Mariano Barberán e Joaquín
Collar, due eroici aviatori spagnoli, il 10 giugno del 1933, furono
protagonisti del volo Siviglia – Camagüey che li portò ad attraversare, senza
scalo, l’Atlantico nella sua parte più larga. Impresa mai tentata fino ad
allora. In 39 ore e 50 minuti coprirono la distanza che separa queste città a
bordo di un velivolo dal nome di Cuatro Vientos.
Da Camagüey il Cuatro
Vientos volò all’Avana. Barberán e Collar passarono diversi giorni nella nostra
capitale. Si ospitarono nell’hotel Plaza e furono assediati da corporazioni
cubane e spagnole. Erano gli eroi del momento. Da qui partirono verso il
Messico, dove erano attesi. Diversi specialisti cubani raccomandarono a loro di
ritardare la partenza. Barberán e Collar che erano arrivati malati, non
riposarono abbastanza all’Avana, dove si videro sottoposti a un regime di vita
sociale inusitato per loro. Inoltre imperava il brutto tempo quella mattina in
cui il Cuatro Vientos partì da Cuba e non si sapeva bene se gli inconvenienti
tecnici rilevati all’apparecchio erano stati riparati convenientemente. M
Barberán e Collar dovevano arrivare in Messico a una’ora convenuta ed era
imprescindibile, per loro, partire. Non giunsero mai a destinazione. E non si
conosce ancora oggi, con esattezza, quale fu la loro sorte.
Tutto ciò è storia
conosciuta. Quello che si conosce meno è che 80 anni or sono, nei primi giorni
del 1936, un aviatore cubano si dispose ad attraversare l’Atlantico da ovest a
est e senza nessuna pretesa di battere qualche record, restituire alla Spagna
la visita che Barberán e Collar avevano fatto a Cuba.
Senza
radio e con maltempo
L’aviatore cubano, tenente
della Marina di Guerra, si chiamava Antonio Menéndez Peláez e fece il viaggio a
bordo di un aereo battezzato come 4 Settembre: un monoplano Lockheed Sirius 88
trasformato in monoposto e al quale si fecero adattamenti importanti per la
traversata.
Menéndez Peláez decollò da
Camagüey alle sette di mattina del 13 gennaio per prendere terra a Campo
Alegre, in Venezuela, da lì si trasferì all’aerodromo della Pan American a
Maiquetía. Il giorno seguente si alzò per Port of Spain nell’isola di Trinidad,
passò ad Amsterdam nell’antica Guyana Britannica e a Leguiar per concludere a
Pará in Brasile, nel delta del Río delle Amazzoni, il 3 febbraio.
Due giorni dopo si spostò
fino a San Luis de Maranhao e Fortaleza per culminare, il giorno seguente,
atterrando a Natal al fine di attraversare, da quel punto, l’oceano per
arrivare in Africa.
Sull’Atlantico, Menéndez
Peláez trovò venti forti e maltempo cosa che lo costrinse a volare, in molte
occasioni, a scarsa altitudine dall’acqua. Siccome a bordo non aveva radio,
dovette confidare nella sua perizia di navigante e prese come riferimento le
navi in rotta che avvistava dal suo apparecchio. Riuscì ad atterrare a
Bathhurst, Senegal, dopo aver percorso 3.160 km. sull’oceano.
Il cubano volò da Bathhurst
al capo Yuby, nell’antico Sahara Spagnolo, il 12 febbraio e due giorni dopo
arrivò finalmente a Siviglia per prendere terra nell’aeroporto militare di Tablada
da dove, tre anni prima, parti il Cuatro Vientos nel suo storico viaggio a
Camagüey. A Tablada si tributò un caloroso ricevimento al militare cubano, lo
stesso che avrebbe ricevuto una settimana dopo, arrivando all’aerodromo che
portava il famoso nome dell’apparecchio utilizzato da Barberán e Collar.
