Pubblicato su Juventud Rebelde del 14/9/14
Il lettore Rafael
Rodríguez Muñiz, chiede con la sua posta elettronica che riferisca sul caso
dell’omicidio della giovane polacca Sima Rabasky, una ragazza che apparve
pugnalata ai margini del Río Almendares. Il fatto accadde durante la presidenza
del dottor Ramón Grau San Martín (1944-48) e, commenta Rodríguez Muñiz, è un
caso che gli è rimasto nella memoria. Egli era adolescente e qualcuno gli
raccontò che aveva coinciso con Sima Rabasky nell’Istituto di Secondo
Insegnamento dell’Avana.
Non si sono mai
conosciuti il movente dell’omicidio né chi furono gli assassini. Dramma
passionale, vendetta, estorsione, rapina? Lo chiede il lettore e gli piacerebbe
sapere che opinione ha, lo scriba, sulla versione del fatto.
In una occasione,
conversai di ciò con il mio amico giornalista e scrittore jaime Sarusky,
deceduto in questa capitale da poco più di un anno. Egli conobbe Sima nel
ristorante Moische Pipik, il miglior esercizio di cucina ebraica dell’Avana,
sito nella calle Acosta al 211, in pieno quartiere ebreo. Mi disse che non la
ricordava tanto bella come la stampa dell’epoca insisteva nel qualificarla,
però molto vivace, altezzosa e provocante. Precisò che, secondo quello che si
diceva allora, i genitori del fidanzato di Sima non la tolleravano: non
possedeva un centesimo. I Bergman erano una famiglia agiata di Matanzas e si
diceva anche che furono loro, magari riuscendovi, nel far si che le
investigazioni del caso restassero nel maggior silenzio possibile. I fatti
succedettero così.
Un meriggio, sotto il
ponticello del Río Almendares nel Bosco dell’Avana, venne rinvenuta morta, con
dieci pugnalate disseminate in tutto il corpo, una bella ragazza identificata,
poi, come Sima Rabasky, di origine ebrea. Nel pomeriggio, molto vicino a questo
luogo, apparve il cadavere del suo fidanzato lo studente, anch’egli ebreo,
Jaime Bergman. Presentava una pugnalata precisa al cuore.
Omicidio suicidio?
Doppio omicidio? Patto suicida? Per lunghe settimane la polemica non ebbe fine.
Mentre le autorità svolgevano le investigazioni pertinenti, i principali
giornali della capitale dedicavano intere pagine al fatto misterioso affondando
in ogni dettaglio, per piccolo che fosse. I forensi non scartarono la
possibilità di un omicidio-suicidio. Ma alcuni scommettevano sul doppio
omicidio e altri vedevano il fatto come delitto passionale. Quando sembrava
prevalere la prima tesi, nuovi elementi facevano pendere la bilancia per il
doppio omicidio. Ma la morte di Jaime e Sima non si poté mai chiarire.
Lo statista senza Stato
Ile Diego A. Artiles
richiede dati su Francisco de Arango y Parreño.
Questo avanero, nato
nel 1765 e morto nel 1837, lo chiamarono lo statista senza Stato e fu l’eminenza
grigia della "saccarocrazia" creola. Fu
accreditato dal il Comune dell’Avana presso la Corte spagnola, con solo 24 anni d’età; sindaco del Real Consulado de
Agricultura, Industria y Comercio; redattore de El Papel Periódico, promotore e
direttore de la Sociedad Económica de Amigos del País, consigliere delle Indie
e deputato alle Corti fu, dice César García del Pino “il primo dei nostri
economisti”.
Dedicò un’attenzione
costante all’agricoltura. Il suo Discurso
sobre la agricultura ben La Habana y medios de fomentarla (1792), segna una
nuova tappa nel progresso economico di Cuba. Abbraccia un esteso piano di
riforme che, messe in pratica in anni seguenti, furono la base della grandezza
materiale dell’Isola. I suoi studi, i viaggi d’investigazione che intraprese
per disposto ufficiale, in compagnia del Conde de Casa Montalvo, in
Inghilterra, Francia e alcune delle loro colonie, si tradussero nel trapianto
di nuovi metodi agricoli nel Paese, così come di macchinari e procedimenti di
coltivazione, protezione e stimolo all’industria agraria e a difesa dei suoi
prodotti.
