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giovedì 31 marzo 2016
Ri-nascita del turismo a Cuba
Tempo fa ho pubblicato (a rate), su questo blog, una storia molto condensata di come ho visto rinascere il turismo a Cuba, ora ne ho preparata una versione un po' più "diluita" e meglio documentata che sto registrando alla Società Cubana per i Diritti di Autore in forma di "saggio", anche la parola non è troppo adeguata a me.
la mia infinita vanità prevede di farne un'edizione in spagnolo e una in inglese, sperando di trovare qualche editore interessato. Comunque non ho fretta, visto che ho una lunga vita davanti a me...
Ho l'imbarazzo della scelta sulle 2 copertine, entrambe su disegno di Roberto Romanò, ma GOOOOOOOGLE, col valido aiuto di ETECSA, non mi lascia pubblicarle...domani è un altro giorno, si vedrà. Naturalmente, se riuscirò, mi aspetto una valanga di voti/referendum per l'una o per l'altra (vale a dire almeno 2 o 3). Grazie.
Ho l'imbarazzo della scelta sulle 2 copertine, entrambe su disegno di Roberto Romanò, ma GOOOOOOOGLE, col valido aiuto di ETECSA, non mi lascia pubblicarle...domani è un altro giorno, si vedrà. Naturalmente, se riuscirò, mi aspetto una valanga di voti/referendum per l'una o per l'altra (vale a dire almeno 2 o 3). Grazie.
martedì 29 marzo 2016
Cal, il silenzioso, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 27/3/16
Con motivo dell’apparizione
in questo giornale, della mia pagina sulla visita all’Avana del presidente nordamericano Calvin Coolidge, in un giornale del sud della Florida si è
pubblicato, con la firma di Glenn Garvin, un articolo che affronta altri
aspetti del soggiorno avanero del citato presidente che soprannominavano,
ricorda la nota “Cal il silenzioso” e di cui si giunse a dire che mostrava
l’espressione di qualcuno “allattato con un cetriolino sottaceto”.
Garvin mette alla sua nota
il titolo di Sconfitta della democrazia e vittoria della baldoria, così,
d’acchito, da l’idea al lettore di dove andranno gli spari. Afferma subito che
quella visita fu “un festival di ubriacature e libertinaggio, contrabbando
salace e perfino atti innaturali con torte di limone”. La stampe, al suo
momento, non rivelò niente di questo. Questo sfondo venne a lla luce 30 anni
dopo, quando il giornalista Beverly Smith fece suonare un’allarme in un
articolo pubblicato nel Saturday Evening Post. “Un racconto di fate – scrive
Garvin -, con elementi di pompa, dramma, commedia e farsa; di dignità rigida e
comportamento indecoroso; di diplomazia del cappello di bicchieri con un tocco
di alcolismo”
Garvin precisa che Coolidge
non partecipò alla depravazione generale. Se alcuni avaneri credettero di
vedere il presidente scivolando per le vie delle zone di tolleranza della
città, elegante, con un cappello a bombetta completamente fuori luogo, si
sbagliarono completamente. È che tra i giornalisti che lo accompagnavano, uno
che somigliava molto al Presidente, si faceva passare per lui. Lo stesso che
sostituendo il presidente frequentava i bar dell’Avana suscitando l’ammirazione
e la simpatia della clientela, splendida al momento del convivio e che non
risparmiava di pagargli tutte le bevute che fosse capace di ingerire. Smith
scriveva sul suo articolo del 1959: “Sospetto che ci siano ancora alcuni
avaneri vecchi che credono che Cal, fuori dal suo orario di lavoro, era un
allegro bevitore”.
In ogni modo l’aneddoto
segnò il soggiorno avanero del Presidente nordamericano. Si dice che il
presidente Gerardo Machado invitò Coolidge e la sua signora e che visitassero
la tenuta avicola sperimentale che alimentava il Governo cubano. Quando la
prima dama si avvicinò a uno dei pollai, osservò stupita come un gallo
“calpestava” freneticamente una gallina.
- “Con che frequenza lo fa?”
– chiese a uno dei lavoratori.
-“Decine di volte al giorno
– rispose l’interpellato.
-Bene lo dica al presidente,
quando passa.
Così fece il lavoratore.
Coolidge allora domandò se il gallo “calpestasse” sempre la stessa gallina.
-“No, è una diversa ogni
volta – rispose il lavoratore e il presidente non tardo con la sua risposta:
-“Dica questo a mia moglie.
L’aneddoto, naturalmente è
apocrifo. La storica Amity Shales, nella sua biografia di Coolidge, pubblicata
nel 2013, afferma che fece l’impossibile per trovare elementi che lo
confermassero. “Non ho trovato prove che fosse certo”, conclude.
Un
presidente uscente
In quel già lontano mese di
gennaio del 1928, quando venne a Cuba, Coolidge era un presidente uscente che
cercava di chiudere il suo soggiorno alla casa Bianca con un successo nella
politica estera”, scrive Glenn Garvin nel suo articolo. Aggiunge che cercava di
calmare la crescente avversità dei cubani con le alte tariffe zuccheriere degli
U.S.A. che danneggiavano l’economia dell’Isola e di placare le critiche
generalizzate in America Latina per gli interventi militari statunitensi in
Nicaragua, Haiti e nella Repubblica Dominicana. Questi furono i suoi propositi
nel rispondere in modo affermativo all’invito di Machado per assistere alla
Sesta Conferenza Panamericana dell’Avana.
Si dice che si proponeva di
usare la riunione per dare impulso alla sua campagna a favore di un trattato, a
livello mondiale, di rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale.
Il Senato degli U.S.A. si era negato ad approvare la partecipazione del Paese
alla Lega delle Nazioni otto anni prima, ma Coolidge pensò che poteva riuscire
a che fosse approvata se ci si concentrava semplicemente nel proibire la
guerra, senza creare una burocrazia internazionale come parte dell’accordo.
In ultima istanza perse in
tutto ciò che si propose, affermano gli specialisti. Nonostante Coolidge
promise al governante cubano di abbassare le tariffe, questo non avvenne mai –
di fatto, un paio d’anni dopo si alzarono le imposte sullo zucchero che gli
U.S.A. compravano da Cuba. D’altra parte, gli sforzi per placare l’America
Latina rispetto agli interventi statunitensi non vennero mai messi in pratica,
perché Coolidge ordinò ai suoi marines che tornassero in Nicaragua, giusto poco
prima di partire per l’Avana.
Il trattato di pace a
livello mondiale di Coolidge che finì per essere conosciuto come il Patto
Briand-Kellogg, fu approvato da oltre cinque dozzine di Paesi. Ma questo non
impedì a nessuno di tuffarsi di testa nella Seconda Guerra Mondiale, una decade
più tardi, ciò che fece dell’accordo citato, l’atto diplomatico più inutile
della storia universale.
“Non sono sicura di quanto
fosse convinto di ciò”, afferma Amity Shales nella biografia. “Egli fece tutto
con certa malinconia, il tipo di cose che uno fa quando qualcosa è d’accordo
coi suoi principi, ma non prova molta gioia nel farlo. Coolidge non si sentiva
bene; pensava che la presidenza lo stesse sfinendo, ma in realtà era malato di
cuore. E stava sentendo la solitudine che circonda un presidente quando tutti
quanti si rendono conto che non contuerà ad essere presidente per molto tempo e
cominciano ad adulare il nuovo”.