Riassumendo, il tenente
Antonio Menéndez Peláez, a bordo del 4 Settembre, percorse 14.454 km. in 72 ore
e 27 minuti per restituire l’abbraccio che nel 1933 due valorosi aviatori
portarono dalla Spagna. A Madrid, come prima a Siviglia, fu salutato coi più
alti onori. Lo ricevettero il Ministro di Stato e altre importanti autorità
civili e militari. Il Ministro della Guerra e il Direttore Generale
dell’Aeronautica assistettero alla corrida che gli fece omaggio l’Aero Club
spagnolo e ci fu un tintinnare di coppe all’ambasciata di Cuba. Le Forze Armate
spagnole lo decorarono con la Croce al Merito Militare e la Croce al Merito
Navale e l’Esercito cubano annunciò dall’Avana la sua promozione a primo
tenente.
Fra gli altri giornalisti lo
intervistò il corrispondente, nella capitale spagnola, della rivista Caras y
Caretas di Buenos Aires. Lo vide nella sede diplomatica cubana e “rispondeva ai
saluti con un sorriso e rispondeva con monosillabi. Dava l’impressione dell’uomo
che si sorprende per un fatto che non riesce ancora a spiegarsi. L’uomo che
rimane stordito nel sapere che ha realizzato una prodezza straordinaria che per
lui continua ad essere una cosa completamente semplice”.
- Vengo a restituire il volo
degli eroici aviatori spagnoli Barberán e Collar. Porto in Spagna il saluto di
Cuba. I miei genitori vivono in un paesino delle Asturie e gli farò la sorpresa
della mia visita – dichiara alla rivista argentina e il corrispondente annota;
“Questo è quanto sa dire Menéndez, quasi con sobrietà di uomo valoroso e deciso.
I giornalisti si sforzano per strappargli rivelazioni sensazionali e non
ottengono che frasi corte, di una desolante semplicità”. La stampa chiede sui
momenti di maggior pericolo durante il volo, se ha sentito paura in qualche
momento; le sue emozioni. L’aviatore cubano dichiara: - La mia maggior emozione
l’ho provata nel vedermi calpestare la terra di Spagna.
Lo storico spagnolo Juan A.
Guerrero Misa commenta nel suo libro “El
vuelo Sevilla-Cuba-México del avión Cuatro Vientos”: “Il gesto di menéndez
ha messo il punto finale a un’epoca di eroismo e professionalità che oggi
possiamo solo prendere come esempio e che affratellò, per sempre, le aviazioni
di entrambi i lati dell’oceano. Dall’impresa di Barberán e Collar, il mare non
ci separa più”.
Non sarà l’unica impresa di
Antonio Menéndez Peláez. Solo un anno dopo, fu uno dei protagonisti del Volo
Panamericano Pro Faro di Colombo, uno degli episodi più tragici e tristi
dell’aviazione in America Latina. Il 29 dicembre del 1937, i tre aerei cubani
che formavano la squadriglia, di cui il pilota cubano era tecnico capo e
navigatore, soffrirono un terribile incidente nella tratta Cali-Panama, quando
avevano già lasciato dietro le tappe più difficili del percorso. Nel disastro
morirono il giornalista Ruy de Lugo Viña, cronista ufficiale del volo, i
meccanici Naranjo, Castillo e Medina e i piloti Risech Amat, Jiménez Alum e
Menendez Peláez. Solo quando arrivò a Panama il maggiore dominicano Frank F.
Miranda, capo del corpo di aviazione del suo Paese che per il suo grado
viaggiava sul più potente dei quattro aerei ed era il capo della spedizione,
seppe della sorte dei suoi compagni.
Versione
delle versioni
Erigere un monumento a
Colombo era un vecchio desiderio dei Governi latino americani. L’idea,
comunque, non cominciò a concretizzarsi fino al 1923 quando, a Santiago del
Cile la Conferenza Internazionale Americana, chiamò le nazioni dell’area a
unire gli sforzi con tale proposito. Si sarebbe perpetuata la memoria dell’Ammiraglio
con un faro monumentale che avrebbe portato il suo nome e si sarebbe situato
nella Repubblica Dominicana. Si bandì un concorso e quasi 450 architetti di 48
nazioni presentarono i loro progetti. I risultati della gara vennero resi
pubblici a Rio de Janeiro nel 1931. Risultò vincitore e si compensò con una
borsa di diecimila dollari, l’architetto inglese J. L.Gleave.
