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lunedì 11 aprile 2016

Una professione dimenticata, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 3/4/16 

Quando lo scriba era bambino, il termine “chirrín” equivaleva a dar per conclusa qualunque cosa: un gioco di bocce o una relazione di amicizia. Voleva dire: c’è stato uno scivolone in terza base  e Chirrín! È finita la partita, o lei ha insistito che sua sorella la accompagnasse e chirrin!, finita la passeggiata. Alcuni, per enfatizzare l’azione, aggiungevano al chirrín un altro vocabolo: “chirrán” e quando veniva al caso dicevano, per esempio: chirrín chirrán ed è finita; cirrín chirrán  non ti amo più...come dice Juan Formell in una delle sue gustose composizioni.
Il vocabolo “chirrín” ha senza dubbio un’altra accezione. Lo scriba ignora fino a che punto è un cubanismo. In verità non appare nel Nuevocatauro di Fernando Ortíz, pubblicato nel 1974 e che è il più attualizzato e in quanto al tema chi scrive lo ha nella sua biblioteca.
Se in Colombia chirringo è sinonimo di piccolo, a Cuba si chiamava chirrín una aereo di poca capienza, qualcosa come un aeroplanino; e chirrinero era chi lo occupava. Si trattava di aerei con un motore solo che spostavano passeggeri o merci tra località interne dell’Isola dove non arrivava l’aviazione commerciale e che servivano anche per la ricreazione.
L’informazione me l’ha data l’amico e lettore Gabriel Valdés, un maestro in pensione che risiede nella città della Florida di Wellington e che conserva a fior di pelle le sue radici cubane, nonostante la sua lunga permanenza all’estero.
Conversavamo in un ristorante di Pompano Beach mentre, tra grandi boccali di birra scura, degustavamo un piatto tipicamente irlandese. Non per niente il pranzo occorse li passato 17 marzo, Giorno di San Patrizio, patrono degli irlandesi, quando la tradizione obbliga a mettersi qualcosa di verde addosso, a rischio di prendere un pizzicotto e si preferisce la birra scura o verde.
Chirrines – riferisce Gabriel con memoria invidiabile – erano gli aeroplanini di marca Aeronca, Luscombe, Taylorcraft e naturalmente, Super Piper Cruiser, Stinson e Cessna. Di questi ultimi, il Super Piper poteva trasportare due passeggeri più il pilota, mentre gli altri contavano di quattro sedili compreso quello dell’aviatore, sviluppavano una più velocità e potevano raggiungere una maggior distanza senza rifornirsi di carburante.
Il chirrín per eccellenza era il Piper J-3 per un solo passeggero. Questo aeroplanino fabbricato negli U.S.A. misurava poco più di 35 piedi da punta a punta mentre le ali, altri 23 di apertura; contava di 65 cavalli di forza e una velocità di crocera di 75 miglia, anche se poteva raggiungere una velocità massima maggiore. Il suo peso totale era di 1.200 libbre a pieno carico, pilota compreso.
Gabriel Valdés apporta un dettaglio interessante: i piloti di Cessna, Stinson e il Super Piper avevano una categoria superiore a quelli del Piper j-3. Ma erano tutti chirrineros e gli apparecchi erano chirrines.
Vivere dell’aria
“Chirrinero era chiunque viveva, quasi, in un chirrín. E che dotato di una licenza di aviatore civile (non tutti l’avevano in quei momenti) si guadagnava la vita onestamente. Che viveva dell’aria. Non era tutta ironia, in realtà era una vita avventurosa. I costi delle operazioni erano alti: caro il carburante, costosi i pezzi di ricambio, carissimi i materiali di manutenzione e ricostruzione.
E bisognava tenere i prezzi bassi. Ma si passavano i giorni in un clima quasi di allegria, godendo di emozioni che giungevano dal dominio degli orizzonti, della libertà di movimento e dal gusto intenso che mette al palato dell’uomo l’avventura impossibile. E non tutto era romanzo,come diceva quel grande aviatore francese, Antonio de Saint Exupéry, sotto quelle nuvole bianche e belle ci puó aspettare l’eternità”, scrisse il chirrinero Raoul García nelle memorie che dette a conoscere nel 1975.
Che pista utilizzava? Di che torre si avvaleva? Aveva una radio a bordo per comunicarsi?
Il chirrinero operava su campi d’erba, più che sulle piste pavimentate degli aeroporti. “Un sentiero pulito tra i campi di canna era una pista quasi perfetta”, diceva García e subito chiariva che un chirrinero operava anche in un aeroporto vero e proprio. “Esserlo era come una condizione spirituale. Una specie di boemio moderno, a cui importava di più l’occasione di volare, la tazza di caffè o la chiacchierata senza tempo più che i progetti di arricchimento. L’importante era il cielo aperto; l’odore dei pascoli; lui solo sulle ali; il cielo azzurro nel parabrezza; i cumuli benigni; la brezza muovendo i palmeti e il pennacchio orgoglioso di fumo delle ciminiere degli zuccherifici, conversando coi suoi vortici su vento e la sua direzione”.
Naturalmente di radio non ce n’erano, nella maggior parte dei chirrines. Il chirrinero, come il pescatore, presentiva la tormenta o la perturbazione. Quelli che l’avevano la riservavano per comunicarsi con le torri di controllo degli aeroporti, quando gli affari li portavano dove entravano e uscivano altri velivoli. Ma, precisava García, “eravamo cavallette gialle, rosse o blu portando i nostri carichi, i nostri passeggeri, i nostri entusiasmi per le aziende di raccolta di canna ed enormi recinti di cavalli...”
Dicevo che l’aviazione aveva la sua aria naturale in campagna, fra la gente della savana e dei campi di canna. Mentre, nelle città, avvertiva indifferenza, riguardo e timore, i contadini la ricevevano con meno paura e inibizioni, non solo quando la usavano come mezzo di divertimento.
Giorni di passaggi
Giorni di “passaggi” erano chiamate quelle giornate di festa, generalmente un sabato e preferibilmente una domenica, sempre nel tempo di raccolta della canna, Si arrivava a un accordo col padrone della terra che si sarebbe utilizzata come campo d’aviazione e non mancava chi assumeva l’offerta gastronomica.
Non era raro che si organizzasse una specie di fiera con giochi d’azzardo, tiro al bersaglio e corse di cavalli. Il campo si riempiva di pubblico.
La voce correva e la gente, a piedi, a cavallo o con un carretto, arrivava a volte da luoghi lontani. L’aviatore portava carburante in bidoni da cinque galloni e tramite un panno di camoscio filtrava il combustibile a misura che riforniva il chirrín.
La passeggiata con l’aeroplanino si faceva pagare un peso al minuto ed il tempo in volo era minimo di tre minuti. La gente si illudeva di poter far cadere un messaggio scritto sulla casa della madre, la fidanzata o l’innamorata.
Raoul garcía ricordava nelle sue memorie:
“Volavamo con bambini, donne impaurite che guardavano appena verso terra; ragazze vivaci a cui si strappava l’illusione con la sfida alla grande monotonia dei giorni.
Volavamo con uomini disinibiti e ostentosi che volevano mostrare alle persone lì riunite che loro erano nati per l’eroismo senza timori e che chiedevano, a ogni costo che gli facessimo il ‘salto mortale’. E via con noi a realizzare la classica manovra del ‘looping’ o giro di campana. Pagavano con piacere, con fanfarroneria, ma senza perdere il dettaglio di contare i pesos”.
Con tutto ciò era una affare di centesimi che costrinse i chirrineros ad essere i meccanici delle loro macchine. Le manutenzioni si facevano impagabili e di più se si trattava di una rottura. Gli emolumenti dei meccanici avaneri risultavano molto alti e d’altra parte era molto quello che se ne andava nel mangiare, sigari e bicchieri di birra. I meccanici non tardarono a perdere la loro clientela ebbene il chirrinero, con immaginazione e ingegno, apprese a riparare il suo apparecchio.
Per San Ramón
Gli aneddoti che Raoul García riscatta nel suo libro, sono molti e di diverse sfaccettature. Giocosi, tristi, riflessivi...lo dimostra quanto segue.
Un primo pomeriggio bollente di uno di quei giorni in cui non c’è niente da fare, un uomo si avvicinó al chirrinero che si riparava dal sole sotto un’ala del Piper e gli chiese il prezzo di una “corsa” a San Ramón, vicino a Viana. Erano nelle vicinanze dello zuccherificio Resulta, nella regione centrale dell’Isola e l’aviatore, dopo aver calcolato la distanza disse: dieci pesos.
- Caspita! È carissimo! Con dieci pesos vado in automobilina a Santa Clara.
García gli spiegò che un aeroplanino non era un’automobilina, né un carro di buoi che si aggiustava con un pezzo di filo di ferro. Il gallone di carburante costava 50 centesimi e si doveva ricorrere al pegno ogni volta che si rompeva un pezzo.
Il nuovo arrivato lo guardò con simpatia. Scese dal suo cavallo, lo legò dove potette ed estrasse una borsa di carta dalle tasche di pelle della sella. Porse all’aviatore un foglio spiegazzato e un mozzicone di matita. Supponeva che il chirrinero avesse una calligrafia migliore della sua e gli chiese che scrivesse il poema che gli avrebbe dettato. Poema che assieme alla borsa di carta piena di dolci avrebbe fatto cadere quando il velivolo sorvolasse la casa della sua fidanzata. Passati gli anni, García ricordava solo una strofa di quel poema. Diceva: “Martina, i dolci sono/costumi dell’amore che impera,/ma invece di quelli vorrei/ buttarti il mio cuore”.
L’uomo, non senza sforzo, si accomodó sul sedile posteriore dl Piper e non gli piacque dover mettersi il cinturone di sicurezza che chiamò cimice, ma lo fece. L’aviatore commentò che giunto il momento, sarebbe stato lui a lanciare i dolci e il poema. Iniettò carburante al motore  e da dietro, dalla cabina, con una mano sull’acceleratore e con la destra agganciata alla punta dell’elica, dette una spinta e avvió l’apparecchio, Era una tecnica nuova che permetteva controllare la potenza senza pericolo che l’aeroplanino schizzasse privo di pilota, come era successo a molti.
La casa ha un mulino ad acqua, diceva l’uomo e descriveva una costruzione che si differenziava leggermente dalle altre della zona. Volavano a 600 piedi sulla torrida campagna quando il chirrinero credette di avvertire un interesse inusitato in una delle case. Una donna, vestita di rosso, si affacciava a un portone e attorno a lei correvano bambini e c’erano altre donne. Senza commentare niente al suo passeggero, fece una picchiata sul luogo e gli passó a meno di 200 piedi. Sentì l’agitazione alle sue spalle. L’uomo aveva riconosciuto il suo adorato tormento e dava manate al pilota gridando contemporaneamente: È li! È lì. Il contadino, nervoso, sporgeva le due mani dal finestrino prorompendo con urla. Il pilota virò per affrontare il vento mentre riduceva il motore. Il passeggero affondò nel sedile tenendosi il cappello. L’aviatore leanciò il pacchetto coi dolci e il poema, tirò la cloche e dette motore per tornare al luogo di partenza.
Una volta lì, il passeggero cercò ancora nelle sue tasche per riunire in biglietti da uno, i dieci pesos che doveva all’aviatore. Sudava copiosamente e il pomo di Adamo gli saliva e scendeva con sete da gallo secco. García volle sapere di più sul suo passeggero e gli chiese da dove veniva. Impacciato, con un mezzo sorriso, rispose:
-Io vengo da San Ramón.
-E adesso dove va?
-E dove devo andare? A prendere la giumenta per andare a San Ramón.