Ricevimento
da apoteosi
Otto navi della Marina
Militare nordamericana si resero necessari per trasportare, da Key West, il
Presidente e la sua comitiva, della quale faceva parte il famoso aviatore
Charles Lindbergh il primo ad attraversare, in solitario, l’oceano Atlantico a
bordo del suo aereo Spirit of St. Luis. Già di fronte all’Avana, una piccola
imbarcazione lo portò sulla sponda. Si riunirono duecentomila persone, lungo le
strade, per acclamarlo nel suo breve percorso dal porto al Palazzo
Presidenziale, dove si sarebbe alloggiato con sua moglie e i suoi principali
collaboratori, mentre il resto della comitiva alloggiava all’hotel Sevilla e
altre installazioni. Ci fu una nota simpatica al ricevimento; otto o dieci
ragazze vestite in modo vistoso e molto truccate, lanciarono rose al passaggio
dell’automobile che trasportava il presidente. Erano le pupille di un vicino
postribolo, portavano la bandiera nordamericana e assistettero all’atto di
benvenuto in compagnia della loro maitresse che pure non volle restare nella
casa.
Quando Coolidge, alla fine,
si ritirò a riposare al terzo piano della magione della calle Refugio, numero 1,
giornalisti ed editorialisti rimasero liberi per iniziare il giornalismo
investigativo...nei bar della città. Venivano da un Paese nel quale vigeva il
Proibizionismo dal 1920 che proibiva le bevande alcoliche e obbligava ad
arrischiarsi in cantine clandestine, dove l’accesso dipendeva da parole d’ordine
o frasi in codice. Per i giornalisti e funzionari del Governo che si aggiunsero
all’avventura, si apriva la città che a detta di Alejo Carpentier, poteva
offrire la maggior quantità di bevute al palato del viaggiatore curioso, dove
una coppia non doveva esibire il certificato di matrimonio per trovare
ospitalità in un hotel e nella quale si poteva scommettere –vincere o perdere- qualsiasi somma di denaro nelle roulettes del
Casinò Nazionale senza richiamare l’attenzione delle autorità. I visitatori
cercarono bar come il Floridita o lo Sloppy Joe’s, o quelli degli alberghi
Florida, Sevilla, Plaza e Inglaterra, i più intraprendenti si spostavano fino
ai bar o ai piccoli cabaret che nella Playa di Marianao si conoscevano col nome
generico de “las fritas”. Ci furono visite ai teatri pornografici e non furono
pochi quelli che si recarono al quartiere di Colón al fine di cercare emozioni
indimenticabili tra le gambe di una ragazza cubana.
Alcuni degli articoli che
apparvero su Coolidge e la sua visita a Cuba nella stampa nordamericana, furono
scritti sotto l’influenza dell’alcol, dice Glenn Garvin e offre questa perla che
pubblicò The New York Times nella quale si inizia riferendosi all’abbigliamento
protocollare dei funzionari cubani e termina facendosi incoerente. Dice:
“Siccome non si poteva trovare un paio di calzini corti grigi in tutta
l’Avana, uno stato di perturbazione prevalse fino a che gli investigatori si
accertarono che fu un falso allarme”.
In realtà la festa e il
divertimento erano cominciati a Key West, quando i passeggeri si resero conto
di aver lasciato indietro un Paese col Proibizionismo per trovare che a West con i suoi bar a porte spalancate, era semplicemente Key West. Ci furono
scherzi crudeli come quelle dei letti spalmati di torta di limone, con i quali
gli ubriachi si trovavano all’ora di andare a dormire.
Il presidente Calvin
Coolidge assistette, all’Avana, a una partita di pelota basca. L’ora del ritorno
intristì i membri della sua comitiva: tornavano al Paese della proibizione.
Presto un’altra notizia li rianimò: nessuno, nemmeno i reporters avrebbe fatto
dogana a Key West all’ingresso negli Stati Uniti, cosa che significava che chi
lo volesse, poteva portarsi tutto il rum che voleva. I venditori di liquore
cubani fecero festa. Furono molte le valigie che si comprarono in fretta e
furia per trasportare il miglior rum cubano contenuto in recipienti di circa
due litri e che più tardi i marines, con sogghigni complici, avrebbero messo a
bordo delle navi.
Chi approvò questa
gigantesca operazione di contrabbando? Si domandava, nel 1959, il giornalista
Beverly Smith nel suo articolo pubblicato nel Saturday Evening Post. “Sarebbe
stato, incredibilmente lo stesso Calvin, in un attacco di umore capriccioso che
qualcuno supponeva si nascondesse dietro la sua faccia acida del Vermont?”
Cal, el Callado
Ciro Bianchi Ross
26 de
Marzo del 2016 22:51:24 CDT
A raíz de
la aparición en este diario de mi página sobre la visita a La Habana del
presidente norteamericano Calvin Coolidge, se publicó en un periódico del sur
de Florida, y con la firma de Glenn Garvin, un artículo que aborda otras
aristas de la estancia habanera de dicho mandatario, a quien apodaban, recuerda
la nota, «Cal, el Callado» y de quien se llegó a decir que lucía la expresión
de «alguien a quien destetaron con un pepinillo encurtido».
Garvin da
a su nota el título de Fracaso de la diplomacia y triunfo de la juerga, y así,
de entrada, da al lector la idea de por dónde irán los tiros. Afirma enseguida
que aquella visita fue «un festival de borrachera y libertinaje, contrabando
salaz y hasta actos antinaturales con tartas de Key Lime». Nada de eso reveló
la prensa en su momento. Ese trasfondo salió a relucir 30 años después, cuando
el reportero Beverly Smith hizo sonar la alarma en un artículo publicado en el
Saturday Evening Post. «Un cuento de hadas —escribe Garvin—, con elementos de
pompa, drama, comedia y farsa; de dignidad rígida y juerga indecorosa; de
diplomacia de sombrero de copa con un toque de alcoholismo».
Precisa
Garvin que Coolidge no participó de la depravación general. Si algunos
habaneros creyeron ver al mandatario escurriéndose por las calles de las zonas
de tolerancia de la ciudad, tocado con un sombrero de copa totalmente fuera de
lugar, se equivocaron por completo. Y es que venía entre los periodistas que lo
acompañaron uno que se parecía mucho al Presidente y se hacía pasar por él. El
mismo que, suplantando al mandatario, recorría los bares de La Habana
despertando la admiración y la simpatía de la clientela, espléndida a la hora
de la convidada y que no escatimaba en pagarle todos los tragos que fuera capaz
de beber. Escribía Smith en su reportaje de 1959: «Sospecho que todavía hay
algunos habaneros viejos que creen que Cal, fuera de su horario de oficina, era
un alegre bebedor».
De
cualquier manera la anécdota matizó la estancia habanera del Presidente
norteamericano. Se dice que el presidente Gerardo Machado invitó a Coolidge y a
su esposa a que visitaran una granja avícola experimental que fomentaba el
Gobierno cubano. Cuando la Primera Dama se acercó a uno de los gallineros,
observó asombrada cómo un gallo «pisaba» frenéticamente a una gallina.
—¿Con qué
frecuencia hace eso? —preguntó a uno de los peones.
—Decenas
de veces al día —respondió el aludido.
—Pues
dígaselo al Presidente cuando pase.
Así lo
hizo el peón. Coolidge inquirió entonces si el gallo «pisaba» siempre a la misma
gallina.
—No, es
una diferente cada vez —contestó el peón, y el mandatario no demoró su
respuesta:
—Dígale
eso a mi esposa.