Nel maggio 1937, la Società
Colombista Panamericana, con sede all’Avana, incita i Governi di Cuba e della
Repubblica Dominicana a formare una squadriglia che percorra il continente in
un viaggio di buona volontà con vista alla realizzazione del monumento. Cuba
apporta tre aerei Stinson Reliant da 285 hp e Dominicana un Curtis Wright da
420 hp. Questi porterà il nome di Colombo; gli altri quelli delle navi
dell’Ammiraglio. Ogni apparecchio volerà col suo meccanico a bordo. Nel Santa
Maria, pilotato da Menéndez Peláez andrà il cronista Lugo Viña, pure
rappresentante della Colombista. Il progetto si chiamò Volo Pro Faro di Colombo
si pensò che salisse da Santo Domingo il 12 ottobre del 1937, ma un imprevisto
lo ritardò per tutto un mese.
Finalmente partì il 12
novembre da un aeroporto affollato dal pubblico. Il generale Trujillo,
presidente dominicano, capeggiò il saluto.
Avrebbero visitato 26 Paesi,
qualcosa senza precedenti in questi voli di buona volontà. Portorico, Caracas,
Trinidad, Guyana Olandese e Belem, Fortaleza, Natal, Recife, Bahia e Rio de
Janeiro, in Brasile. Il 29 novembre volarono a Montevideo. Era intenzione della
squadriglia di trasferirsi ad Asunción, ma i casi di febbre gialla riportati
nella capitale del Paraguay li dissuasero da questo impegno. Volarono a Buenos Aires, Santiago del Cile, Bolivia,
Perù, Ecuador e Colombia.
A Cali il gerente della
Società Colombo Alemana de Transporte Aereo (Scadta) mise a disposizione dei
viaggiatori uno dei suoi Junkers perché potessero trasferirsi a Bogotá, a 2.250
metri di altitudine, perché gli aerei cubani mancavano di potenza per un volo
come quello. Il 28 il gruppo era di nuovo a Cali. Il 29 avrebbe messo la prua
verso Panama. Non si sa bene perché Menéndez Peláez che era il navigatore della
squadriglia, persistette nel suo proposito di attraversare il Pacifico da Cali
a Buenaventura. Era una rotta già scartata dai piloti della Scadta, una rotta
molto pericolosa che si renbdeva meno raccomandabile data la mancanza di
potenza degli aerei cubani. Era più sicuro seguire il corso del fiume Cauca
fino a Medellín e uscire da Turbo per Panama; gli Stinson dei cubani non
potevano rimontare la cordigliera da Cali a Buenaventura. Gli specialisti
assicurano che le cattive condizioni atmosferiche e la mancanza di visibilità
fecero il resto. I cubani si misero in un imbuto di montagne che si andò
chiudendo fino a prtarli a un punto di non ritorno. Nel cercare di virare si
schiantarono uno dopo l’altro. Il Curtis della Dominicana, più potente, poté
sorvolare le montagne o prese la via del letto del fiume.
Finale
I resti delle vittime furono
portati all’Avana a bordo dell’incrociatore Patria, della Marina di Guerra e
vegliati con gli onori nel salone dei Passi Perduti del Capitolio. Il 18
gennaio 1938 li inumarono nel Pantheon dell Forze Armate. Nel febbraio dello
stesso anno il maggiore Frank F. Miranda e il suo meccanico tornarono al loro
Paese in nave.
Portavano il Colombo
disarmato. In occasione del primo anniversario della tragedia. Il Governo della
Repubblica in coordinazione con le autorità colombiane, dispose l’erezione di
un obelisco nel luogo dell’incidente. Successivamente l’alfiere Rivery, a bordo
di un aereo che portava il nome di Tenente Menéndez Paláez, realizzò un viaggio
di buona volontà in città dell’America Latina. L’Associazione dei Reporters
istituì, nel suo momento, il Premio Ruy de Lugo Viñas (mille pesos) per
reportages. Il maggiore Frank F. Miranda proseguì la sua carriera
nell’aviazione militare dominicana e raggiunse il grado di brigadiere generale.
Morì il 20 giugno del 1954. L’aereo Colombo si conserva in un piccolo parco
all’ingresso della base aerea di San Isidro, in Dominicana. Il faro di Colombo
alla fine fu costruito. Sotto il Governo del Dottor Joaquín Balaguer si
iniziarono le opere che si conclusero nel 1992, in occasione del V centenario
dell’arrivo degli europei in America. Serve da tomba all’Ammiraglio, i cui resti
non uscirono mai da Santo Domingo.