 Una profesión olvidada

Ciro Bianchi Ross
2 de Abril del 2016 22:39:41 CDT

Cuando el escribidor era niño, el término «chirrín» equivalía a dar por concluido un asunto, cualquier cosa: un juego de bolas o una relación amistosa. Podía decirse: hubo un roletazo por tercera y ¡chirrín!, acabó el juego, o ella insistió en que su hermana la acompañara y ¡chirrín!, terminó el paseo. Algunos, para enfatizar la acción añadían al chirrín otro vocablo: chirrán, y llegado el caso expresaban, por ejemplo: chirrín chirrán, que ya se acabó; chirrín chirrán, que ya no te quiero…, como lo dice Juan Formell en una de sus gustadas composiciones.
El vocablo «chirrín» tiene, sin embargo, otra acepción. Desconoce el escribidor hasta qué punto es un cubanismo. En verdad no aparece en el Nuevocatauro, de Fernando Ortiz, publicado en 1974, que es lo más actualizado que, en cuanto al tema, tiene quien esto escribe en su biblioteca.
Si chirringo es en Colombia sinónimo de chiquito, chirrín se llamaba en Cuba al avión de muy pequeño porte, algo así como una avioneta; y chirrinero era quien lo tripulaba. Se trataba de aparatos de un solo motor que movían pasaje o carga entre puntos del interior de la Isla donde no tocaba la aviación comercial, y que servían asimismo para la recreación.
La información me la ofreció el amigo y lector Gabriel Valdés, un maestro jubilado que reside en la ciudad floridana de Wellington y que mantiene a flor de piel sus raíces cubanas, pese a la larga permanencia en el exterior. Conversamos en un restaurante de Pompano Beach, mientras entre grandes vasos de cerveza negra degustábamos una comida típicamente irlandesa. No en balde el almuerzo transcurrió el pasado 17 de marzo, Día de San Patricio, patrón de los irlandeses, cuando la tradición obliga a lucir algo verde en el atuendo, so pena de merecer un pellizco, y se prefiere la cerveza negra o verde.
Chirrines —refiere Gabriel con envidiable memoria— eran las avionetas marca Aeronca, Luscombe, Taylorcraft y, por supuesto, Piper Súper Cruiser, Stinson y Cessna. De estos últimos, el Piper Súper Cruiser podía llevar dos pasajeros más el piloto, en tanto que los dos restantes contaban con cuatro asientos, incluido el del aviador, desplegaban una velocidad mayor y podían alcanzar distancias mayores sin reabastecerse de combustible.
El chirrín por excelencia era el Piper J-3, para un pasajero solitario. Esa avioneta fabricada en EE.UU. medía algo más de 35 pies de punta a punta de las alas y otros 23 de fuselaje; contaba con 65 caballos de fuerza y cruzaba a 75 millas, aunque podía alcanzar una velocidad máxima mayor. Su peso total era de 1 200 libras, cifra que incluía el peso del piloto, el pasajero y el combustible.
Un detalle interesante aporta Gabriel Valdés: los pilotos del Cessna, el Stinson y el Piper Súper tenían más categoría que los del Piper J-3. Pero todos seguían siendo chirrineros y todos los aparatos eran chirrines.

Vivir del aire

«Chirrinero era todo aquel que casi vivía en un chirrín. Y que dotado de una licencia de aviador civil (no todos la tenían en algún momento) se buscaba la vida honradamente. Que vivía del aire. No todo era ironía, pues en verdad era un vivir aventurado. Los costos de operación eran altos: cara la gasolina, costosas las piezas de recambio, carísimos los materiales de mantenimiento y reconstrucción.
Y había que mantener los precios bajos. Pero se pasaban los días en un clima casi de alegría, disfrutando emociones que venían del dominio de los horizontes, de la libertad de movimiento y del regusto que pone en el paladar del hombre la aventura posible. Y no todo era romance, pues como decía aquel gran aviador francés, Antonio de Saint Exupéry, debajo de esas nubes blancas y bellas nos puede esperar la eternidad», escribió el chirrinero Raoul García en las memorias que dio a conocer en 1975.
¿Qué pistas utilizaba? ¿De qué torres de control se valía? ¿Tenía a bordo un radio para comunicarse?
El chirrinero operaba sobre campos de yerba, más que sobre las pistas pavimentadas de los aeropuertos. «Una guardarraya limpia entre los cañaverales era una pista casi perfecta», decía García y aclaraba enseguida que en aeropuertos propiamente dichos también operaba el chirrinero. «Serlo era como una condición espiritual. Una clase de bohemia modernizada, en que importaba más la ocasión de volar, la taza de café o la charla sin tiempo que los planes de enriquecimiento. Lo importante era el cielo abierto; el olor a pastizales; el solo sobre las alas; el cielo azul en el parabrisas; los cúmulos benignos; la brisa moviendo los palmares y el penacho orgulloso del humo de las chimeneas de los centrales, conversando con sus remolinos sobre el viento y su rumbo».
Radio, por supuesto, no había en la mayor parte de los chirrines. El chirrinero, al igual que los pescadores, presentía la tormenta o el frente frío. Los que lo tenían, lo reservaban para comunicarse con las torres de control de los aeropuertos, cuando el negocio los llevaba a terminales en las que entraban y salían otras naves. Pero, precisaba García, «éramos saltamontes amarillos, rojos o azules llevando nuestros encargos, nuestros pasajeros, nuestros entusiasmos por bateyes, campos de caña y enormes potreros…».
Expresaba que la aviación tenía su aire natural en el campo, entre la gente de la sabana y de los cañaverales. Mientras en las ciudades advertía indiferencia, recelo y temor, los campesinos la asumían con menos miedo e inhibiciones, no solo cuando la usaban por necesidad, sino también cuando, en determinados fines de semana, la utilizaban como un medio de diversión.