Arango comprese che
lo sviluppo dell’agricoltura aveva bisogno, come complemento, della libertà di
commercio e consacrò il suo sforzo per conseguirla fino dal 1908 quando, come
sindaco del Real Consulado presentò la sua informazione su “i mezzi che
conviene proporre per togliere dagli affanni, in cui si trovano, l’agricoltura
e il commercio dell’Isola”. Dieci anni dopo, quando Arango era già Consigliere
delle Indie, la Spagna decretò il libero commercio tra i porti di Cuba con i
mercati esteri, col quale scomparve il monopolio mercantile che la metropoli
esercitò per secoli. Nella promulgazione di questo decreto, un ruolo importante
lo disimpegnò l’intendente generale per l’Industria Alejandro Ramírez che non è
solo il nome della strada che costeggia l’antica Quinta de Dependientes, ma
uno degli uomini più utili dei suoi tempi.
Nei suoi ultimi anni,
Arango, si mostrò partitario della soppressione del traffico di schiavi e
suggerì un piano di emancipazione graduale al fine di dichiarare abolita la
schiavitù. Rettificando così criteri anteriori che lo portavano a raccomandare
la libera introduzione di schiavi e ad opporsi, nelle Cortes del 1813, al
proposito di sopprimere la schiavitù. Nel 1816 conseguì la smonopolizzazione
del tabacco.
La sua prosa è
trasparente, senza condimenti, dice Max Enríquez Ureña. Sapeva essere eloquente
nell’espressione a forza di sobrietà. L’importanza dei suoi scritti risiede,
non nella forma, ma nella sua chiara visione dei problemi economici della sua
patria. Più che uno scrittore fu uno statista. Alejandro de Humboldt lo
qualificò come “statista eminente”. Tutto quello che ha scritto è raccolto nei
due grossi volumi dal titolo Obras del
Excmo. Señor Don Francisco de Arango y Parreño che si pubblicarono nel 1888
e tornarono a vedere la luce nel 1952 con il marchio della Direzione di Cultura
del Ministero dell’Educazione, edizione che lo scriba racchiude fra i suoi
libri di maggior valore.
Il già citato García
del Píno scrive nel suo imprescindibile Mil
criollos del síglo XIX; diccionario biográfico: “All’essere inviato in
Spagna dai francesi, pretende di creare una Giunta come quelle create in altre
province (colonie), quelle che condussero il nostro continente
all’indipendenza, ma l’opposizione di elementi intransigenti, che probabilmente
captarono le sue intenzioni, frustrarono la sua proposta”. A partire da quel
momento i suoi nemici, gli avversari del suo modo di pensare e delle sue
riforme, lo indicarono con il soprannome di ”indipendente”.
Nel 1824 respinse la
nomina a Sovraindendente Generale d’Industria e l’anno successivo si ritirò
dalla vita pubblica. Tre anni prima di morire, il Re spagnolo gli concesse il
titolo di Sostenitore del Regno.
Di ritorno al Tropicana
Le pagine che lo
scriba ha dedicato al Tropicana si sono ripercosse al di la dello sperato. Mi
riferirò solo a due o tre dei messaggi ricevuti. Uno di questi lo invia lo
storico José Quintas da Ciego de Ávila. Il messaggio ratifica, in ciò che
scrive, quello che ha detto Orlando F.
Hernández Machado. Martin Fox Zamora, proprietario del Tropicana era oriundo di
Matanzas; di Calimete, scrive Orlando. Di Calimete o Cárdenas, Quintas dice che
nell’Archivio Storico Provinciale ha consultato un documento in cui si dice che
Fox era “nativo di Matanzas”. Si tratta di una scrittura contenuta nel Fondo
del Protocollo Notarile del citato Archivio e porta la data del 1° dicembre
del 1943. Gia allora Fox risiedeva a Miramar, afferma Quintas.