La
anécdota desde luego es apócrifa. La historiadora Amity Shlaes, en su biografía
de Coolidge publicada en 2013, afirma que hizo lo imposible por hallar
elementos que la sustentaran. «No encontré pruebas de que fuera cierta»,
concluye.
Un presidente saliente
En aquel
lejano ya mes de enero de 1928, cuando vino a Cuba, Coolidge era «un presidente
saliente que intentaba cerrar su estancia en la Casa Blanca con un logro de
política exterior», escribe Glenn Garvin en su artículo. Añade que trataba de
calmar la creciente inconformidad de los cubanos con las altas tarifas
azucareras de EE. UU. que acababan con la economía de la Isla, y de aplacar las
críticas generalizadas en Latinoamérica a las intervenciones militares
estadounidenses en Nicaragua, Haití y República Dominicana. Fueron esos sus
propósitos al responder de manera afirmativa a la invitación de Machado para
asistir a la Sexta Conferencia Panamericana de La Habana.
Se dice
que se proponía usar la reunión para impulsar su campaña a favor de un tratado
a nivel mundial de renuncia de la guerra como instrumento de política nacional.
El Senado de EE. UU. se había negado a aprobar la participación del país en la
Liga de las Naciones ocho años antes, pero Coolidge pensó que podría conseguir
que fuese aprobado si se concentraba simplemente en prohibir la guerra sin
crear una burocracia internacional como parte del acuerdo.
En última
instancia, fracasó en todo lo que se propuso, afirman especialistas. Aunque
Coolidge prometió al gobernante cubano bajar las tarifas, eso nunca sucedió —de
hecho, un par de años más tarde subieron los impuestos al azúcar que EE. UU.
adquiría en Cuba. Por otra parte, los esfuerzos por aplacar al resto de América
Latina con respecto a las intervenciones estadounidenses nunca se pusieron en
práctica, porque Coolidge ordenó a sus marines que regresaran a Nicaragua justo
antes de partir rumbo a La Habana.
El tratado
de paz a nivel mundial de Coolidge, que acabó siendo conocido como el Pacto
Briand-Kellogg, fue aprobado por más de cinco docenas de países. Pero eso no
impidió a nadie lanzarse de cabeza a la Segunda Guerra Mundial una década más
tarde, lo cual hizo del mencionado acuerdo el acto de diplomacia más inútil de
la historia universal.
«No estoy
segura de cuán convencido estaba él de nada de esto», afirma Amity Shlaes en la
biografía. «Él lo hizo todo con cierta melancolía, el tipo de cosas que uno
hace cuando algo está de acuerdo con sus principios, pero no encuentra mucho
placer en hacerlo. Coolidge no se sentía bien; pensaba que la presidencia
estaba agotándolo, pero en realidad estaba enfermo del corazón. Y estaba
sintiendo la soledad que rodea a un presidente cuando todo el mundo se da
cuenta de que él no va a seguir siendo presidente por mucho tiempo y empieza a
adular al nuevo».
Recibimiento apoteósico
Ocho
buques de la Marina de Guerra norteamericana se hicieron necesarios para
transportar desde Cayo Hueso al Presidente y su comitiva, de la que formaba
parte el famoso aviador Charles Lindbergh, el primero en atravesar en solitario
el océano Atlántico a bordo de su avión Espíritu de San Luis. Ya frente a La
Habana, una pequeña embarcación lo trajo a la orilla. Doscientas mil personas
se congregaron a lo largo de las calles para aclamarlo en su breve recorrido
desde el puerto hasta el Palacio Presidencial, donde se alojaría con su esposa y
sus principales colaboradores, mientras que el resto de la comitiva se alojaba
en el hotel Sevilla y otros establecimientos. Hubo una nota simpática en el
recibimiento: ocho o diez muchachas llamativamente vestidas y muy maquilladas
lanzaron rosas al paso del automóvil que conducía al mandatario. Eran las
pupilas de un prostíbulo cercano, portaban una bandera norteamericana y
acudieron al acto de bienvenida en compañía de su matrona, que tampoco quiso
quedarse en casa.
Cuando
Coolidge se retiró al fin a descansar en el tercer piso de la mansión de la
calle Refugio número 1, reporteros y editorialistas quedaron libres para
acometer el periodismo de investigación… en los bares de la ciudad. Venían de
un país donde, desde 1920, primaba la llamada Ley Seca, que prohibía las
bebidas alcohólicas y obligaba a arriesgarse en cantinas clandestinas, donde la
entrada dependía de contraseñas y toques en clave. Para los periodistas y
funcionarios del Gobierno, que se sumaron también a la aventura, se abría la
ciudad que, al decir de Alejo Carpentier, mayor cantidad de bebidas podía
mostrar al paladar curioso del viajero, donde una pareja no tenía que mostrar
el certificado de matrimonio para encontrar albergue en un hotel y en la que se
podía apostar —y ganar o perder— cualquier cantidad de dinero en las ruletas
del Casino Nacional sin llamar la atención de las autoridades. Buscaron los
visitantes bares como el Floridita y el Sloppy Joe’s o los de los hoteles
Florida, Sevilla, Plaza e Inglaterra, y los más osados se desplazaron hasta los
bares y cabaretuchos que en la playa de Marianao se conocían con el nombre
genérico de «las fritas». Hubo visitas a teatros pornográficos y no fueron
pocos los que acudieron al barrio de Colón a fin de buscar emociones
inolvidables entre las piernas de una muchacha cubana.
Algunos de
los artículos que sobre Coolidge y su visita a Cuba aparecieron en la prensa
norteamericana fueron escritos bajo la influencia del alcohol, dice Glenn
Garvin, y ofrece esta perla que publicó The New York Times en la que se comenzó
aludiendo al vestuario protocolar de los funcionarios cubanos y termina
haciéndose incoherente. Dice: «Como no se podía encontrar un par de polainas
cortas grises en toda La Habana, un estado de perturbación prevaleció hasta que
los investigadores se cercioraron de que se trataba de una falsa alarma».
En
realidad, la fiesta y la diversión habían comenzado en Cayo Hueso, cuando los
viajeros descubrieron que dejaban atrás un país sometido a la Ley Seca para
encontrar que Cayo Hueso, con sus bares abiertos de par en par, era
sencillamente Cayo Hueso. Hubo bromas crueles como las de las camas embarradas
con tartas de Key Lime, con las que se encontraban los borrachos a la hora de
acostarse.
El
presidente Calvin Coolidge asistió en La Habana a un partido de jai alai. La
hora del regreso entristeció a los miembros de su comitiva:
volverían
al país de la prohibición. Pronto otra noticia les devolvió el alma al cuerpo:
nadie, ni siquiera los reporteros, haría aduana en Cayo Hueso a su entrada en
Estados Unidos, lo que quería decir que el que lo deseara podría llevar todo el
ron que quisiera. Los licoreros cubanos hicieron su agosto. Fueron muchas las
maletas que se adquirieron de prisa para transportar el mejor ron cubano
envasado en recipientes de medio galón, que más tarde los marines, entre guiños
cómplices, subirían a los barcos.
¿Quién
aprobó esa gigantesca operación de contrabando?, se preguntaba en 1959 el
periodista Beverly Smith en su artículo publicado en el Saturday Evening Post.
«¿Habría sido, increíblemente, el mismo Calvin, en un arranque del humor
caprichoso que algunos suponían se ocultaba tras su cara de avinagrado de
Vermont?».
Ciro Bianchi Ross
lunedì 28 marzo 2016
Non sempre le notizie sono buone
Oggi ho avuto la triste notizia che Maricela Rego, una delle guide "storiche di lingua italiana" di Cubatur ci ha lasciato per un ictus cerebrale all'età di 58 anni. Era il sorriso e la dolcezza in persona.