Días de boteo

Días de «boteo» llamaban a esas jornadas de fiesta, por lo general un sábado y preferentemente un domingo, y siempre en tiempos de zafra. Se llegaba a un arreglo con el dueño de la tierra que se utilizaría como campo de aviación y no faltaba quien asumiera la oferta gastronómica.
No era raro que se organizara una suerte de feria con juegos de azar, tiros al blanco y carreras de caballo. El campo se colmaba de público.
Se corría la voz y la gente, a pie, a caballo o en carreta, llegaba a veces de lugares distantes. El aviador llevaba la gasolina en latas de cinco galones y a través de un paño de gamuza filtraba el combustible a medida que abastecía el chirrín.
El paseo en la avioneta se cobraba a peso el minuto y era de tres minutos el mínimo de tiempo en el aire. La gente se ilusionaba con la posibilidad de dejar caer un mensaje escrito sobre la casa de la madre, la novia o la enamorada.
Recordaba Raoul García en sus memorias:
«Volábamos niños, mujeres amedrentadas que apenas miraban hacia la tierra; muchachas atrevidas que se les arrebataba la ilusión con el desafío a la gran monotonía de los días. Volábamos a hombres desembarazados y presumidos que querían demostrarle al personal allí congregado que ellos habían nacido para la heroicidad sin temblores, y que pedían, a cualquier costo, que le diéramos “el salto mortal”. Y allá se iban con nosotros a realizar la clásica maniobra del “looping”
o vuelta de campana. Y pagaban con gusto, con fanfarronería, pero sin perder el detalle del cuento de los pesos».
Con todo, era un negocio de centavos que obligó a los chirrineros a ser los mecánicos de sus máquinas. Los mantenimientos se hacían incosteables, y más cuando se trataba de una rotura. Resultaban muy altos los emolumentos de los mecánicos habaneros y era mucho lo que por otra parte se iba en comidas, tabacos y vasitos de cerveza. No demoró el mecánico en perder su clientela, pues el chirrinero, con imaginación e ingenio, aprendió a componer su aparato.

Pa’ San Ramón

Las anécdotas que Raoul García rescata en su libro son muchas y de muy diverso matiz. Jocosas, tristes, reflexivas… Va de muestra la que sigue.
Un mediodía hirviente de uno de esos días en que no había nada que hacer, un hombre se acercó al chirrinero que se resguardaba del sol bajo una de las alas del Piper y le preguntó por el precio de una «carrera» a San Ramón, cerca de Viana. Estaban en las inmediaciones del central Resulta, en la región central de la Isla, y el aviador, luego de calcular la distancia, dijo: diez pesos.
—¡Caray, eso está muy caro! Con diez pesos me voy en fotingo a Santa Clara.
Explicó García que una avioneta no era un fotingo, ni una carreta de bueyes que se arreglaba con un pedazo de alambre de cerca. El galón de gasolina costaba 50 centavos y debía empeñarse cada vez que se rompía una pieza.
El recién llegado lo miró con simpatía. Descendió de su cabalgadura, la amarró donde pudo y sacó una bolsa de papel de una de las alforzas de la montura. Extendió al aviador un pedazo de papel de estraza y un mocho de lápiz. Suponía que el chirrinero tenía mejor letra que la suya y le pidió que escribiera el poema que le dictaría. Poema que junto con la bolsa de papel llena de dulces dejaría caer cuando la nave sobrevolara la casa de su novia. Pasados los años, García solo recordaba una estrofa de aquel poema. Decía: «Martina, los dulces son/ prenda del amor que impera;/ pero en vez de ellos quisiera/ tirarte mi corazón».
El hombre, no sin esfuerzo, se acomodó en el asiento trasero del Piper y le desagradó tener que ajustarse el cinturón de seguridad, que llamó cincha, pero lo hizo. El aviador comentó que, llegado el momento, sería él quien lanzaría los dulces y el poema. Cebó el motor y desde atrás, desde la cabina, con una mano en el acelerador y con la derecha agarrada a la punta de la hélice, le dio un tirón y arrancó el aparato. Era una técnica novedosa que permitía controlar la potencia sin el peligro de que la avioneta se «disparase» sin piloto, como le había ocurrido a muchos.
La casa tiene un molino de agua, decía el hombre y describía una vivienda que en poco se diferenciaba de las otras de la zona. Volaban a 600 pies sobre la tórrida campiña cuando el chirrinero creyó advertir un interés inusitado en una de las viviendas. Una mujer vestida de rojo se asomaba a un portón y a su alrededor corrían niños y otras mujeres. Sin comentar nada con su pasajero, «picó» hacia el lugar y le pasó a menos de 200 pies. Sintió el alborozo a sus espaldas. El hombre había reconocido a su adorado tormento y daba manotazos al piloto al tiempo que gritaba: ¡Es ahí! ¡Es ahí! El guajiro, nervioso, sacaba las dos manos por la ventanilla y prorrumpía en grandes gritos. El piloto giró para enfrentar lo que hubiese de viento mientras cortaba el motor. El pasajero se hundió en el asiento agarrándose el sombrero. El aviador lanzó el cartucho con los dulces y el poema y tiró de la palanca y «dio» motor para regresar al lugar de donde partieron.
Ya allí, el pasajero rebuscó en sus bolsillo hasta juntar en billetes de a uno los diez pesos que debía al aviador. Sudaba copiosamente y la nuez le bajaba y subía con sed de gallo seco. Quiso García saber más sobre su pasajero y preguntó de dónde venía. Cohibido, con una media sonrisa, respondió:
—Yo vine de San Ramón.
—Y ahora, ¿a dónde va?
—¿Pues a dónde voy a ir? Cogeré la yegua pa’ San Ramón.

Ciro Bianchi Ross



venerdì 8 aprile 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

ATOLLO: padre di Atelle

giovedì 7 aprile 2016

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ASSUCCARE: degustare una spremuta

mercoledì 6 aprile 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

ASSETTARE: mettere a posto

martedì 5 aprile 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

ARRIDARE: restituire (Roma)

Agli affezionati lettori di Ciro Bianchi Ross

Chiedo scusa agli affezionati lettori delle interessanti e simpatiche note di Ciro Bianchi Ross, questa si intitola “Una professione dimenticata”, ma per la registrazione del mio saggio devo presentare l’edizione in lingua spagnola, cosa che mi occuperà un po’ di tempo e i pochi neuroni rimasti, visto che sono circa 60 cartelle.
Oltre a questo ho avuto una serie di inconvenienti che non vorrei vi facesero piangere, tipo perdita della scheda bancomat, con relativa burocrazia e 10 giorni lavorativi di attesa per la nuova, rottura della pompa del frigorifero, vedremo se trovio qualche angelo caduto dal cielo che mi aiuta. Esaurimento della batteria della macchina, fortunatamente ne sono arrivate, in un solo posto che io sappia e sono riuscito a comprarne una nuova a prezzo da gioielliere.
Insomma tutta una serie di problemini e impegni che mi tengono occupato, non ultima la richiesta di collaborazione di un amico fotografo italiano di cui ho pubblicato lavori in queste note, Franco Oriot che essendo ben introdotto nel campo degli artisti cubani mi ha chiesto di gestire un blog per lui.

Ben consapevole cha alla maggioranza dei lettori nun je po’ fregà de meno (come diciamo a Milano), spero di pubblicare i due ultimi testi di Ciro la settimana prossima.

lunedì 4 aprile 2016

Stranezze...ogni giorno ce n'è una....

Da un po' di giorni in qua, vedo che sulle statistiche da amministratore, alcuni post sono commentati. Stranamente, quando li apro, vedo "commenti 0". Non solo, dalla lista delle opzioni è scomparsa la voce "commenti spam" con la quale si potevano eliminare commenti offensivi (non per o con me),  scurrili, pubblicitari o altro. Ed a volte ci finivano commenti normali che potevano essere recuperati.
Chiedo scusa per questo inconveniente non dovuto alla mia volontà e come Amleto mi chiedo: Goooooooogle o non Goooooooogle? questo è il dilemma.

Dizionario del mare per lupi di terra

ARMATORE: guerrafondaio

sabato 2 aprile 2016

Dizionario d mare per lupi di terra

ARGANO: in una stanza senza pareti sembra un'ormonica (cit. apocrifa G. Paoli)

Il porto dell'Avana si prepara


Tra le misure “obamiane” c’è quella che prevede dal prossimo 1° maggio, l’arrivo delle navi da crociera della “Carnival”, provenienti da Miami e dirette a una crociera per altri Paesi dei Caraibi.
Speriamo che tutto sia pronto per poter ricevere questi giganti del mare con le loro migliaia di passeggeri.

Sempre nel tema marittimo, 18 imprenditori che hanno accompagnato il presidente nella sua recente visita a Cuba, hanno visitato il porto della Zona Franca del Mariel ed hanno espresso parere che questa zona può diventare un asse primario per la navigazione commerciale tra nord, centro e sud America come valido supporto o in sostituzione, quando non necessario, del Canale di Panama.

venerdì 1 aprile 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

ARARE: preparare per la semina
Copertina "A"


Copertina "B"


Finalmente ecco le due copertine aspetto, come dicevo, una valanga (almeno 2 o 3) opinioni a riguardo. Grazie.


giovedì 31 marzo 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

APPRODARE: dare consenso a Romano

Ri-nascita del turismo a Cuba

Tempo fa ho pubblicato (a rate), su questo blog, una storia molto condensata di come ho visto rinascere il turismo a Cuba, ora ne ho preparata una versione un po' più "diluita"  e meglio documentata che sto registrando alla Società Cubana per i Diritti di Autore in forma di "saggio", anche la parola non è troppo adeguata a me.
la mia infinita vanità prevede di farne un'edizione in spagnolo e una in inglese, sperando di trovare qualche editore interessato. Comunque non ho fretta, visto che ho una lunga vita davanti a me... 