Aggiunge che Fox
fondò con Florentino Hernández Soler, alias Tino, una ricevitoria nella calle
Marcial Gómez, entre República y Cuba che poi si trasferì nella centrale calle
Independencia, entre Maceo y Simón Reyes (oggi l’edificio è compreso nel boulevard).
L’esercizio fu battezzato come La Batallita, non come La Vallita e in questo
lavorò Oscar Echemendia, un avileño che poi lo accompagnò al Tropicana e che fu
uno dei suoi uomini di fiducia e menager del cabaret. Commenta che nel suo
libro più recente - El hombre que nunca
ríe: Edizioni Ávila 2013 – incluse una cronaca su Fox. S’intitola Todo comenzò en la Batallita.
Per finire, Quintas,
riproduce la testimonianza di un anziano che fu dipendente del cafè Venus,
ubicato molto vicino a La Batallita. Il vecchio cameriere ricordava: “Fox era
un uomo generoso e servizievole, accorreva sempre al richiamo di vicini
necessitati. Usava un profumo francese, un estratto dal nome tipo Narciso Blu o
Narciso Negro, qualcosa di simile e quando arrivava al caffè a bersi la sua
birra tedesca, sapevamo tutti che era vicino, di certo arrivava prima l’odore
caratteristico del suo profumo”.
Orlando F. Hernández
invia un messaggio esplosivo. Domanda allo scriba se sa chi sono le persone che
perdettero più soldi nel casinò del Tropicana. Uno in una sola volta e l’altro
negli anni.
In quanto al primo,
lo scriba non ha potuto comprovare l’informazione che dice che fu il Re Carol
di Romania. L’altro Santiago Rey, senatore della Repubblica; grausiano prima e
batistiano poi, Ministro del Governo (Interni) di Batista. Nemmeno questa
informazione si è potuta comprovare, ma non ci si può dimenticare che il
soggetto era un giocatore compulsivo.
Carol è stato
all’Avana, a quanto pare, più di una volta. Nel 1925 abdicò a favore di suo
figlio Miguel, ancora bambino e partì per l’estero con la sua amante Magda
Lupescu, figlia di un agiato commerciante di tessuti. Lasciava indietro anche
sua moglie Elena, figlia del Re Costantino di Grecia. Si recò a parigi e mentre
sognava l’Avana la realtà del suo Paese lo obbligò a tornare. Assunse il potere
in qualità di reggente e sempre con Magda appresso, stipulò un;alleanza con la
Germania nazista, ma tornò a fuggire. Con la sua amante giunse in Florida, fu a
Nassau e da lì all’Avana dove, nell’hotel Nacional, visse una memorabile storia
d’amore. Il suo Paese lo reclamò di nuovo. Stabilì in Romania un regime
fascista. Si incontrò con Hitler e volle innalzarsi a mediatore del conflitto
che si avvicinava fra il Reich e il blocco anglo-francese. Hitler lo tolse dal
potere a scappellotti e con Magda, tornò a un esilio senza ritorno.
Stabilì la sua
residenza a Lisbona. Viaggiò in America, soggiornò in Brasile e a balzi giunse
all’Avana. Qui si incapricciò del
Tropicana e sempre secondo la versione del lettore Orlando F. Hernández, a cui
lo scriba non controbatte, pretende di ottenerlo con una partita di baccarat.
Intervengono, in una di queste partite, sei o sette giocatori. Il banco non
gioca: prende una percentuale di quello che guadagna il vincitore. Ma quella fu
una partita atipica, Un solo giocatore Carol II ex Re di Romania, contro il
Tropicana. Se avesse vinto sarebbe rimasto proprietario locale. Nel tentativo perse
un milione di dollari.
El crimen del Almendares y otras respuestas
Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
13 de Septiembre del 2014 18:22:37 CDT
El lector Rafael Rodríguez Muñiz pide en su correo electrónico que
refiera el caso del asesinato de la polaquita Sima Rasbasky, una
muchacha que apareció apuñalada en las márgenes del río Almendares. El
suceso ocurrió durante la presidencia del doctor Ramón Grau San Martín
(1944-48) y, comenta Rodríguez Muñiz, es un caso que ha permanecido en
su memoria. Él era adolescente y alguien le contó que había coincidido
con Sima Rasbasky en el Instituto de Segunda Enseñanza de La Habana.