Un héroe olvidado
Ciro
Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
23 de
Enero del 2016 19:43:11 CDT
Mariano
Barberán y Joaquín Collar, dos heroicos aviadores españoles, fueron
protagonistas, el 10 de junio de 1933, del vuelo Sevilla-Camagüey, que los
llevó a atravesar, sin escalas, el Atlántico por su parte más ancha. Hazaña no
intentada hasta entonces. En 39 horas con 50 minutos cubrieron la distancia que
separa a esas ciudades a bordo del avión conocido con el nombre de Cuatro
Vientos.
De
Camagüey el Cuatro Vientos voló a La Habana. Pasaron Barberán y Collar varias
jornadas en nuestra capital. Se alojaron en el hotel Plaza y fueron agasajados
por corporaciones cubanas y españolas. Eran los héroes del momento. De aquí
partieron rumbo a México, donde se les esperaba. Varios especialistas cubanos
les recomendaron entonces que retrasaran la partida. Barberán y Collar, que
habían llegado enfermos, no descansaron lo suficiente en La Habana, donde se
vieron sometidos a un régimen de vida social inusitado para ellos. Además,
imperaba el mal tiempo en aquella mañana en que el Cuatro Vientos salió de Cuba
y no se sabía bien si los desperfectos técnicos advertidos en el aparato habían
sido convenientemente reparados. Pero Barberán y Collar debían arribar a México
en una hora ya convenida y les era imprescindible partir. Jamás llegaron a su
destino. Y se desconoce todavía con exactitud cuál fue su suerte.
Todo eso
es historia conocida. Lo que se conoce menos es que, hace 80 años, en los
primeros días de 1936 un aviador cubano se dispuso a cruzar el Atlántico de
oeste a este y, sin pretensión de batir marca alguna, devolver a España la
visita que Barberán y Collar habían hecho a Cuba.
Sin radio y con mal tiempo
El aviador
cubano, teniente de la Marina de Guerra, se llamaba Antonio Menéndez Peláez e
hizo el viaje a bordo del avión bautizado como 4 de Septiembre; un monoplano
Lockheed Sirius 88 transformado en monoplaza y al que se le hicieron
adaptaciones importantes para la travesía.
Despegó
Menéndez Peláez en Camagüey, a las siete de la mañana del 13 de enero para
tomar tierra en Campo Alegre, Venezuela, y de allí se trasladó al aeródromo de
la Pan American, en Maiquetía. Al día siguiente se elevó hacia Puerto España,
en la isla de Trinidad, y pasó a Ámsterdam, en la antigua Guayana Británica, y
a Leguiar, para concluir en Pará, Brasil, en el delta del Amazonas, el 3 de
febrero.
Dos días
más tarde se desplazó hasta San Luis de Maranho y Fortaleza y culminó en la
jornada siguiente la primera fase de su vuelo al aterrizar en Natal a fin de
cruzar desde ese punto el océano para arribar a África.
Sobre el
Atlántico, el teniente Menéndez Peláez encontró vientos fuertes y mal tiempo,
lo que lo obligó a volar, en muchas ocasiones, a escasa altura sobre el agua.
Como no llevaba radio a bordo, debió confiar en su pericia como navegante y
tomó de referencia los barcos en ruta que avistaba desde su aparato. Consiguió
aterrizar en Bathhurst, Senegal, después de haber recorrido 3 160 kilómetros
sobre el océano.
Desde
Bathhurst voló el cubano al cabo Yuby, en el antiguo Sahara español, el 12 de
febrero, y dos días después llegó por fin a Sevilla para tomar tierra en el
aeropuerto militar de Tablada, desde donde, tres años antes, partió el Cuatro
Vientos en su histórico viaje a Camagüey. En Tablada se tributó al militar
cubano un caluroso recibimiento, el mismo que recibiría una semana después al
arribar al aeródromo que llevaba el nombre famoso del aparato utilizado por
Barberán y Collar.