Aprofitto per parlare di un altro tipo di "defunzione", certamente meno tragico, ma un duro colpo alla storia di questo Paese: l'Hotel Internacional di Varadero è stato abbattuto, secondo me un punto di vista criminale, poteva essere anche chiuso come installazione e mantenuto come Museo, vista la sua storia.
I geologi dicono che la sua prossimità alla linea di costa era pericolosa per la costruzione stessa e per la battigia...
Io non sono nemmeno lontanamente geologo e ho giocato poco anche con le formine e i secchielli, ma non mi dava questa impressione.
Al suo posto, qualche metro più arretrato, sorgerà un immenso resort con qualche migliaio di camere. Mi sorge un dubbio...a voi no?
domenica 27 marzo 2016
sabato 26 marzo 2016
Qualcosa è già realtà nei rapporti Cuba-USA
Non so e sia il primo caso, ma all'Avana è già attiva una piccola industria o forse meglio chiamarlo un grosso artigianato che si avvale della collaborazione di un'azienda nordamericana. Si della tratta "Adorgraf" che prepara confezioni con propaganda per altre aziende sia private che pubbliche, la maggior parte del loro lavoro, riguarda borse per acquisti in carta riciclabile in varie dimensioni e colori con il marchio e le scritte a scelta del cliente.
Questa collaborazione è possibile grazie ad una dell e modifiche decretate dal presidente Obama, tra le pieghe dell'embargo e che consente a entità statunitensi di operare con aziende private cubane.
giovedì 24 marzo 2016
Obama, Rolling Stones e Panfilo Epifanio
Come è ben noto proseguono
le visite storiche, dopo quella a dir poco clamorosa del Presidente Barack
Obama, adesso tocca ai Rolling Stones di cui devo confessare che gradisco solo
“Satisfaction”, con tante scuse ai milioni di fans che hanno in tutto il
pianeta.
Il noto, per chi segue i
fatti di Cuba, programma televisivo “La mesa redonda” oggi è stato dedicato
quasi completamente a loro e al concerto che terranno domani nella “Ciudad
Deportiva” della capitale dove già iniziano i bivacchi per poter prendere i
posti migliori. Sto scrivendo queste note alle 20.30 di giovedì, cioè
esattamente 24 ore prima dell’inizio del concerto. I cancelli saranno aperti al
pubblico alle 14 di domani, venerdì.
Dicevo che “La mesa redonda”
è stata quasi tutta dedicata ai Rolling perché, a sorpresa, nei minuti finali
hanno mostrato una scena della popolare casa di Panfilo Epifanio, il programma
umoristico e satirico, “Vivir del cuento”, in onda ogni lunedì sera sul
programma nazionale di Cubavisión, mentre il sabato va in onda sul canale Internazionale
in orari diversi, secondo i continenti e viene ripetuto, come tutto il blocco
del giorno per tre volte nele 24 ore.
Il presidente Obama in uno
dei discorsi tenuti all’Avana aveva menzionato, sorprendentemente, il programma
che dice molto seguito negli Stati Uniti, parlando in tema di mezzi di
comunicazione multimediali in genere. Quello che ha veramente stupito è stata
la sua comparsa come partecipante a uno sketch riguardante il gioco del domino,
dove mancava il quarto...non ho veramente parole per apprezzare questa sua
“verve”, oltre che da politico da uomo semplice e informato di quello che lo
circonda, sia vicino o lontano.
Ma, tornando alle Pietre Rotolanti,
ho avuto un’altra graditissima sorpresa, l’arrivo all’Avana dell’amica e grande
critica musicale de La Stampa, Marinella Venegoni incaricata, in fretta e furia
dal giornale, di “coprire” l’evento sicuramente di risonanza mondiale, non
certo solo cubana. Abbiamo passato una bella mattinata assieme passeggiando per
l’Avana vecchia che lei non vedeva da anni ed è rimasta piacevolmente colpita
dalla ristrutturazione di gran parte di essa e dal “risveglio” della vita nelle
strade invase, ormai, quasi più da turisti, almeno nel centro che da cubani.
Alla passeggiata è seguito un buon pranzetto nell’ambiente gradevole de La
Cocina de Lilia, già descritta tempo fa con dovizia di foto...
Nel tempo trascorso assieme
e che non è ancora finito, era inevitabile di parlare di suo marito, altro
grande giornalista de La Stampa, Mimmo Cándito, docente all’Università di Genova e sicuramente
uno dei migliori inviati, in assoluto che ci siano stati nelle guerre e
conflitti sparsi dappertutto. In particolare dal Libano, alla ex Jugoslavia e
via dicendo passando per Medio Oriente e Africa. Queste sue corrispondenze in
prima linea e l'esposizione all'uranio impoverito lo hanno, purtroppo, minato nella salute e di questo parla nel suo
ultimo libro: 55 Vasche, pubblicato
da Rizzoli. Purtroppo Mimmo non ha potuto venire con Marinella ed è rimasto a
Miami, ma per l’occasione ci siamo scambiati mail e telefonate “di lavoro” per
sua moglie, ma anche di piacere per tutti, compresa Cecilia che ha
condiviso la tavola con Marinella e con me. Domani la accompagnerò all’entrata
del concerto, ma siamo d’accordo che la andrò solo a riprendere. Son spiacente
per Jagger & c., ma non potranno contare con la mia presenza.
mercoledì 23 marzo 2016
Fantasmi in Jesús del Monte, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 20/3/16
Alla fine del XIX secolo e
inizio del XX non figurava ancora, tra i personaggi avaneri popolari, lo
strillone dei giornali. Non esisteva, semplicemente perché allora i giornali
avevano una circolazione che raggiungeva solo i ricchi e potenti che per motivi
culturali o per il desiderio di essere informati, appartenessero o meno a
un’elite che fra i suoi privilegi aveva quello di godere dell’abbonamento a un
giornale.
L’uomo che vendeva il
giornale per strada e inoltre annunciava le notizie principali – diligente
ausiliario della stampa, come qualcuno lo chiamò -, apparve più tardi come risultato
delle crescenti tirature e le edizioni successive che durante la giornata, facevano
i giornali e che necessitavano la loro distribuzione tra diversi settori del
pubblico.
Fotografie
e dettagli
Di uno di quei venditori di
giornali – venditori sul serio – parlò José M. Muzaurieta, giornalista
brillante, in una delle sue cronache. L’uomo nero, agile e scintillante,
vendeva El Imparcial, lo stesso giornale che vendette Kid Chocolate e
Muzaurieta che dirigeva tale giornale, ricordava che ogni giorno raccoglieva i
primi pacchi, appena usciti dalla tipografia e con ansia scorreva un esemplare
alla ricerca della notizia che avrebbe acclamato e che gli avrebbe permesso di muovere
i compratori alla curiosità.
Se nella prima pagina non
trovava niente che servisse per “l’attacco”, passava alle pagine interne, una a
una, fino ad arrivare all’ultima. Se un giorno il giornale “non usciva buono”,
esteriorizzava il suo disgusto, ma come venditore che era, tornava ad
immergersi nelle sue pagine alla ricerca di un gancio per la vendita, come in
quell’occasione, in cui stanco di cercare, tornò alla sezione della Polizia,
dove un piccolo ritaglio dava conto della denuncia di un individuo nel cui
domicilio, di notte, trascinavano catene e si produceva un rumore spaventoso
che non lo lasciava dormire.