Ho l'imbarazzo della scelta sulle 2 copertine, entrambe su disegno di Roberto Romanò, ma GOOOOOOOGLE, col valido aiuto di ETECSA, non mi lascia pubblicarle...domani è un altro giorno, si vedrà. Naturalmente, se riuscirò, mi aspetto una valanga di voti/referendum per l'una o per l'altra (vale a dire almeno 2 o 3). Grazie.




martedì 29 marzo 2016

Cal, il silenzioso, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 27/3/16

Con motivo dell’apparizione in questo giornale, della mia pagina sulla visita all’Avana del presidente nordamericano Calvin Coolidge, in un giornale del sud della Florida si è pubblicato, con la firma di Glenn Garvin, un articolo che affronta altri aspetti del soggiorno avanero del citato presidente che soprannominavano, ricorda la nota “Cal il silenzioso” e di cui si giunse a dire che mostrava l’espressione di qualcuno “allattato con un cetriolino sottaceto”.
Garvin mette alla sua nota il titolo di Sconfitta della democrazia e vittoria della baldoria, così, d’acchito, da l’idea al lettore di dove andranno gli spari. Afferma subito che quella visita fu “un festival di ubriacature e libertinaggio, contrabbando salace e perfino atti innaturali con torte di limone”. La stampe, al suo momento, non rivelò niente di questo. Questo sfondo venne a lla luce 30 anni dopo, quando il giornalista Beverly Smith fece suonare un’allarme in un articolo pubblicato nel Saturday Evening Post. “Un racconto di fate – scrive Garvin -, con elementi di pompa, dramma, commedia e farsa; di dignità rigida e comportamento indecoroso; di diplomazia del cappello di bicchieri con un tocco di alcolismo”
Garvin precisa che Coolidge non partecipò alla depravazione generale. Se alcuni avaneri credettero di vedere il presidente scivolando per le vie delle zone di tolleranza della città, elegante, con un cappello a bombetta completamente fuori luogo, si sbagliarono completamente. È che tra i giornalisti che lo accompagnavano, uno che somigliava molto al Presidente, si faceva passare per lui. Lo stesso che sostituendo il presidente frequentava i bar dell’Avana suscitando l’ammirazione e la simpatia della clientela, splendida al momento del convivio e che non risparmiava di pagargli tutte le bevute che fosse capace di ingerire. Smith scriveva sul suo articolo del 1959: “Sospetto che ci siano ancora alcuni avaneri vecchi che credono che Cal, fuori dal suo orario di lavoro, era un allegro bevitore”.
In ogni modo l’aneddoto segnò il soggiorno avanero del Presidente nordamericano. Si dice che il presidente Gerardo Machado invitò Coolidge e la sua signora e che visitassero la tenuta avicola sperimentale che alimentava il Governo cubano. Quando la prima dama si avvicinò a uno dei pollai, osservò stupita come un gallo “calpestava” freneticamente una gallina.
- “Con che frequenza lo fa?” – chiese a uno dei lavoratori.
-“Decine di volte al giorno – rispose l’interpellato.
-Bene lo dica al presidente, quando passa.
Così fece il lavoratore. Coolidge allora domandò se il gallo “calpestasse” sempre la stessa gallina.
-“No, è una diversa ogni volta – rispose il lavoratore e il presidente non tardo con la sua risposta:
-“Dica questo a mia moglie.
L’aneddoto, naturalmente è apocrifo. La storica Amity Shales, nella sua biografia di Coolidge, pubblicata nel 2013, afferma che fece l’impossibile per trovare elementi che lo confermassero. “Non ho trovato prove che fosse certo”, conclude.

Un presidente uscente

In quel già lontano mese di gennaio del 1928, quando venne a Cuba, Coolidge era un presidente uscente che cercava di chiudere il suo soggiorno alla casa Bianca con un successo nella politica estera”, scrive Glenn Garvin nel suo articolo. Aggiunge che cercava di calmare la crescente avversità dei cubani con le alte tariffe zuccheriere degli U.S.A. che danneggiavano l’economia dell’Isola e di placare le critiche generalizzate in America Latina per gli interventi militari statunitensi in Nicaragua, Haiti e nella Repubblica Dominicana. Questi furono i suoi propositi nel rispondere in modo affermativo all’invito di Machado per assistere alla Sesta Conferenza Panamericana dell’Avana.
Si dice che si proponeva di usare la riunione per dare impulso alla sua campagna a favore di un trattato, a livello mondiale, di rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale. Il Senato degli U.S.A. si era negato ad approvare la partecipazione del Paese alla Lega delle Nazioni otto anni prima, ma Coolidge pensò che poteva riuscire a che fosse approvata se ci si concentrava semplicemente nel proibire la guerra, senza creare una burocrazia internazionale come parte dell’accordo.
In ultima istanza perse in tutto ciò che si propose, affermano gli specialisti. Nonostante Coolidge promise al governante cubano di abbassare le tariffe, questo non avvenne mai – di fatto, un paio d’anni dopo si alzarono le imposte sullo zucchero che gli U.S.A. compravano da Cuba. D’altra parte, gli sforzi per placare l’America Latina rispetto agli interventi statunitensi non vennero mai messi in pratica, perché Coolidge ordinò ai suoi marines che tornassero in Nicaragua, giusto poco prima di partire per l’Avana.
Il trattato di pace a livello mondiale di Coolidge che finì per essere conosciuto come il Patto Briand-Kellogg, fu approvato da oltre cinque dozzine di Paesi. Ma questo non impedì a nessuno di tuffarsi di testa nella Seconda Guerra Mondiale, una decade più tardi, ciò che fece dell’accordo citato, l’atto diplomatico più inutile della storia universale.
“Non sono sicura di quanto fosse convinto di ciò”, afferma Amity Shales nella biografia. “Egli fece tutto con certa malinconia, il tipo di cose che uno fa quando qualcosa è d’accordo coi suoi principi, ma non prova molta gioia nel farlo. Coolidge non si sentiva bene; pensava che la presidenza lo stesse sfinendo, ma in realtà era malato di cuore. E stava sentendo la solitudine che circonda un presidente quando tutti quanti si rendono conto che non contuerà ad essere presidente per molto tempo e cominciano ad adulare il nuovo”.

Ricevimento da apoteosi

Otto navi della Marina Militare nordamericana si resero necessari per trasportare, da Key West, il Presidente e la sua comitiva, della quale faceva parte il famoso aviatore Charles Lindbergh il primo ad attraversare, in solitario, l’oceano Atlantico a bordo del suo aereo Spirit of St. Luis. Già di fronte all’Avana, una piccola imbarcazione lo portò sulla sponda. Si riunirono duecentomila persone, lungo le strade, per acclamarlo nel suo breve percorso dal porto al Palazzo Presidenziale, dove si sarebbe alloggiato con sua moglie e i suoi principali collaboratori, mentre il resto della comitiva alloggiava all’hotel Sevilla e altre installazioni. Ci fu una nota simpatica al ricevimento; otto o dieci ragazze vestite in modo vistoso e molto truccate, lanciarono rose al passaggio dell’automobile che trasportava il presidente. Erano le pupille di un vicino postribolo, portavano la bandiera nordamericana e assistettero all’atto di benvenuto in compagnia della loro maitresse che pure non volle restare nella casa.
Quando Coolidge, alla fine, si ritirò a riposare al terzo piano della magione della calle Refugio, numero 1, giornalisti ed editorialisti rimasero liberi per iniziare il giornalismo investigativo...nei bar della città. Venivano da un Paese nel quale vigeva il Proibizionismo dal 1920 che proibiva le bevande alcoliche e obbligava ad arrischiarsi in cantine clandestine, dove l’accesso dipendeva da parole d’ordine o frasi in codice. Per i giornalisti e funzionari del Governo che si aggiunsero all’avventura, si apriva la città che a detta di Alejo Carpentier, poteva offrire la maggior quantità di bevute al palato del viaggiatore curioso, dove una coppia non doveva esibire il certificato di matrimonio per trovare ospitalità in un hotel e nella quale si poteva scommettere –vincere o perdere-  qualsiasi somma di denaro nelle roulettes del Casinò Nazionale senza richiamare l’attenzione delle autorità. I visitatori cercarono bar come il Floridita o lo Sloppy Joe’s, o quelli degli alberghi Florida, Sevilla, Plaza e Inglaterra, i più intraprendenti si spostavano fino ai bar o ai piccoli cabaret che nella Playa di Marianao si conoscevano col nome generico de “las fritas”. Ci furono visite ai teatri pornografici e non furono pochi quelli che si recarono al quartiere di Colón al fine di cercare emozioni indimenticabili tra le gambe di una ragazza cubana.
Alcuni degli articoli che apparvero su Coolidge e la sua visita a Cuba nella stampa nordamericana, furono scritti sotto l’influenza dell’alcol, dice Glenn Garvin e offre questa perla che pubblicò The New York Times nella quale si inizia riferendosi all’abbigliamento protocollare dei funzionari cubani e termina facendosi incoerente. Dice: “Siccome non si poteva trovare un paio di calzini corti grigi in tutta l’Avana, uno stato di perturbazione prevalse fino a che gli investigatori si accertarono che fu un falso allarme”.
In realtà la festa e il divertimento erano cominciati a Key West, quando i passeggeri si resero conto di aver lasciato indietro un Paese col Proibizionismo per trovare che a West con i suoi bar a porte spalancate, era semplicemente Key West. Ci furono scherzi crudeli come quelle dei letti spalmati di torta di limone, con i quali gli ubriachi si trovavano all’ora di andare a dormire.
Il presidente Calvin Coolidge assistette, all’Avana, a una partita di pelota basca. L’ora del ritorno intristì i membri della sua comitiva: tornavano al Paese della proibizione. Presto un’altra notizia li rianimò: nessuno, nemmeno i reporters avrebbe fatto dogana a Key West all’ingresso negli Stati Uniti, cosa che significava che chi lo volesse, poteva portarsi tutto il rum che voleva. I venditori di liquore cubani fecero festa. Furono molte le valigie che si comprarono in fretta e furia per trasportare il miglior rum cubano contenuto in recipienti di circa due litri e che più tardi i marines, con sogghigni complici, avrebbero messo a bordo delle navi.