En
resumen, el teniente Antonio Menéndez Peláez, a bordo del 4 de Septiembre,
recorrió 14 454 kilómetros en 72 horas y 27 minutos para devolver el abrazo que
en 1933 dos valerosos aviadores trajeron desde España. En Madrid, como antes en
Sevilla, fue saludado con los mayores honores. Lo recibió el Ministro de Estado
y otras importantes autoridades civiles y militares. El Ministro de Guerra y el
Director General de Aeronáutica asistieron a la comida con que lo congratuló el
Aero Club español y hubo chinchín de copas en la embajada de Cuba. Las fuerzas
armadas españolas lo condecoraron con la Cruz del Mérito Militar y la Cruz del
Mérito Naval y el Ejército cubano le anunció desde La Habana su ascenso a
primer teniente.
Lo
entrevistó, entre otros periodistas, el corresponsal en la capital española de
la revista Caras y Caretas, de Buenos Aires. Lo vio en la sede diplomática
cubana y «respondía a los saludos con una sonrisa y contestaba con monosílabos.
Daba la impresión del hombre que se sorprende por un acontecimiento que no
acaba de explicarse. El hombre que está aturdido de saber que ha realizado una
proeza extraordinaria que para él sigue siendo una cosa completamente
sencilla».
—Vengo a
retribuir el vuelo de los heroicos aviadores españoles Barberán y Collar.
Traigo a España el saludo de Cuba. Mis padres viven en un pueblecito de
Asturias y les daré la sorpresa de mi visita —declara a la revista argentina y
el corresponsal apunta: «Esto es lo único que sabe decir Menéndez, casi con una sobriedad de hombre valeroso y
ejecutivo. Los periodistas hacen esfuerzos por arrancarle revelaciones
sensacionales y no logran más que frases cortadas de una desesperante
simplicidad». Inquiere la prensa sobre los momentos de mayor peligro durante el
vuelo, si sintió miedo en algún momento; sus emociones. Expresa el aviador
cubano: —Mi mayor emoción la he experimentado al verme pisando la tierra de
España.
Comenta el
historiador español Juan A. Guerrero Misa en su libro El vuelo
Sevilla-Cuba-México del avión Cuatro Vientos: «El gesto de Menéndez puso punto
final a una época de heroísmo y profesionalidad que hoy solo podemos tomar como
ejemplo y que hermanó, ya para siempre, a las aviaciones de ambos lados del
océano. Desde la hazaña de Barberán y Collar, el mar ya no nos separa».
No sería
esa la única hazaña de Antonio Menéndez Peláez. Apenas un año después, fue uno
de los protagonistas del Vuelo Panamericano Pro Faro de Colón, uno de los
episodios más tristes y trágicos de la aviación en América Latina. El 29 de
diciembre de 1937, los tres aviones cubanos que conformaban la escuadrilla, de
la que el piloto cubano era jefe técnico y navegante, sufrieron un horrible
accidente en el tramo Cali-Panamá, cuando ya habían quedado atrás las etapas
más difíciles del trayecto. Perecieron en el desastre el periodista Ruy de Lugo
Viña, cronista oficial del vuelo, los mecánicos Naranjo, Castillo y Medina y
los pilotos Risech Amat, Jiménez Alum y Menéndez Peláez. Solo cuando arribó a
Panamá, el mayor dominicano Frank F. Miranda, jefe del cuerpo de aviación de su
país, y que por su grado y por viajar en el más potente de los cuatro aviones
era el jefe de la expedición, se enteró de la suerte de sus compañeros.
Versión de versiones
Erigir un
monumento a Colón era un viejo deseo de los Gobiernos latinoamericanos. La
idea, sin embargo, no empezaría a concretarse hasta 1923 cuando en Santiago de
Chile la Conferencia Internacional Americana llamó a las naciones del área a
aunar esfuerzos con tal propósito. Se perpetuaría la memoria del Almirante con
un faro monumental que llevaría su nombre y se emplazaría en República
Dominicana. Se convocó a un concurso y casi 450 arquitectos de 48 naciones
presentaron sus proyectos. Los resultados del certamen se hicieron públicos en
Río de Janeiro, en 1931. Resultó triunfador, y se le recompensó con una bolsa
de diez mil dólares, el arquitecto inglés J. L. Gleave.
