lírica donde alcanza
su mayor relieve. Los estudiosos dividen su poesía en tres etapas. Una inicial,
idílica, caracterizada por la ingenuidad lírica, una desmayada melancolía y la
expresión vaga de los sentimientos amorosos. En su segunda etapa se advierte la
influencia de Del Monte; se inclina hacia los temas sociales y, dice Salvador
Bueno, el <<moralismo filantrópico convierte en seca y enteca la suave
musa del poeta matancero>> que quiere, con su obra, censurar vicios y
reformar costumbres. Hacia 1840, su tercera etapa marca una vuelta a la
prístina inspiración de la primera. A este período corresponden poemas como De
codos en el puente y La fuga de la tórtola.
Se
preguntaba Lezama Lima si, para el desarrollo del poeta, fueron en verdad
convenientes las indicaciones que le hizo Domingo del Monte.
Precisaba
el autor de Paradiso: “Del Monte quiso llevar a Milanés al apólogo moralizante,
al pastiche del teatro español, a una poesía de más ambiciosa factura de la que
el temperamento de Milanés podía
Realizar”.
Porque para Lezama, el mejor Milanés está en la depurada
sencillez
con que se asoma a la naturaleza, como lo hace en el poema titulado La madrugada.
Dice Lezama: “En las poesías que escribe a la manera de La madrugada, como son
La fuga de la tórtola y El beso, luce ágil, lleno de encantamiento, con un
rápido reflejo por donde penetran, finas y hondas, las más depuradas esencias
de lo nuestro”.
Cintio
Vitier observa, por su parte, que toda la obra poética de Milanés, incluso sus
composiciones moralizantes, están “ligadas al tema central de sus mejores
poesías, y a lo que fue probablemente la obsesión dominante de su vida, que
terminó en la locura: la obsesión de la pureza”.
Amores desgraciados
En La
madrugada hay una alusión al fracaso amoroso del poeta. Se siente nostálgico al
advertir que la naturaleza se integra en amores placenteros, mientras que él
siente: “Miro tanto enlace y lloro /Mi continua soledad”.
Esa
soledad fue, dicen algunos, el preludio de la locura del autor de La fuga de la
tórtola. Federico Milanés, poeta notable él mismo y editor de la obra de su
hermano, quiso tender un manto protector sobre la vida amorosa de José Jacinto,
lo que no consiguió evitar que salieran a la luz sus amores con Dolores
Rodríguez y Varela. Era prima del escritor costumbrista José María Cárdenas y
Rodríguez, y el poeta tenía 20 años cuando la conoció, una época en la que él
se presenta a sí mismo --y quizá no sea cierto-- como “bien parecido, alegre y
frecuentador de bailes y fiestas”. Lo atrajo la belleza de Dolores y algunos
suponen que llegaron a ser novios. De cualquier manera, ella lo desdeñó. Al
respecto escribió Federico Milanés que “cansado de amarla en vano, desistió de
verla y hablar, consagrándose a cavilaciones tristes y a verter en sus
composiciones poéticas un raudal de llanto y quejas por su soledad”. De esa
época data La madrugada. Al final dejó de visitar la casa de Dolores; rompió
con ella.
Entra
entonces en la escena Isabel Ximeno, Isa. Son primos, como ya se ha dicho, y el
poeta, que es ya toda una gloria local, con 28 años, le dobla tranquilamente la
edad. Surgen poemas dedicados a Isa, y la madre de José Jacinto y la madre de
Isabel observan ese amor con preocupación. Es probable que don Simón quiera
para su hija un pretendiente de mayores beneficios que aquel primo pobretón y
poeta.
No se sabe
con certeza, pero es de suponer los inconvenientes y dificultades que pondría a
aquella relación la familia de Isabel.
Es
entonces que empiezan a mostrarse los primeros síntomas del desvarío del poeta.
Son inútiles los esfuerzos por hacerle recuperar la razón. Médicos de La
Habana, con los que consulta la familia, recomiendan un viaje al exterior y es
el padre de Isa quien facilita el dinero necesario para que José Jacinto,
acompañado por Federico, visite Estados Unidos, Inglaterra, Francia, Italia...
un costoso periplo que no arroja a la larga resultados favorables. El enfermo
va de mal en peor. Sufre ataques de furia y se impone servirle la comida ya
cortada para evitar que agreda a familiares o termine por agredirse él mismo.
Una tarde escapó a la vigilancia de los suyos. Cruzó la calle y se dirigió a
casa de su prima. Al verla, prorrumpió en gritos desesperados. Isa, aterrada,
huyó hacia el fondo de la vivienda.
Carlota,
hermana de José Jacinto, cogió del brazo al poeta y lo llevó a dar un paseo.
Tras un ataque de violencia, quedaba ensimismado, melancólico, sumido en un
mutismo absoluto.
Dolores
María de Ximeno y Cruz escribió en un libro delicioso que lleva por título
Memorias de Lola María, que Carlota pasaba noches enteras al lado de José
Jacinto, tratando de distraerle en sus insomnios. Al igual que sus hermanas,
sacrificó juventud y amores en aras de aquel afecto. “Para entretener las
interminables veladas de invierno, a la luz de una lámpara y junto al sillón
del enfermo --que, envuelto en su amplia capa española con embozo grana, de
nada se daba
cuenta--
escribía con la aguja, en una finísima tela de lino, con caracteres pequeños,
hermosas poesías en italiano, traducidas en otro tiempo por su hermano”.
Es también
Lola María quien da noticias de Isabel Ximeno. La retrata en sus memorias como
“pura, digna, inteligente, distinguida,
Delicadísima”.
Cuenta que otro primo suyo --José Marías Jenekes y
Ximeno--
enamorado perdidamente de ella y también despreciado, dio en enflaquecer, se
hizo adicto a las “bebidas ácidas y nunca casó en homenaje a aquel amor
imposible”.
Isa sí
contraería matrimonio. Entre sus muchos pretendientes se decidió por lo que
consideró el mejor partido. Se casó en 1862 con Manuel Mahy y León, sobrino del
capitán general Nicolás Mahy, gobernador de la Isla de Cuba. Viajó a España la
pareja, y en Madrid gozó ella del reconocimiento de figuras muy notables de la
Corte.
Ventura de
la Vega le dedicó un poema cuando decidió volver a Cuba.
Falleció
en Matanzas en 1897.
Ya para
entonces José Jacinto Milanés había muerto. El 14 de noviembre de 1863 había
llegado a su fin aquella vida adolorida que apresó en su poesía, y ese es su
aporte imperecedero, la impronta del alma de Cuba.
Ciro Bianchi Ross
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