Chi approvò questa gigantesca operazione di contrabbando? Si domandava, nel 1959, il giornalista Beverly Smith nel suo articolo pubblicato nel Saturday Evening Post. “Sarebbe stato, incredibilmente lo stesso Calvin, in un attacco di umore capriccioso che qualcuno supponeva si nascondesse dietro la sua faccia acida del Vermont?”

Cal, el Callado

Ciro Bianchi Ross

26 de Marzo del 2016 22:51:24 CDT

A raíz de la aparición en este diario de mi página sobre la visita a La Habana del presidente norteamericano Calvin Coolidge, se publicó en un periódico del sur de Florida, y con la firma de Glenn Garvin, un artículo que aborda otras aristas de la estancia habanera de dicho mandatario, a quien apodaban, recuerda la nota, «Cal, el Callado» y de quien se llegó a decir que lucía la expresión de «alguien a quien destetaron con un pepinillo encurtido».
Garvin da a su nota el título de Fracaso de la diplomacia y triunfo de la juerga, y así, de entrada, da al lector la idea de por dónde irán los tiros. Afirma enseguida que aquella visita fue «un festival de borrachera y libertinaje, contrabando salaz y hasta actos antinaturales con tartas de Key Lime». Nada de eso reveló la prensa en su momento. Ese trasfondo salió a relucir 30 años después, cuando el reportero Beverly Smith hizo sonar la alarma en un artículo publicado en el Saturday Evening Post. «Un cuento de hadas —escribe Garvin—, con elementos de pompa, drama, comedia y farsa; de dignidad rígida y juerga indecorosa; de diplomacia de sombrero de copa con un toque de alcoholismo».
Precisa Garvin que Coolidge no participó de la depravación general. Si algunos habaneros creyeron ver al mandatario escurriéndose por las calles de las zonas de tolerancia de la ciudad, tocado con un sombrero de copa totalmente fuera de lugar, se equivocaron por completo. Y es que venía entre los periodistas que lo acompañaron uno que se parecía mucho al Presidente y se hacía pasar por él. El mismo que, suplantando al mandatario, recorría los bares de La Habana despertando la admiración y la simpatía de la clientela, espléndida a la hora de la convidada y que no escatimaba en pagarle todos los tragos que fuera capaz de beber. Escribía Smith en su reportaje de 1959: «Sospecho que todavía hay algunos habaneros viejos que creen que Cal, fuera de su horario de oficina, era un alegre bebedor».
De cualquier manera la anécdota matizó la estancia habanera del Presidente norteamericano. Se dice que el presidente Gerardo Machado invitó a Coolidge y a su esposa a que visitaran una granja avícola experimental que fomentaba el Gobierno cubano. Cuando la Primera Dama se acercó a uno de los gallineros, observó asombrada cómo un gallo «pisaba» frenéticamente a una gallina.
—¿Con qué frecuencia hace eso? —preguntó a uno de los peones.
—Decenas de veces al día —respondió el aludido.
—Pues dígaselo al Presidente cuando pase.
Así lo hizo el peón. Coolidge inquirió entonces si el gallo «pisaba» siempre a la misma gallina.
—No, es una diferente cada vez —contestó el peón, y el mandatario no demoró su respuesta:
—Dígale eso a mi esposa.
La anécdota desde luego es apócrifa. La historiadora Amity Shlaes, en su biografía de Coolidge publicada en 2013, afirma que hizo lo imposible por hallar elementos que la sustentaran. «No encontré pruebas de que fuera cierta», concluye.

Un presidente saliente
En aquel lejano ya mes de enero de 1928, cuando vino a Cuba, Coolidge era «un presidente saliente que intentaba cerrar su estancia en la Casa Blanca con un logro de política exterior», escribe Glenn Garvin en su artículo. Añade que trataba de calmar la creciente inconformidad de los cubanos con las altas tarifas azucareras de EE. UU. que acababan con la economía de la Isla, y de aplacar las críticas generalizadas en Latinoamérica a las intervenciones militares estadounidenses en Nicaragua, Haití y República Dominicana. Fueron esos sus propósitos al responder de manera afirmativa a la invitación de Machado para asistir a la Sexta Conferencia Panamericana de La Habana.
Se dice que se proponía usar la reunión para impulsar su campaña a favor de un tratado a nivel mundial de renuncia de la guerra como instrumento de política nacional. El Senado de EE. UU. se había negado a aprobar la participación del país en la Liga de las Naciones ocho años antes, pero Coolidge pensó que podría conseguir que fuese aprobado si se concentraba simplemente en prohibir la guerra sin crear una burocracia internacional como parte del acuerdo.
En última instancia, fracasó en todo lo que se propuso, afirman especialistas. Aunque Coolidge prometió al gobernante cubano bajar las tarifas, eso nunca sucedió —de hecho, un par de años más tarde subieron los impuestos al azúcar que EE. UU. adquiría en Cuba. Por otra parte, los esfuerzos por aplacar al resto de América Latina con respecto a las intervenciones estadounidenses nunca se pusieron en práctica, porque Coolidge ordenó a sus marines que regresaran a Nicaragua justo antes de partir rumbo a La Habana.
El tratado de paz a nivel mundial de Coolidge, que acabó siendo conocido como el Pacto Briand-Kellogg, fue aprobado por más de cinco docenas de países. Pero eso no impidió a nadie lanzarse de cabeza a la Segunda Guerra Mundial una década más tarde, lo cual hizo del mencionado acuerdo el acto de diplomacia más inútil de la historia universal.
«No estoy segura de cuán convencido estaba él de nada de esto», afirma Amity Shlaes en la biografía. «Él lo hizo todo con cierta melancolía, el tipo de cosas que uno hace cuando algo está de acuerdo con sus principios, pero no encuentra mucho placer en hacerlo. Coolidge no se sentía bien; pensaba que la presidencia estaba agotándolo, pero en realidad estaba enfermo del corazón. Y estaba sintiendo la soledad que rodea a un presidente cuando todo el mundo se da cuenta de que él no va a seguir siendo presidente por mucho tiempo y empieza a adular al nuevo».