Nunca se conoció el móvil del hecho ni se supo quiénes fueron los
asesinos. ¿Drama pasional, venganza, extorsión, escarmiento?, pregunta
el lector y dice que le gustaría saber la versión que el escribidor
tiene del asunto.
En una ocasión conversé sobre esto con mi amigo el narrador y
periodista Jaime Sarusky, fallecido en esta capital hace poco más de
un año. Él conoció a Sima en el restaurante Moische Pipik, el mejor
establecimiento de cocina judía de La Habana, sito en la calle Acosta
No. 211, en pleno barrio judío. Me dijo que no la recordaba tan linda
como la prensa de la época insistió en calificarla, pero sí muy viva,
presumida y coqueta. Precisó que, según se dijo entonces, los padres
del novio de Sima no la toleraban; no tenía un centavo. Los Bergman
eran una familia acaudalada de Matanzas y, se decía también, fueron
ellos los que insistían, y tal vez lograran, en que las
investigaciones sobre el caso quedaran en el mayor silencio posible.
Los hechos ocurrieron así.
Un mediodía, debajo de un puentecito del río Almendares, en el Bosque
de La Habana, fue hallada muerta, con diez puñaladas diseminadas por
todo el cuerpo, una bella joven identificada después como Sima
Rasbasky, de origen hebreo. Por la tarde, y muy cerca de ese sitio,
aparecía el cadáver de su novio, el estudiante, también hebreo, Jaime
Bergman. Presentaba una cuchillada certera en el corazón.
¿Homicidio-suicidio? ¿Doble homicidio? ¿Pacto suicida? Durante largas
semanas no cesó la polémica. Mientras las autoridades acometían las
investigaciones pertinentes, los principales diarios de la capital
dedicaban planas enteras al misterioso suceso y ahondaban en todos los
detalles, por pequeños que fueran. Los forenses no descartaron la
posibilidad de un homicidio-suicidio. Pero algunos apostaban por el
doble homicidio y otros conceptuaban el suceso como un crimen
pasional. Cuando parecía prevalecer la primera tesis, nuevos elementos
hacían que la balanza se inclinara por el doble homicidio. Pero la
muerte de Jaime y Sima no pudo esclarecerse nunca.
El estadista sin estado
Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
13 de Septiembre del 2014 18:22:37 CDT
El lector Rafael Rodríguez Muñiz pide en su correo electrónico que
refiera el caso del asesinato de la polaquita Sima Rasbasky, una
muchacha que apareció apuñalada en las márgenes del río Almendares. El
suceso ocurrió durante la presidencia del doctor Ramón Grau San Martín
(1944-48) y, comenta Rodríguez Muñiz, es un caso que ha permanecido en
su memoria. Él era adolescente y alguien le contó que había coincidido
con Sima Rasbasky en el Instituto de Segunda Enseñanza de La Habana.
Nunca se conoció el móvil del hecho ni se supo quiénes fueron los
asesinos. ¿Drama pasional, venganza, extorsión, escarmiento?, pregunta
el lector y dice que le gustaría saber la versión que el escribidor
tiene del asunto.
En una ocasión conversé sobre esto con mi amigo el narrador y
periodista Jaime Sarusky, fallecido en esta capital hace poco más de
un año. Él conoció a Sima en el restaurante Moische Pipik, el mejor
establecimiento de cocina judía de La Habana, sito en la calle Acosta
No. 211, en pleno barrio judío. Me dijo que no la recordaba tan linda
como la prensa de la época insistió en calificarla, pero sí muy viva,
presumida y coqueta. Precisó que, según se dijo entonces, los padres
del novio de Sima no la toleraban; no tenía un centavo. Los Bergman
eran una familia acaudalada de Matanzas y, se decía también, fueron
ellos los que insistían, y tal vez lograran, en que las
investigaciones sobre el caso quedaran en el mayor silencio posible.
Los hechos ocurrieron así.