Lo strillone fece salti di
gioia. Aveva trovato quello che cercava. Uscì come una freccia sulla strada.
Gridava: “Come sono i fantasmi in Jesús del Monte! Maltrattano e tormentano una
famiglia! El Imparcial con le ultime notizie! Fotografie e dettagli!”
A qualunque fatto, per
insignificante che fosse, quello strillone strappava profitto e dopo aver
venduto quattro o cinque pacchi, non era raro che tornasse al giornale per
prenderne altri.
Il colmo, ricordava
Muzaurieta, fu il giorno in cui non trovò nell’edizione del giorno niente,
assolutamente niente che servisse per le sue declamazioni e “attacchi”. Protestò,
si indignò, si rivolse malamente ai redattori fino a ricordare che era un
venditore e il suo compito era vendere. Nell’uscire dal Reparto Vendite
gridava: “El Imparcial! Figuratevi! El Imparcial con il crimine di domani!”
Il
letto e il seggiolone
Attorno al 1830, non c’erano
ancora alberghi all’Avana, ma nel 1828 si riportavano 1.157 “stanze interne da
affittare”. L’arredamento di queste stanze era sconcertante, d’acchito però gli
stranieri che le affittavano finivano per gradire sopratutto il letto.
Sui letti dell’epoca,
afferma Robert Francis Jamesson, ufficiale della Marina britannica, nelle sue Cartas habaneras (Letters from the Havana,
1820):
La più comunemente usata è
un semplice incrocio di legno sul quale si stende un pezzo di tela. Su di essa
si collocano un paio di lenzuola fra le quali uno si stende, mentre un’armatura
delicata sostiene una rete che lo avvolge per proteggerlo dalle zanzare. Questo
è quello che si chiama giaciglio. Ci vuole un po’ di abitudine per riconciliare
le ossa con lui, ma la freschezza che offre induce a preferirlo al materasso”.
Jamesson che fu il primo
rappresentante dell’Inghilterra davanti alla Commissione Mista per l’abolizione
della tratta dei negri – da lì il motivo del suo soggiorno sull’Isola –
descrive la giornata tipo dell’uomo con risorse nell’Avana di allora.
Cosa fa l’avanero quando non
ha niente da fare? Anche su questo
Jamesson si pronuncia nelle sue Cartas
habaneras. Si fa un bagno, si veste per il pranzo che quasi sempre è verso
le tre del pomeriggio, dorme la siesta..., dice. E indica in modo esplicito:
“Quando non c’è niente da fare si dondola su un seggiolone...”
Nei suoi commenti al libro
di Jamesson, l’erudito Juan Pérez de la Riva precisa che questo è uno dei
riferimenti più antichi al seggiolone a dondolo che si trovano nella letteratura.
Dondoli che secondo quello che crediamo, afferma Pérez de la Riva, fu inventato
da qualche cubano alla fine del XVIII secolo.
La
via della morte
Al principio, i condannati a
morte all’Avana, compivano la loro sanzione sulla forca, Questa macchina per
uccidere era installata nella piazza delle Orsoline, che sbocca nella calle di
Egido, la Calle Bernaza la si chiamava la via della forca perché conduceva fino
al luogo del patibolo. Nel 1810, quando non si era costruita ancora alla fine
del Paseo del Prado il Carcere di Tacón, la forca si mise nella spianata della
Punta. Nel 1834, Fernando VII, il re fellone, abolì l’uso della forca in Spagna
e in tutti i suoi domini. Sarebbe sostituita per la garrota. Per decine di anni
le esecuzioni erano state pubbliche, Poi, la garrota si mise all’interno dl
recinto carcerario. In questa spianata morirono alla garrota vil Narciso López,
Eduardo Facciolo e Ramon Pintó, fra gli altri. Anche Domingo Goicuría gardò
prigione in quel luogo, ma fu giustiziato, sempre con la garrota, alla Loma del
Príncipe, fortezza convertita in prigione politica dal 1976, quando la inaugurò
come tale, Antonio Nariño, precursore dell’indipendenza della Colombia.
La Audiencia Pretorial ebbe
sede e celebrò le sue riunioni nel piano principale del carcere di Tacón,
dall’apertura di questa installazione penitenziaria. Rimase in quel posto già
come Audiencia de La Habana, fino al 1938.
Nel 1930, eccetto la parte
occupata dall’Audiencia, il Carcere Nuovo che per quella data era già vecchio,
vecchissimo, rimase vuoto. Nel vetusto edificio allora si installarono gli
uffici del Municipio e del Sindaco dell’Avana e lì rimasero, mentre si faceva
il restauro del palazzo municipale – antico Palazzo dei Capitani Generali, oggi
Museo della Città -, secondo quanto disposto dal sindaco Miguel Mariano Gómez.
Nove anni dopo, l’edificio
del Carcere era smantellato. Sul terreno dove si ergeva si costruì il Parco dei
Martiri, in ricordo di quanti soffrirono la prigione o la morte in quel luogo.
Non furono demolite, e come reliquie storiche formano parte del parco, due
celle di rigore dove si rinchiudevano i prigionieri più contumaci o quelli che
si volevano castigare con maggiore durezza. Inoltre rimase in piedi la cappella
dove numerosi eroi e martiri passarono le ultime ore della loro vita.
Quadrati
del Malecón
Edoardo Robreño dice nel suo
libro Cualquier tiempo pasado fue…
che quando sucede un penetrazione del mare, è nella calle Galiano, dove l’acqua
penetra per prima, dovuto a un dislivello abastanza profondo esistente in tale
luogo. Senza dubbio, quando il ciclone del ’26, l’acqua arrivò per Prado, fino
alla calle Colón. E quando il ciclone del ’19, giunse per Campanario fino alla
calle Ánimas, con conseguente allarme degli abitanti.
Dei quadrati che ha il Malecón,
quello compreso fra le calli San Nicolás e Manrique è dove battono più forte le
onde a causa del basso muro e del piccolo spazio occupato dagli scogli. Il muro
del Malecón che comincia in calle Lealtád è più basso del resto.
Plaza
de Armas
Alla fine del XVI secolo,
José Maria de la Torre, annota nel suo libro La Habana antigua y moderna, questo luogo, di piazza aveva solo il
nome. Ma fu “il centro da dove si irradiò” la città. Le rialzarono le
edificazioni dove, nel finale del XVIII secolo, si eressero attorno ad essa: il
Palazzo dei Capitani Generali e la Casa dell’Intendente o del Secondo Capo. Governatori
come il marchese de la Torre y de Someruelos, Juan Ruiz de Apodaca e Francisco
Dionisio Vives fecero opere che la abbellirono. Indubbiamente la Plaza de Armas
cadde in un abbandono totale negli anni finali della dominazione spagnola a
Cuba. Cessarono di avere luogo lì, per la guerra, le frequentate riunioni
serali e gli avaneri la frequentavano meno come luogo di svago.
La situazione si acutizzò
negli anni della prima occupazione militare nordamericana. Leonard Wood, uno
dei governatori intervenzionisti, fece togliere le panchine.
Occorreva che i giornalieri
del porto e gli impiegati delle aziende vicine, aspettavano lì l’ora di
iniziare il lavoro. Le loro conversazioni impedivano il sonno del proconsole, a
cui piaceva dormire la mattina. E la Plaza de Armas perse, con le sue panchine,
la sua condizione di bell’angolo coloniale.
Diciamo brevemente che fra
il 1899 e il 1902, il tempo che durò il primo intervento, all’Avana si costruì
un solo edificio pubblico, quello destinato alla Scuola di Arti e Mestieri,
nella calle Belascoaín.