Recibimiento apoteósico

Ocho buques de la Marina de Guerra norteamericana se hicieron necesarios para transportar desde Cayo Hueso al Presidente y su comitiva, de la que formaba parte el famoso aviador Charles Lindbergh, el primero en atravesar en solitario el océano Atlántico a bordo de su avión Espíritu de San Luis. Ya frente a La Habana, una pequeña embarcación lo trajo a la orilla. Doscientas mil personas se congregaron a lo largo de las calles para aclamarlo en su breve recorrido desde el puerto hasta el Palacio Presidencial, donde se alojaría con su esposa y sus principales colaboradores, mientras que el resto de la comitiva se alojaba en el hotel Sevilla y otros establecimientos. Hubo una nota simpática en el recibimiento: ocho o diez muchachas llamativamente vestidas y muy maquilladas lanzaron rosas al paso del automóvil que conducía al mandatario. Eran las pupilas de un prostíbulo cercano, portaban una bandera norteamericana y acudieron al acto de bienvenida en compañía de su matrona, que tampoco quiso quedarse en casa.
Cuando Coolidge se retiró al fin a descansar en el tercer piso de la mansión de la calle Refugio número 1, reporteros y editorialistas quedaron libres para acometer el periodismo de investigación… en los bares de la ciudad. Venían de un país donde, desde 1920, primaba la llamada Ley Seca, que prohibía las bebidas alcohólicas y obligaba a arriesgarse en cantinas clandestinas, donde la entrada dependía de contraseñas y toques en clave. Para los periodistas y funcionarios del Gobierno, que se sumaron también a la aventura, se abría la ciudad que, al decir de Alejo Carpentier, mayor cantidad de bebidas podía mostrar al paladar curioso del viajero, donde una pareja no tenía que mostrar el certificado de matrimonio para encontrar albergue en un hotel y en la que se podía apostar —y ganar o perder— cualquier cantidad de dinero en las ruletas del Casino Nacional sin llamar la atención de las autoridades. Buscaron los visitantes bares como el Floridita y el Sloppy Joe’s o los de los hoteles Florida, Sevilla, Plaza e Inglaterra, y los más osados se desplazaron hasta los bares y cabaretuchos que en la playa de Marianao se conocían con el nombre genérico de «las fritas». Hubo visitas a teatros pornográficos y no fueron pocos los que acudieron al barrio de Colón a fin de buscar emociones inolvidables entre las piernas de una muchacha cubana.
Algunos de los artículos que sobre Coolidge y su visita a Cuba aparecieron en la prensa norteamericana fueron escritos bajo la influencia del alcohol, dice Glenn Garvin, y ofrece esta perla que publicó The New York Times en la que se comenzó aludiendo al vestuario protocolar de los funcionarios cubanos y termina haciéndose incoherente. Dice: «Como no se podía encontrar un par de polainas cortas grises en toda La Habana, un estado de perturbación prevaleció hasta que los investigadores se cercioraron de que se trataba de una falsa alarma».
En realidad, la fiesta y la diversión habían comenzado en Cayo Hueso, cuando los viajeros descubrieron que dejaban atrás un país sometido a la Ley Seca para encontrar que Cayo Hueso, con sus bares abiertos de par en par, era sencillamente Cayo Hueso. Hubo bromas crueles como las de las camas embarradas con tartas de Key Lime, con las que se encontraban los borrachos a la hora de acostarse.
El presidente Calvin Coolidge asistió en La Habana a un partido de jai alai. La hora del regreso entristeció a los miembros de su comitiva:
volverían al país de la prohibición. Pronto otra noticia les devolvió el alma al cuerpo: nadie, ni siquiera los reporteros, haría aduana en Cayo Hueso a su entrada en Estados Unidos, lo que quería decir que el que lo deseara podría llevar todo el ron que quisiera. Los licoreros cubanos hicieron su agosto. Fueron muchas las maletas que se adquirieron de prisa para transportar el mejor ron cubano envasado en recipientes de medio galón, que más tarde los marines, entre guiños cómplices, subirían a los barcos.
¿Quién aprobó esa gigantesca operación de contrabando?, se preguntaba en 1959 el periodista Beverly Smith en su artículo publicado en el Saturday Evening Post. «¿Habría sido, increíblemente, el mismo Calvin, en un arranque del humor caprichoso que algunos suponían se ocultaba tras su cara de avinagrado de Vermont?».

Ciro Bianchi Ross


lunedì 28 marzo 2016

Non sempre le notizie sono buone

Oggi ho avuto la triste notizia che Maricela Rego, una delle guide "storiche di lingua italiana" di Cubatur ci ha lasciato per un ictus cerebrale all'età di 58 anni. Era il sorriso e la dolcezza in persona.

Aprofitto per parlare di un altro tipo di "defunzione", certamente meno tragico, ma un duro colpo alla storia di questo Paese: l'Hotel Internacional di Varadero è stato abbattuto, secondo me un punto di vista criminale, poteva essere anche chiuso come installazione e mantenuto come Museo, vista la sua storia.
I geologi dicono che la sua prossimità alla linea di costa era pericolosa per la costruzione stessa e per la battigia...
Io non sono nemmeno lontanamente geologo e ho giocato poco anche con le formine e i secchielli, ma non mi dava questa impressione.
Al suo posto, qualche metro più arretrato, sorgerà un immenso resort con qualche migliaio di camere. Mi sorge un dubbio...a voi no?
















Dizionario del mare per lupi di terra

APPOPPARE: allattare

domenica 27 marzo 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

APPONTARE: pepparare (Sicilia)

sabato 26 marzo 2016

Qualcosa è già realtà nei rapporti Cuba-USA

Non so e sia il primo caso, ma all'Avana è già attiva una piccola industria o forse meglio chiamarlo un grosso artigianato che si avvale della collaborazione di un'azienda nordamericana. Si della tratta "Adorgraf" che prepara confezioni con propaganda per altre aziende sia private che pubbliche, la maggior parte del loro lavoro, riguarda borse per acquisti in carta riciclabile in varie dimensioni e colori con il marchio e le scritte a scelta del cliente.
Questa collaborazione è possibile grazie ad una dell e modifiche decretate dal presidente Obama, tra le pieghe dell'embargo e che consente a entità statunitensi di operare con aziende private cubane.

Dizionario del mare per lupi di terra

APPENELLARE: addipingere

giovedì 24 marzo 2016

Obama, Rolling Stones e Panfilo Epifanio

Come è ben noto proseguono le visite storiche, dopo quella a dir poco clamorosa del Presidente Barack Obama, adesso tocca ai Rolling Stones di cui devo confessare che gradisco solo “Satisfaction”, con tante scuse ai milioni di fans che hanno in tutto il pianeta.
Il noto, per chi segue i fatti di Cuba, programma televisivo “La mesa redonda” oggi è stato dedicato quasi completamente a loro e al concerto che terranno domani nella “Ciudad Deportiva” della capitale dove già iniziano i bivacchi per poter prendere i posti migliori. Sto scrivendo queste note alle 20.30 di giovedì, cioè esattamente 24 ore prima dell’inizio del concerto. I cancelli saranno aperti al pubblico alle 14 di domani, venerdì.
Dicevo che “La mesa redonda” è stata quasi tutta dedicata ai Rolling perché, a sorpresa, nei minuti finali hanno mostrato una scena della popolare casa di Panfilo Epifanio, il programma umoristico e satirico, “Vivir del cuento”, in onda ogni lunedì sera sul programma nazionale di Cubavisión, mentre il sabato va in onda sul canale Internazionale in orari diversi, secondo i continenti e viene ripetuto, come tutto il blocco del giorno per tre volte nele 24 ore.
Il presidente Obama in uno dei discorsi tenuti all’Avana aveva menzionato, sorprendentemente, il programma che dice molto seguito negli Stati Uniti, parlando in tema di mezzi di comunicazione multimediali in genere. Quello che ha veramente stupito è stata la sua comparsa come partecipante a uno sketch riguardante il gioco del domino, dove mancava il quarto...non ho veramente parole per apprezzare questa sua “verve”, oltre che da politico da uomo semplice e informato di quello che lo circonda, sia vicino o lontano.
Ma, tornando alle Pietre Rotolanti, ho avuto un’altra graditissima sorpresa, l’arrivo all’Avana dell’amica e grande critica musicale de La Stampa, Marinella Venegoni incaricata, in fretta e furia dal giornale, di “coprire” l’evento sicuramente di risonanza mondiale, non certo solo cubana. Abbiamo passato una bella mattinata assieme passeggiando per l’Avana vecchia che lei non vedeva da anni ed è rimasta piacevolmente colpita dalla ristrutturazione di gran parte di essa e dal “risveglio” della vita nelle strade invase, ormai, quasi più da turisti, almeno nel centro che da cubani. Alla passeggiata è seguito un buon pranzetto nell’ambiente gradevole de La Cocina de Lilia, già descritta tempo fa con dovizia di foto...
Nel tempo trascorso assieme e che non è ancora finito, era inevitabile di parlare di suo marito, altro grande giornalista de La Stampa, Mimmo Cándito, docente all’Università di Genova e sicuramente uno dei migliori inviati, in assoluto che ci siano stati nelle guerre e conflitti sparsi dappertutto. In particolare dal Libano, alla ex Jugoslavia e via dicendo passando per Medio Oriente e Africa. Queste sue corrispondenze in prima linea e l'esposizione all'uranio impoverito lo hanno, purtroppo, minato nella salute e di questo parla nel suo ultimo libro: 55 Vasche, pubblicato da Rizzoli. Purtroppo Mimmo non ha potuto venire con Marinella ed è rimasto a Miami, ma per l’occasione ci siamo scambiati mail e telefonate “di lavoro” per sua moglie, ma anche di piacere per tutti, compresa Cecilia che ha condiviso la tavola con Marinella e con me. Domani la accompagnerò all’entrata del concerto, ma siamo d’accordo che la andrò solo a riprendere. Son spiacente per Jagger & c., ma non potranno contare con la mia presenza.


Dizionario del mare per lupi di terra

ANTIVEGETATIVA: l'eutanasia

mercoledì 23 marzo 2016

Fantasmi in Jesús del Monte, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 20/3/16

Alla fine del XIX secolo e inizio del XX non figurava ancora, tra i personaggi avaneri popolari, lo strillone dei giornali. Non esisteva, semplicemente perché allora i giornali avevano una circolazione che raggiungeva solo i ricchi e potenti che per motivi culturali o per il desiderio di essere informati, appartenessero o meno a un’elite che fra i suoi privilegi aveva quello di godere dell’abbonamento a un giornale.
L’uomo che vendeva il giornale per strada e inoltre annunciava le notizie principali – diligente ausiliario della stampa, come qualcuno lo chiamò -, apparve più tardi come risultato delle crescenti tirature e le edizioni successive che durante la giornata, facevano i giornali e che necessitavano la loro distribuzione tra diversi settori del pubblico.