Un mediodía, debajo de un puentecito del río Almendares, en el Bosque
de La Habana, fue hallada muerta, con diez puñaladas diseminadas por
todo el cuerpo, una bella joven identificada después como Sima
Rasbasky, de origen hebreo. Por la tarde, y muy cerca de ese sitio,
aparecía el cadáver de su novio, el estudiante, también hebreo, Jaime
Bergman. Presentaba una cuchillada certera en el corazón.
¿Homicidio-suicidio? ¿Doble homicidio? ¿Pacto suicida? Durante largas
semanas no cesó la polémica. Mientras las autoridades acometían las
investigaciones pertinentes, los principales diarios de la capital
dedicaban planas enteras al misterioso suceso y ahondaban en todos los
detalles, por pequeños que fueran. Los forenses no descartaron la
posibilidad de un homicidio-suicidio. Pero algunos apostaban por el
doble homicidio y otros conceptuaban el suceso como un crimen
pasional. Cuando parecía prevalecer la primera tesis, nuevos elementos
hacían que la balanza se inclinara por el doble homicidio. Pero la
muerte de Jaime y Sima no pudo esclarecerse nunca.
El estadista sin estado
Datos sobre Francisco de Arango y Parreño solicita el lector Diego A. Artiles.
A ese habanero nacido en 1765 y muerto en 1837 le llamaron el
estadista sin Estado y fue la eminencia gris de la sacarocracia
criolla. Apoderado del Ayuntamiento de La Habana en la Corte española,
con solo 24 años de edad; síndico del Real Consulado de Agricultura,
Industria y Comercio; redactor del Papel Periódico, promotor y
director de la Sociedad Económica de Amigos del País, consejero de
Indias y diputado a Cortes fue, dice César García del Pino, “el
primero de nuestros economistas”.
Dedicó una atención constante a la agricultura. Su Discurso sobre la
agricultura en La Habana y medios de fomentarla (1792) señala una
nueva etapa en el progreso económico de Cuba. Abarca un extenso plan
de reformas que puestas en práctica en años subsiguientes fueron la
base de la grandeza material de la Isla. Sus estudios y los viajes de
investigación que, por disposición oficial, emprendió, en compañía del
Conde de Casa Montalvo, por Inglaterra y Francia y algunas de sus
colonias, se tradujeron en la implantación de nuevos métodos agrícolas
en el país, así como de maquinaria y procedimientos de cultivo,
protección y estímulo a la industria agrícola y defensa de sus
productos.
Comprendió Arango que el desarrollo de la agricultura necesitaba como
complemento la libertad de comercio y a conseguirla consagró su
esfuerzo desde 1808 cuando, como síndico del Real Consulado, presentó
su informe sobre “los medios que conviene proponer para sacar a la
agricultura y el comercio de la Isla del apuro en que se hallan”. Diez
años después, cuando Arango era ya consejero de Indias, España decretó
el libre comercio de los puertos de Cuba con los mercados extranjeros,
con lo que desapareció el monopolio mercantil que la metrópoli ejerció
durante siglos. En la promulgación de ese decreto desempeñó un papel
importante el intendente general de Hacienda Alejandro Ramírez, que no
es solo el nombre de la calle que bordea la antigua Quinta de
Dependientes, sino uno de los hombres más útiles de su tiempo.
En sus últimos años Arango se mostró partidario de la supresión del
tráfico de esclavos y sugirió un plan de emancipación gradual a fin de
declarar abolida la esclavitud. Rectificaba así criterios anteriores
que lo llevaron a recomendar la libre introducción de esclavos y a
oponerse en las Cortes de 1813 al propósito de suprimir la esclavitud.
En 1816 consiguió el desestanco del tabaco.
Su prosa era transparente y sin aliños, dice Max Henríquez Ureña.
Sabía ser elocuente en la expresión a fuerza de sobriedad. La
importancia de sus escritos estriba, no en su forma, sino en su clara
visión de los problemas económicos de su patria. Más que un escritor
fue un estadista. De “estadista eminente” lo calificó Alejandro de
Humboldt. Todo lo que escribió está compilado en los dos gruesos
volúmenes que con el título de Obras del Excmo. Señor Don Francisco de
Arango y Parreño se publicaron en 1888 y volvieron a ver la luz en
1952 con el sello de la Dirección de Cultura del Ministerio de
Educación, edición que el escribidor atesora entre sus libros más
valiosos.