Si dovette aspettare il 1926
perché si facesse il restauro del Palazzo del Secondo Capo. L’anno successivo
si restaurò il Tempietto e nel 1930 il Palazzo dei Capitani Generali.
In quella data, il Palazzo
del Secondo Capo ospitava il Senato della Repubblica e quando questi si
installò nel Capitolio, in questo edificio funzionò il Tribunale Supremo di
Giustizia.
Fantasmas en Jesús del Monte
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
19 de Marzo del 2016 21:11:58 CDT
19 de Marzo del 2016 21:11:58 CDT
A fines del
siglo XIX y a comienzos del XX no figuraba aún entre los personajes populares habaneros
el voceador de periódicos. No existía, sencillamente, porque los diarios de
entonces tenían una circulación que solo alcanzaba a los adinerados y
pudientes, quienes, por afanes culturales o por el deseo de estar informados,
pertenecían o aspiraban a pertenecer a una élite que, entre sus privilegios,
tenía el de gozar de la suscripción a un periódico.
El hombre que
vendía el periódico por la calle y además pregonaba las noticias principales
—diligente auxiliar de la prensa, como le llamó alguien—, apareció más tarde
como resultado de las tiradas crecientes y las sucesivas ediciones que, a lo
largo del día, hacían los diarios y que exigían su distribución entre sectores
dispersos del público.
Fotografías y detalles
De uno de
aquellos vendedores de periódicos —vendedores de verdad— habló José M.
Muzaurieta, periodista de anjá, en una de sus crónicas. El hombre, negro y ágil
y chispeante, vendía El Imparcial, el mismo periódico que vendió Kid Chocolate,
y Muzaurieta, que dirigía dicho diario, recordaba que en cada jornada recogía
los primeros los paquetes recién salidos de la imprenta y con afán revisaba un
ejemplar en busca de la noticia que vocearía y que le permitiría mover la
curiosidad de los compradores.
Si no
encontraba en la primera página nada que le sirviera para el «ataque», pasaba a
las páginas interiores, una a una hasta llegar a la última. Si un día el
periódico «no venía bueno», exteriorizaba su desagrado, pero como vendedor que
era volvía a sumergirse en sus páginas en busca de un gancho para la venta,
como en aquella ocasión, en que cansado de buscar, volvió sobre la sección de
Policía, donde un pequeño suelto daba cuenta de la denuncia de un individuo en
cuyo domicilio arrastraban cadenas por la noche y se producía un ruido
espantoso que le impedía dormir.
El voceador
dio saltos de júbilo. Había encontrado lo buscado. Como una flecha salió a la
calle. Gritaba: «¡Cómo están los espíritus en Jesús del Monte! ¡Maltratan y
atormentan a una familia! ¡El Imparcial con las últimas noticias! ¡Fotografías
y detalles!».
A cualquier
suceso, por insignificante que fuera, aquel voceador le sacaba lascas y luego
de vender cuatro o cinco paquetes, no era raro que volviera por más al
periódico.
El colmo,
recordaba Muzaurieta, fue la ocasión en que no encontró en el periódico del día
nada, absolutamente nada que le sirviera para sus pregones y «ataques».
Protestó, se indignó, despotricó contra los redactores hasta que recordó que él
era un vendedor y lo suyo era vender. Al salir del Departamento de Ventas,
gritaba: «¡El Imparcial! ¡Vaya! ¡El Imparcial con el crimen de mañana!».
La cama y el sillón
Hacia 1830 no
existían aún hoteles en La Habana, pero, en 1828, se reportaban 1 157 «cuartos
interiores» para alquilar. El mobiliario de esas habitaciones desconcertaba, de
entrada, a los extranjeros que las rentaban, pero terminaban agradeciendo,
sobre todo, la cama.
Sobre las
camas de la época afirma Robert Francis Jamesson, oficial de la Marina
británica, en sus Cartas habaneras (Letters from The Havana, 1820):
«La más
comúnmente usada es una simple cruceta de madera en la que se extiende un
pedazo de lona. Sobre ella se coloca un par de sábanas finas entre las cuales
uno se acuesta, mientras una delicada armazón sostiene una red que lo envuelve
a uno protegiéndolo de los mosquitos. Es lo que se llama catre. Hace falta un
poco de hábito para reconciliar los huesos con él, pero la frescura que ofrece
induce a uno a preferirlo al colchón».
Jamesson, que
fue el primer representante de Inglaterra ante la Comisión Mixta para la
abolición de la trata negrera —de ahí el motivo de su estancia en la Isla—
describe el día tipo de un hombre con recursos en La Habana de entonces.
¿Qué hace el
habanero cuando no tiene nada que hacer? Sobre ello también se pronuncia Jamesson
en sus Cartas habaneras. Toma un baño, se viste para el
almuerzo, que casi siempre es sobre las tres de la tarde, duerme la siesta…,
dice. Apunta de manera explícita: «Cuando no hay nada que hacer, puede mecerse
uno en un amplio sillón…».
En sus comentarios
al libro de Jamesson, el erudito Juan Pérez de la Riva precisa que esa es una
de las referencias más antiguas al sillón de balance que se hallan en la
literatura. Balance que según creemos, afirma Pérez de la Riva, fue inventado
por algún cubano a fines del siglo XVIII.
Camino de la muerte
En un comienzo
los condenados a muerte en La Habana cumplían su sanción en la horca. Esa
máquina de matar estaba instalada en la plaza de las Ursulinas, que se aboca
sobre la calle de Egido. A la calle de Bernaza se le llamaba el camino de la
horca, porque conducía hasta el lugar del patíbulo. En 1810, cuando aún no se
había construido al final del Paseo del Prado la Cárcel de Tacón, la horca se
situó en la explanada de la Punta. En 1834, Fernando VII, el rey felón, abolió
el uso de la horca en España y en todos sus dominios. Sería sustituida por el
garrote. Durante decenas de años las ejecuciones habían sido públicas. Luego el
garrote se ubicó en el interior del recinto carcelario. En esa explanada
murieron en garrote vil Narciso López, Eduardo Facciolo y Ramón Pintó, entre
otros. Domingo Goicuría también guardó prisión en el lugar, pero fue ejecutado,
igualmente en garrote, en la loma del Príncipe, fortaleza convertida en prisión
política desde 1796, cuando la estrenó como tal Antonio Nariño, precursor de la
independencia de Colombia.
La Audiencia
Pretorial radicó y celebró sus reuniones en el piso principal de la Cárcel de
Tacón desde la apertura de esa instalación penitenciaria. Y permaneció en ese
sitio, ya como Audiencia de La Habana, hasta 1938.
En 1930, salvo
la parte ocupada por la Audiencia, la Cárcel Nueva que en esa fecha era ya
vieja, viejísima, quedó vacía. En el vetusto edificio se instalaron entonces
las oficinas del Ayuntamiento y de la Alcaldía de La Habana, y allí estuvieron
mientras se efectuaba la restauración del palacio municipal —antiguo Palacio de
los Capitanes Generales, hoy Museo de la Ciudad—, según lo dispuesto por el
alcalde Miguel Mariano Gómez.