Fotografie e dettagli

Di uno di quei venditori di giornali – venditori sul serio – parlò José M. Muzaurieta, giornalista brillante, in una delle sue cronache. L’uomo nero, agile e scintillante, vendeva El Imparcial, lo stesso giornale che vendette Kid Chocolate e Muzaurieta che dirigeva tale giornale, ricordava che ogni giorno raccoglieva i primi pacchi, appena usciti dalla tipografia e con ansia scorreva un esemplare alla ricerca della notizia che avrebbe acclamato e che gli avrebbe permesso di muovere i compratori alla curiosità.
Se nella prima pagina non trovava niente che servisse per “l’attacco”, passava alle pagine interne, una a una, fino ad arrivare all’ultima. Se un giorno il giornale “non usciva buono”, esteriorizzava il suo disgusto, ma come venditore che era, tornava ad immergersi nelle sue pagine alla ricerca di un gancio per la vendita, come in quell’occasione, in cui stanco di cercare, tornò alla sezione della Polizia, dove un piccolo ritaglio dava conto della denuncia di un individuo nel cui domicilio, di notte, trascinavano catene e si produceva un rumore spaventoso che non lo lasciava dormire.
Lo strillone fece salti di gioia. Aveva trovato quello che cercava. Uscì come una freccia sulla strada. Gridava: “Come sono i fantasmi in Jesús del Monte! Maltrattano e tormentano una famiglia! El Imparcial con le ultime notizie! Fotografie e dettagli!”
A qualunque fatto, per insignificante che fosse, quello strillone strappava profitto e dopo aver venduto quattro o cinque pacchi, non era raro che tornasse al giornale per prenderne altri.
Il colmo, ricordava Muzaurieta, fu il giorno in cui non trovò nell’edizione del giorno niente, assolutamente niente che servisse per le sue declamazioni e “attacchi”. Protestò, si indignò, si rivolse malamente ai redattori fino a ricordare che era un venditore e il suo compito era vendere. Nell’uscire dal Reparto Vendite gridava: “El Imparcial! Figuratevi! El Imparcial con il crimine di domani!”

Il letto e il seggiolone

Attorno al 1830, non c’erano ancora alberghi all’Avana, ma nel 1828 si riportavano 1.157 “stanze interne da affittare”. L’arredamento di queste stanze era sconcertante, d’acchito però gli stranieri che le affittavano finivano per gradire sopratutto il letto.
Sui letti dell’epoca, afferma Robert Francis Jamesson, ufficiale della Marina britannica, nelle sue Cartas habaneras (Letters from the Havana, 1820):
La più comunemente usata è un semplice incrocio di legno sul quale si stende un pezzo di tela. Su di essa si collocano un paio di lenzuola fra le quali uno si stende, mentre un’armatura delicata sostiene una rete che lo avvolge per proteggerlo dalle zanzare. Questo è quello che si chiama giaciglio. Ci vuole un po’ di abitudine per riconciliare le ossa con lui, ma la freschezza che offre induce a preferirlo al materasso”.
Jamesson che fu il primo rappresentante dell’Inghilterra davanti alla Commissione Mista per l’abolizione della tratta dei negri – da lì il motivo del suo soggiorno sull’Isola – descrive la giornata tipo dell’uomo con risorse nell’Avana di allora.
Cosa fa l’avanero quando non ha niente da fare? Anche su  questo Jamesson si pronuncia nelle sue Cartas habaneras. Si fa un bagno, si veste per il pranzo che quasi sempre è verso le tre del pomeriggio, dorme la siesta..., dice. E indica in modo esplicito: “Quando non c’è niente da fare si dondola su un seggiolone...”
Nei suoi commenti al libro di Jamesson, l’erudito Juan Pérez de la Riva precisa che questo è uno dei riferimenti più antichi al seggiolone a dondolo che si trovano nella letteratura. Dondoli che secondo quello che crediamo, afferma Pérez de la Riva, fu inventato da qualche cubano alla fine del XVIII secolo.

La via della morte

Al principio, i condannati a morte all’Avana, compivano la loro sanzione sulla forca, Questa macchina per uccidere era installata nella piazza delle Orsoline, che sbocca nella calle di Egido, la Calle Bernaza la si chiamava la via della forca perché conduceva fino al luogo del patibolo. Nel 1810, quando non si era costruita ancora alla fine del Paseo del Prado il Carcere di Tacón, la forca si mise nella spianata della Punta. Nel 1834, Fernando VII, il re fellone, abolì l’uso della forca in Spagna e in tutti i suoi domini. Sarebbe sostituita per la garrota. Per decine di anni le esecuzioni erano state pubbliche, Poi, la garrota si mise all’interno dl recinto carcerario. In questa spianata morirono alla garrota vil Narciso López, Eduardo Facciolo e Ramon Pintó, fra gli altri. Anche Domingo Goicuría gardò prigione in quel luogo, ma fu giustiziato, sempre con la garrota, alla Loma del Príncipe, fortezza convertita in prigione politica dal 1976, quando la inaugurò come tale, Antonio Nariño, precursore dell’indipendenza della Colombia.
La Audiencia Pretorial ebbe sede e celebrò le sue riunioni nel piano principale del carcere di Tacón, dall’apertura di questa installazione penitenziaria. Rimase in quel posto già come Audiencia de La Habana, fino al 1938.
Nel 1930, eccetto la parte occupata dall’Audiencia, il Carcere Nuovo che per quella data era già vecchio, vecchissimo, rimase vuoto. Nel vetusto edificio allora si installarono gli uffici del Municipio e del Sindaco dell’Avana e lì rimasero, mentre si faceva il restauro del palazzo municipale – antico Palazzo dei Capitani Generali, oggi Museo della Città -, secondo quanto disposto dal sindaco Miguel Mariano Gómez.
Nove anni dopo, l’edificio del Carcere era smantellato. Sul terreno dove si ergeva si costruì il Parco dei Martiri, in ricordo di quanti soffrirono la prigione o la morte in quel luogo. Non furono demolite, e come reliquie storiche formano parte del parco, due celle di rigore dove si rinchiudevano i prigionieri più contumaci o quelli che si volevano castigare con maggiore durezza. Inoltre rimase in piedi la cappella dove numerosi eroi e martiri passarono le ultime ore della loro vita.

Quadrati del Malecón

Edoardo Robreño dice nel suo libro Cualquier tiempo pasado fue… che quando sucede un penetrazione del mare, è nella calle Galiano, dove l’acqua penetra per prima, dovuto a un dislivello abastanza profondo esistente in tale luogo. Senza dubbio, quando il ciclone del ’26, l’acqua arrivò per Prado, fino alla calle Colón. E quando il ciclone del ’19, giunse per Campanario fino alla calle Ánimas, con conseguente allarme degli abitanti.
Dei quadrati che ha il Malecón, quello compreso fra le calli San Nicolás e Manrique è dove battono più forte le onde a causa del basso muro e del piccolo spazio occupato dagli scogli. Il muro del Malecón che comincia in calle Lealtád è più basso del resto.

Plaza de Armas

Alla fine del XVI secolo, José Maria de la Torre, annota nel suo libro La Habana antigua y moderna, questo luogo, di piazza aveva solo il nome. Ma fu “il centro da dove si irradiò” la città. Le rialzarono le edificazioni dove, nel finale del XVIII secolo, si eressero attorno ad essa: il Palazzo dei Capitani Generali e la Casa dell’Intendente o del Secondo Capo. Governatori come il marchese de la Torre y de Someruelos, Juan Ruiz de Apodaca e Francisco Dionisio Vives fecero opere che la abbellirono. Indubbiamente la Plaza de Armas cadde in un abbandono totale negli anni finali della dominazione spagnola a Cuba. Cessarono di avere luogo lì, per la guerra, le frequentate riunioni serali e gli avaneri la frequentavano meno come luogo di svago.
La situazione si acutizzò negli anni della prima occupazione militare nordamericana. Leonard Wood, uno dei governatori intervenzionisti, fece togliere le panchine.
Occorreva che i giornalieri del porto e gli impiegati delle aziende vicine, aspettavano lì l’ora di iniziare il lavoro. Le loro conversazioni impedivano il sonno del proconsole, a cui piaceva dormire la mattina. E la Plaza de Armas perse, con le sue panchine, la sua condizione di bell’angolo coloniale.
Diciamo brevemente che fra il 1899 e il 1902, il tempo che durò il primo intervento, all’Avana si costruì un solo edificio pubblico, quello destinato alla Scuola di Arti e Mestieri, nella calle Belascoaín.
Si dovette aspettare il 1926 perché si facesse il restauro del Palazzo del Secondo Capo. L’anno successivo si restaurò il Tempietto e nel 1930 il Palazzo dei Capitani Generali.

In quella data, il Palazzo del Secondo Capo ospitava il Senato della Repubblica e quando questi si installò nel Capitolio, in questo edificio funzionò il Tribunale Supremo di Giustizia.