En mayo de
1937, la Sociedad Colombista Panamericana, con sede en La Habana, insta a los
Gobiernos de Cuba y República Dominicana a formar una escuadrilla que recorra
el continente en un viaje de buena voluntad con vistas a la realización del
monumento. Cuba aporta tres aviones Stinson Reliant de 285 Hp, y Dominicana un
Curtis Wright de
420 Hp.
Este llevaría el nombre de Colón; los otros, los de las naves del Almirante.
Cada aparato volaría con su mecánico a bordo. En el Santa María, piloteado por
Menéndez Peláez, iría el cronista Lugo Viña, representante asimismo de la
Colombista. El proyecto se llamó Vuelo Pro Faro de Colón y se pensó que saliera
de Santo Domingo el 12 de octubre de 1937, pero un imprevisto lo retrasó
durante todo un mes.
Partió
finalmente el 12 de noviembre de un aeropuerto abarrotado de público. El
general Trujillo, presidente dominicano, encabezó la despedida.
Visitarían
26 países, algo sin precedentes en esos vuelos de buena voluntad. Puerto Rico,
Caracas, Trinidad, Guayana Holandesa; y Belem, Fortaleza, Natal, Recife, Bahía
y Río de Janeiro, en Brasil. El 29 de noviembre volaron a Montevideo. Era
intención de la escuadrilla trasladarse a Asunción, pero los casos de fiebre
amarilla reportados en la capital paraguaya los disuadieron de ese empeño.
Volaron a Buenos Aires y Santiago de Chile, Bolivia, Perú, Ecuador y Colombia.
En Cali,
el gerente de la Sociedad Colombo Alemana de Transporte Aéreo
(Scadta)
puso a disposición de los viajeros uno de sus Junkers para que pudieran
trasladarse a Bogotá, a 2 250 metros de altitud, porque los aviones cubanos
carecían de potencia para un vuelo como ese. El 28, el grupo estaba de nuevo en
Cali. Pondría el 29 proa a Panamá.
No se sabe
bien porqué Menéndez Peláez, que era el navegante de la escuadrilla, persistió
en su propósito de cruzar al Pacífico desde Cali a Buenaventura. Era una ruta
desechada ya por los pilotos de la Scadta, una ruta muy peligrosa que se hacía
menos recomendable dada la falta de potencia de los aviones cubanos. Más seguro
resultaba seguir el curso del río Cauca hasta Medellín y salir por Turbo a
Panamá; los Stinson de los cubanos no podían remontar la cordillera desde Cali
a Buenaventura. Aseguran especialistas que las malas condiciones atmosféricas y
la falta de visibilidad hicieron el resto. Los cubanos se metieron en un embudo
de montañas que se les fue cerrando hasta llevarlos a un punto de no retorno.
Al tratar de girar se estrellaron uno tras otro. El Curtis de Dominicana, más
potente, pudo sobrevolar las montañas o tomó el camino del cauce del río.
Final
Los restos
de las víctimas fueron traídos a La Habana a bordo del crucero Patria, de la
Marina de Guerra, y velados con honores en el Salón de los Pasos Perdidos del
Capitolio. El 18 de enero de 1938 los inhumaron en el Panteón de las Fuerzas
Armadas. En febrero del mismo año el mayor Frank F. Miranda y su mecánico
regresaron por barco a su país. Llevaban el Colón desarmado. En ocasión del
primer aniversario de la tragedia, el Gobierno de la República, en coordinación
con autoridades colombianas, dispuso la erección de un obelisco en el lugar del
accidente. Posteriormente, el alférez Rivery, a bordo de un avión que llevaba
el nombre de Teniente Menéndez Peláez realizó un viaje de buena voluntad por
ciudades de América Latina. La Asociación de Reportes instituyó en su momento
el Premio Ruy de Lugo Viñas (mil pesos) para reportajes. El mayor Frank F.
Miranda continuó su carrera en la aviación militar dominicana y alcanzó el
grado de brigadier general. Murió el 20 de junio de 1954. El avión Colón se
conserva en un pequeño parque a la entrada de la base aérea de San Isidro, en
Dominicana. El Faro de Colón fue finalmente construido. Bajo el Gobierno del
Doctor Joaquín Balaguer se iniciaron las obras en 1986 y concluyeron en 1992,
en ocasión del V centenario de la llegada de los europeos a América. Sirve de
tumba al Almirante, cuyos restos jamás salieron de Santo Domingo.
Ciro Bianchi Ross
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