Nueve años
después el edificio de la Cárcel era desmantelado. Sobre el terreno donde se
asentó se construyó el Parque de los Mártires en recuerdo de cuantos sufrieron
prisión o muerte en ese lugar. No fueron demolidas y, como reliquias
históricas, forman parte del parque dos celdas bartolinas donde se encerraban a
los presos más contumaces o a aquellos a quienes se quería castigar con mayor
dureza. Quedó en pie además la capilla donde numerosos héroes y mártires
pasaron las últimas horas de su vida.
l
Cuadrados del malecón
Dice Eduardo
Robreño en su libro Cualquier tiempo pasado fue…,
que cuando ocurre un ras de mar es por la calle Galiano donde primero penetra
el agua, debido a un desnivel bastante profundo existente en dicho lugar. Sin
embargo, cuando el ciclón del 26, el agua llegó por Prado hasta la calle Colón.
Y cuando el ciclón del 19, llegó por Campanario hasta la calle Ánimas, con la
alarma consiguiente del vecindario.
De los
cuadrados que tiene el Malecón, el comprendido entre las calles San Nicolás y
Manrique es por donde más fuerte baten las olas, a causa de lo bajo del muro y
del pequeño espacio ocupado por los arrecifes.
El muro del
Malecón que empieza en la calle Lealtad es más bajo que el resto.
Plaza de armas
A fines del
siglo XVI, anota José María de la Torre en su libro La Habana antigua y moderna, ese sitio, de plaza, solo
tenía el nombre. Pero fue «el centro de donde irradió» la ciudad. La realzaron
las edificaciones donde en las postrimerías del XVIII se alzaron en torno a
ella: el Palacio de los Capitanes Generales y la Casa del Intendente o del
Segundo Cabo. Gobernadores como los marqueses de la Torre y de Someruelos, y
Juan Ruiz de Apodaca y Francisco Dionisio Vives, acometieron obras que la
embellecieron.
La Plaza de
Armas, sin embargo, cayó en un total abandono en los años finales de la
dominación española en Cuba. Dejaron de tener lugar allí, por la guerra, las
concurridas retretas nocturnas, y los habaneros la frecuentaban menos como
lugar para el esparcimiento.
La situación
se agudizó en los años de la primera ocupación militar norteamericana. Leonard
Wood, uno de los gobernadores intervencionistas, mandó a retirarle los bancos.
Sucedía que los jornaleros del puerto y empleados de establecimientos cercanos
esperaban allí la hora de empezar a trabajar. Sus conversaciones impedían el
sueño del procónsul, que gustaba de dormir la mañana. Y la Plaza de Armas
perdió con sus bancos su condición de bello rincón colonial.
Digamos de
paso que entre 1899 y 1902, el tiempo que duró la primera intervención, solo se
construyó en La Habana un edificio público, el destinado a la Escuela de Artes
y Oficios, en la calle Belascoaín.
Hubo que
esperar a 1926 para que se acometiera la restauración del Palacio del Segundo
Cabo. Al año siguiente se restauró el Templete y, en 1930, el Palacio de los
Capitanes Generales.
En esa fecha
el Palacio del Segundo Cabo daba albergue al Senado de la República, y cuando
este se instaló en el Capitolio, funcionó en ese edificio el Tribunal Supremo
de Justicia.
martedì 22 marzo 2016
Ultimo atto ufficiale (?!) di Obama all'Avana, la diplomazia del Baseball
Dopo una lunga e paziente attesa davanti allo stadio Latinoamericano, ho avuto la magra consolazione di poter dire; “quel giorno c’ero anch’io”. Il servizio di sicurezza sempre vigile, era meno opprimente che sulla Plaza e non poteva essere diversamente. Credo che tutto sia andato liscio con la predisposizione della viabilità per l’interminabile corteo che precedeva e seguiva l’auto presidenziale. Prima del suo arrivo si sono succedute altre file di veicoli di tutte le ambasciate accreditate a Cuba e di molti personaggi di spicco invitati all’incontro che non era accessibile ad un pubblico pagante.
L’attesa non è stata completamente vana dal momento che, almeno, sono riuscito a riprendere l’auto presidenziale e in un dettaglio si intravede un’ombra che mi da tutta l’impressione che si tratti proprio di lui.
Dopo la "diplomazia del Ping pong" inaugurata da Nixon è arrivata l'ora della "diplomazia del Baseball"...
Dopo la "diplomazia del Ping pong" inaugurata da Nixon è arrivata l'ora della "diplomazia del Baseball"...
Ricevo e pubblico dall'amico Luca Lombroso
ciao Aldo
come va, hai
incontrato Obama?
ti giro
questo articolo, l’idea è veramente bella, possibilità di realizzarsi, credo
prossime allo zero assoluto…. ma chissà…. magari, se vedi Obama, proponilo :-)
!
saluti,
Luca
Lombroso
R.: per Obama ne parlo in altri post, per il resto, sognare non costa niente, comunque sarebbe bello e possibile.
Trasformiamo Guantanamo in un
ponte ecologico di pace
Trasformiamo
Guantanamo nella “Woods Hole dei Caraibi”: in un grande centro di ricerca
specializzato in biologia ed ecologia del mare, con annesso parco della pace e
un’ampia area di conservazione della biodiversità.
Barack H. Obama si accingeva a partire per Cuba, primo presidente degli Stati Uniti a mettere piede sull’isola 88 anni dopo la visita effettuata da Calvin Coolidge nel 1928, quando venerdì 18 marzo Science, la rivista dell’American Association for the Advancement of Science (AAAS), la più grande associazione scientifica del mondo, pubblicava la proposta – o meglio, l’appello – con cui Joe Roman, del Gund Institute for Ecological Economics, della University of Vermont di Burlington, e di James Kraska, dello Stockton Center for the Study of International Law, dello U.S. Naval War College di Newport, gli ricordava l’impegno, riproposto di recente, di chiudere la controversa prigione aperta dopo l’11 settembre 2001 presso la U.S. Naval Station Guantánamo Bay. Trasformiamo questo impegno e il nuovo clima nei rapporti tra Stati Uniti e Cuba in un’opportunità. Usiamo l’ecologia come ponte di pace.
L’analisi di Roman e Kraska è, insieme, storica, politica e scientifica. I due ricercatori ricordano che gli Stati Uniti sono a Guantanamo da oltre cento anni, che il loro avamposto di 117 km2 è sopravvissuto, anzi, si è consolidato nel corso della guerra fredda ed è stato trasformato in una base della marina militare. All’interno di questa base dopo l’11 settembre è stata allestita una prigione in cui le leggi vigenti negli Stati Uniti sono sospese. Barack Obama vuole chiudere la prigione. Ma Cuba rivendica la piena sovranità sulla baia e gli Stati Uniti sanno che, prima o poi, dovranno lasciarla.
Di qui la proposta: trasformiamola subito in un centro di ricerca ecologica e in un luogo di collaborazione scientifica, che è il modo migliore per sviluppare la diplomazia della pace. Non sarebbe, dicono i due ricercatori americani, una forzatura. Ci sono molti presupposti.
Barack H. Obama si accingeva a partire per Cuba, primo presidente degli Stati Uniti a mettere piede sull’isola 88 anni dopo la visita effettuata da Calvin Coolidge nel 1928, quando venerdì 18 marzo Science, la rivista dell’American Association for the Advancement of Science (AAAS), la più grande associazione scientifica del mondo, pubblicava la proposta – o meglio, l’appello – con cui Joe Roman, del Gund Institute for Ecological Economics, della University of Vermont di Burlington, e di James Kraska, dello Stockton Center for the Study of International Law, dello U.S. Naval War College di Newport, gli ricordava l’impegno, riproposto di recente, di chiudere la controversa prigione aperta dopo l’11 settembre 2001 presso la U.S. Naval Station Guantánamo Bay. Trasformiamo questo impegno e il nuovo clima nei rapporti tra Stati Uniti e Cuba in un’opportunità. Usiamo l’ecologia come ponte di pace.