Fantasmas en Jesús del Monte
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
19 de Marzo del 2016 21:11:58 CDT

A fines del siglo XIX y a comienzos del XX no figuraba aún entre los personajes populares habaneros el voceador de periódicos. No existía, sencillamente, porque los diarios de entonces tenían una circulación que solo alcanzaba a los adinerados y pudientes, quienes, por afanes culturales o por el deseo de estar informados, pertenecían o aspiraban a pertenecer a una élite que, entre sus privilegios, tenía el de gozar de la suscripción a un periódico.
El hombre que vendía el periódico por la calle y además pregonaba las noticias principales —diligente auxiliar de la prensa, como le llamó alguien—, apareció más tarde como resultado de las tiradas crecientes y las sucesivas ediciones que, a lo largo del día, hacían los diarios y que exigían su distribución entre sectores dispersos del público.

Fotografías y detalles

De uno de aquellos vendedores de periódicos —vendedores de verdad— habló José M. Muzaurieta, periodista de anjá, en una de sus crónicas. El hombre, negro y ágil y chispeante, vendía El Imparcial, el mismo periódico que vendió Kid Chocolate, y Muzaurieta, que dirigía dicho diario, recordaba que en cada jornada recogía los primeros los paquetes recién salidos de la imprenta y con afán revisaba un ejemplar en busca de la noticia que vocearía y que le permitiría mover la curiosidad de los compradores.
Si no encontraba en la primera página nada que le sirviera para el «ataque», pasaba a las páginas interiores, una a una hasta llegar a la última. Si un día el periódico «no venía bueno», exteriorizaba su desagrado, pero como vendedor que era volvía a sumergirse en sus páginas en busca de un gancho para la venta, como en aquella ocasión, en que cansado de buscar, volvió sobre la sección de Policía, donde un pequeño suelto daba cuenta de la denuncia de un individuo en cuyo domicilio arrastraban cadenas por la noche y se producía un ruido espantoso que le impedía dormir.
El voceador dio saltos de júbilo. Había encontrado lo buscado. Como una flecha salió a la calle. Gritaba: «¡Cómo están los espíritus en Jesús del Monte! ¡Maltratan y atormentan a una familia! ¡El Imparcial con las últimas noticias! ¡Fotografías y detalles!».
A cualquier suceso, por insignificante que fuera, aquel voceador le sacaba lascas y luego de vender cuatro o cinco paquetes, no era raro que volviera por más al periódico.
El colmo, recordaba Muzaurieta, fue la ocasión en que no encontró en el periódico del día nada, absolutamente nada que le sirviera para sus pregones y «ataques». Protestó, se indignó, despotricó contra los redactores hasta que recordó que él era un vendedor y lo suyo era vender. Al salir del Departamento de Ventas, gritaba: «¡El Imparcial! ¡Vaya! ¡El Imparcial con el crimen de mañana!».

La cama y el sillón

Hacia 1830 no existían aún hoteles en La Habana, pero, en 1828, se reportaban 1 157 «cuartos interiores» para alquilar. El mobiliario de esas habitaciones desconcertaba, de entrada, a los extranjeros que las rentaban, pero terminaban agradeciendo, sobre todo, la cama.
Sobre las camas de la época afirma Robert Francis Jamesson, oficial de la Marina británica, en sus Cartas habaneras (Letters from The Havana, 1820):
«La más comúnmente usada es una simple cruceta de madera en la que se extiende un pedazo de lona. Sobre ella se coloca un par de sábanas finas entre las cuales uno se acuesta, mientras una delicada armazón sostiene una red que lo envuelve a uno protegiéndolo de los mosquitos. Es lo que se llama catre. Hace falta un poco de hábito para reconciliar los huesos con él, pero la frescura que ofrece induce a uno a preferirlo al colchón».
Jamesson, que fue el primer representante de Inglaterra ante la Comisión Mixta para la abolición de la trata negrera —de ahí el motivo de su estancia en la Isla— describe el día tipo de un hombre con recursos en La Habana de entonces.
¿Qué hace el habanero cuando no tiene nada que hacer? Sobre ello también se pronuncia Jamesson en sus Cartas habaneras. Toma un baño, se viste para el almuerzo, que casi siempre es sobre las tres de la tarde, duerme la siesta…, dice. Apunta de manera explícita: «Cuando no hay nada que hacer, puede mecerse uno en un amplio sillón…».
En sus comentarios al libro de Jamesson, el erudito Juan Pérez de la Riva precisa que esa es una de las referencias más antiguas al sillón de balance que se hallan en la literatura. Balance que según creemos, afirma Pérez de la Riva, fue inventado por algún cubano a fines del siglo XVIII.

Camino de la muerte

En un comienzo los condenados a muerte en La Habana cumplían su sanción en la horca. Esa máquina de matar estaba instalada en la plaza de las Ursulinas, que se aboca sobre la calle de Egido. A la calle de Bernaza se le llamaba el camino de la horca, porque conducía hasta el lugar del patíbulo. En 1810, cuando aún no se había construido al final del Paseo del Prado la Cárcel de Tacón, la horca se situó en la explanada de la Punta. En 1834, Fernando VII, el rey felón, abolió el uso de la horca en España y en todos sus dominios. Sería sustituida por el garrote. Durante decenas de años las ejecuciones habían sido públicas. Luego el garrote se ubicó en el interior del recinto carcelario. En esa explanada murieron en garrote vil Narciso López, Eduardo Facciolo y Ramón Pintó, entre otros. Domingo Goicuría también guardó prisión en el lugar, pero fue ejecutado, igualmente en garrote, en la loma del Príncipe, fortaleza convertida en prisión política desde 1796, cuando la estrenó como tal Antonio Nariño, precursor de la independencia de Colombia.
La Audiencia Pretorial radicó y celebró sus reuniones en el piso principal de la Cárcel de Tacón desde la apertura de esa instalación penitenciaria. Y permaneció en ese sitio, ya como Audiencia de La Habana, hasta 1938.
En 1930, salvo la parte ocupada por la Audiencia, la Cárcel Nueva que en esa fecha era ya vieja, viejísima, quedó vacía. En el vetusto edificio se instalaron entonces las oficinas del Ayuntamiento y de la Alcaldía de La Habana, y allí estuvieron mientras se efectuaba la restauración del palacio municipal —antiguo Palacio de los Capitanes Generales, hoy Museo de la Ciudad—, según lo dispuesto por el alcalde Miguel Mariano Gómez.
Nueve años después el edificio de la Cárcel era desmantelado. Sobre el terreno donde se asentó se construyó el Parque de los Mártires en recuerdo de cuantos sufrieron prisión o muerte en ese lugar. No fueron demolidas y, como reliquias históricas, forman parte del parque dos celdas bartolinas donde se encerraban a los presos más contumaces o a aquellos a quienes se quería castigar con mayor dureza. Quedó en pie además la capilla donde numerosos héroes y mártires pasaron las últimas horas de su vida.
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Cuadrados del malecón
Dice Eduardo Robreño en su libro Cualquier tiempo pasado fue…, que cuando ocurre un ras de mar es por la calle Galiano donde primero penetra el agua, debido a un desnivel bastante profundo existente en dicho lugar. Sin embargo, cuando el ciclón del 26, el agua llegó por Prado hasta la calle Colón. Y cuando el ciclón del 19, llegó por Campanario hasta la calle Ánimas, con la alarma consiguiente del vecindario.
De los cuadrados que tiene el Malecón, el comprendido entre las calles San Nicolás y Manrique es por donde más fuerte baten las olas, a causa de lo bajo del muro y del pequeño espacio ocupado por los arrecifes.
El muro del Malecón que empieza en la calle Lealtad es más bajo que el resto.

Plaza de armas

A fines del siglo XVI, anota José María de la Torre en su libro La Habana antigua y moderna, ese sitio, de plaza, solo tenía el nombre. Pero fue «el centro de donde irradió» la ciudad. La realzaron las edificaciones donde en las postrimerías del XVIII se alzaron en torno a ella: el Palacio de los Capitanes Generales y la Casa del Intendente o del Segundo Cabo. Gobernadores como los marqueses de la Torre y de Someruelos, y Juan Ruiz de Apodaca y Francisco Dionisio Vives, acometieron obras que la embellecieron.
La Plaza de Armas, sin embargo, cayó en un total abandono en los años finales de la dominación española en Cuba. Dejaron de tener lugar allí, por la guerra, las concurridas retretas nocturnas, y los habaneros la frecuentaban menos como lugar para el esparcimiento.
La situación se agudizó en los años de la primera ocupación militar norteamericana. Leonard Wood, uno de los gobernadores intervencionistas, mandó a retirarle los bancos. Sucedía que los jornaleros del puerto y empleados de establecimientos cercanos esperaban allí la hora de empezar a trabajar. Sus conversaciones impedían el sueño del procónsul, que gustaba de dormir la mañana. Y la Plaza de Armas perdió con sus bancos su condición de bello rincón colonial.
Digamos de paso que entre 1899 y 1902, el tiempo que duró la primera intervención, solo se construyó en La Habana un edificio público, el destinado a la Escuela de Artes y Oficios, en la calle Belascoaín.
Hubo que esperar a 1926 para que se acometiera la restauración del Palacio del Segundo Cabo. Al año siguiente se restauró el Templete y, en 1930, el Palacio de los Capitanes Generales.
En esa fecha el Palacio del Segundo Cabo daba albergue al Senado de la República, y cuando este se instaló en el Capitolio, funcionó en ese edificio el Tribunal Supremo de Justicia.