L’analisi di Roman e Kraska è, insieme, storica, politica e scientifica. I due ricercatori ricordano che gli Stati Uniti sono a Guantanamo da oltre cento anni, che il loro avamposto di 117 km2 è sopravvissuto, anzi, si è consolidato nel corso della guerra fredda ed è stato trasformato in una base della marina militare. All’interno di questa base dopo l’11 settembre è stata allestita una prigione in cui le leggi vigenti negli Stati Uniti sono sospese. Barack Obama vuole chiudere la prigione. Ma Cuba rivendica la piena sovranità sulla baia e gli Stati Uniti sanno che, prima o poi, dovranno lasciarla.
Di qui la proposta: trasformiamola subito in un centro di ricerca ecologica e in un luogo di collaborazione scientifica, che è il modo migliore per sviluppare la diplomazia della pace. Non sarebbe, dicono i due ricercatori americani, una forzatura. Ci sono molti presupposti.
Intanto una
certa attitudine dei cubani. Fin dalla Conferenza delle Nazioni Unite
sull’Ambiente e lo Sviluppo (UNCED) di Rio de Janeiro il governo dell’Avana ha
iniziato a prestare molta attenzione ai temi ambientali, con un’attenzione
particolare non solo ai cambiamenti climatici ma anche alla biodiversità.
Sull’isola sono molte, ormai, le zone protette. E, dunque, non desta meraviglia se il Jardines de la Reina (il Giardino della Regina), creato da Cuba nei mari che la circondano sia il più grande parco marino dei Caraibi.
C’è poi una comune condivisione del ruolo dell’ecologia. Non è neppure un caso, infatti, se tra i primi momenti di collaborazione tra Stati Uniti e Cuba ci sia la creazione, decisa alla fine del 2015, di luoghi di protezione e conservazione ecologiche comuni, che includono lo statunitense Florida Keys National Marine Sanctuary e il cubano Parque Nacional Península de Guanahacabibes.
Infine ci sono dei motivi scientifici diretti. La baia di Guantanamo è un ricco scrigno di biodiversità.
Se la base navale viene rimossa, le ricchezze contenute in questo scrigno possono essere non solo conservate ma anche arricchite.
L’area, ricordano Roman e Kraska, ospita molte specie endemiche, a iniziare dall’iguana cubana (Cyclura nubila); è un rifugio ideale per il manato delle Indie occidentali (Trichechus manatus); è un’area di nidificazione di una tartaruga (Chelonia mydas) in via di estinzione e un ottimo base per la Eretmochelys imbricata, un’altra tartaruga a rischio; sulla terraferma c’è un tipo di foresta, la tropicale secca, piuttosto rara a Cuba, mentre le spiagge sabbiose e le acque marine si trovano foreste di mangrovia, coralli e alghe di vario genere. Di particolare rilievo il granadillo (Brya ebenus, un albero tipico di Cuba e della Giamaica) e l’aragosta Panulirus argus. Tutte specie da difendere. Ma, sostengono i due ricercatori americani, ci sono anche specie aliene da cui difendersi: come il pesce leone (genere Pterois), il pesce gatto africano (Clarius gariepinus) o il marabou (Dichrostachys cinerea). Sono pesci che minacciano gli ecosistemi marini di entrambi i paesi e Stati Uniti e Cuba potrebbero iniziare a contrastarne l’invadenza insieme, partendo da Guantanamo.
La proposta di Roman e Kraska va, probabilmente, meglio formulata. Come ha notato Ferdinando Boero, biologo marino dell’università del Salento e dell’Istituto di scienze marine del Cnr, nonché presidente del consiglio scientifico di quella Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli che ha ispirato la creazione dei laboratori di Woods Hole, si parla di parco marino, di genetica, di sorveglianza via satellite, ma non si parla di ricerca sul campo. Ma, per ora questi sono dettagli.
Il messaggio forte è che la ripresa dei rapporti tra Stati Uniti e Cuba può essere facilitata dalla scienza e dalla consapevolezza ecologica. E, ancora una volta non a caso, i due ricercatori americani fanno appello a papa Francesco perché sponsorizzi la proposta che è in linea sia con la “riconversione ecologica” auspicata con l’enciclica Laudato si sia con la mediazione politica risultata determinante per il riavvicinamento tra l’Avana e Washington, dopo quasi sessant’anni di incomunicabilità.
Sull’isola sono molte, ormai, le zone protette. E, dunque, non desta meraviglia se il Jardines de la Reina (il Giardino della Regina), creato da Cuba nei mari che la circondano sia il più grande parco marino dei Caraibi.
C’è poi una comune condivisione del ruolo dell’ecologia. Non è neppure un caso, infatti, se tra i primi momenti di collaborazione tra Stati Uniti e Cuba ci sia la creazione, decisa alla fine del 2015, di luoghi di protezione e conservazione ecologiche comuni, che includono lo statunitense Florida Keys National Marine Sanctuary e il cubano Parque Nacional Península de Guanahacabibes.
Infine ci sono dei motivi scientifici diretti. La baia di Guantanamo è un ricco scrigno di biodiversità.
Se la base navale viene rimossa, le ricchezze contenute in questo scrigno possono essere non solo conservate ma anche arricchite.
L’area, ricordano Roman e Kraska, ospita molte specie endemiche, a iniziare dall’iguana cubana (Cyclura nubila); è un rifugio ideale per il manato delle Indie occidentali (Trichechus manatus); è un’area di nidificazione di una tartaruga (Chelonia mydas) in via di estinzione e un ottimo base per la Eretmochelys imbricata, un’altra tartaruga a rischio; sulla terraferma c’è un tipo di foresta, la tropicale secca, piuttosto rara a Cuba, mentre le spiagge sabbiose e le acque marine si trovano foreste di mangrovia, coralli e alghe di vario genere. Di particolare rilievo il granadillo (Brya ebenus, un albero tipico di Cuba e della Giamaica) e l’aragosta Panulirus argus. Tutte specie da difendere. Ma, sostengono i due ricercatori americani, ci sono anche specie aliene da cui difendersi: come il pesce leone (genere Pterois), il pesce gatto africano (Clarius gariepinus) o il marabou (Dichrostachys cinerea). Sono pesci che minacciano gli ecosistemi marini di entrambi i paesi e Stati Uniti e Cuba potrebbero iniziare a contrastarne l’invadenza insieme, partendo da Guantanamo.
La proposta di Roman e Kraska va, probabilmente, meglio formulata. Come ha notato Ferdinando Boero, biologo marino dell’università del Salento e dell’Istituto di scienze marine del Cnr, nonché presidente del consiglio scientifico di quella Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli che ha ispirato la creazione dei laboratori di Woods Hole, si parla di parco marino, di genetica, di sorveglianza via satellite, ma non si parla di ricerca sul campo. Ma, per ora questi sono dettagli.
Il messaggio forte è che la ripresa dei rapporti tra Stati Uniti e Cuba può essere facilitata dalla scienza e dalla consapevolezza ecologica. E, ancora una volta non a caso, i due ricercatori americani fanno appello a papa Francesco perché sponsorizzi la proposta che è in linea sia con la “riconversione ecologica” auspicata con l’enciclica Laudato si sia con la mediazione politica risultata determinante per il riavvicinamento tra l’Avana e Washington, dopo quasi sessant’anni di incomunicabilità.
luca lombroso
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