Escribe el ya aludido García del Pino en su imprescindible Mil
criollos del siglo XIX; diccionario biográfico: “Al ser invadida
España por los franceses, pretende crear una Junta como las creadas en
otras provincias (colonias) --las que condujeron en nuestro continente
a la independencia, pero la oposición de elementos intransigentes, que
quizá penetraron sus intenciones, frustraron su propuesta”. A partir
de ese momento, sus enemigos y los adversarios de su modo de pensar y
de sus reformas lo señalaron con el mote de “independiente”.
En 1824 rechazó el nombramiento de Superintendente General de Hacienda
y al año siguiente se retiró de la vida pública. Tres años antes de
morir, el Rey español le concedió el título de Prócer del Reino.
De vuelta a Tropicana
Las páginas que el escribidor dedicó a Tropicana repercutieron más
allá de lo esperado. Me referiré únicamente a dos o tres de los
mensajes recibidos. Uno de esos lo envía el historiador José Quintas
desde Ciego de Ávila. El mensaje ratifica lo que a quien esto escribe
dijo el lector Orlando F. Hernández Machado. Martín Fox Zamora,
propietario de Tropicana, era oriundo de Matanzas; de Calimete,
escribe Orlando. De Calimete o Cárdenas, dice Quintas quien en el
Archivo Histórico Provincial consultó un documento en el que se afirma
que Fox era “natural de Matanzas”. Se trata de una escritura que obra
en el Fondo de Protocolos Notariales del citado Archivo y tiene fecha
de 1ro. de diciembre de 1943. Ya para entonces Fox residía en Miramar,
afirma Quintas.
Añade que Fox fundó con Florentino Hernández Soler, alias Tino, una
colecturía en la calle Marcial Gómez, entre República y Cuba, que
luego se trasladó a la céntrica calle Independencia, entre Maceo y
Simón Reyes (hoy el edificio está enmarcado en el Bulevar). El
establecimiento fue bautizado como La Batallita, no La Vallita, y en
este trabajó Oscar Echemendía, un avileño que luego le acompañó a
Tropicana, y que fue uno de sus hombres de confianza y mánager del
cabaré. Comenta que en su libro más reciente --El hombre que nunca ríe;
Ediciones Ávila, 2013-- incluyó una crónica sobre Fox. Se titula Todo
comenzó en La Batallita.
Por último, Quintas reproduce el testimonio de un anciano que fue
dependiente del café Venus, ubicado muy cerca de La Batallita.
Recordaba el viejo camarero: “Fox era hombre generoso y servicial, que
acudía al reclamo de vecinos necesitados. Usaba un perfume francés,
extracto, de nombre algo así como Narciso Azul o Narciso Negro, y
cuando iba al café, a tomar su cerveza alemana, todos sabíamos que
estaba cerca, pues primero llegaba el olor característico de su
perfume”.
Orlando F. Hernández envía un mensaje que es un bombazo. Pregunta al
escribidor si sabe quiénes fueron los hombres que más dinero perdieron
en el casino de juego de Tropicana. Uno, de un solo golpe; otro, en el
transcurso de los años.
En cuanto al primero, y el escribidor no ha podido contrastar la
información, dice que es el rey Carol II, de Rumania. El otro,
Santiago Rey, senador de la República; grausista primero y batistiano
después, ministro de Gobernación (Interior) de Batista. Tampoco esta
información pudo ser contrastada, pero no puede olvidarse que el
sujeto era un jugador compulsivo.
Carol estuvo en La Habana, al parecer más de una vez. En 1925 abdicó a
favor de su hijo Miguel, un niño todavía, y salió al exterior con su
amante Magda Lupescu, hija de un acaudalado comerciante de tejidos.
Dejaba atrás también a su esposa Elena, hija del rey Constantino de
Grecia. Viajó a París y cuando soñaba con La Habana, la realidad de su
país lo obligó a volver. Asumió el poder en calidad de regente y,
siempre con Magda a cuestas, tranzó una alianza con la Alemania nazi,
pero volvió a fugarse. Con su amante, llegó a la Florida, viajó a
Nassau y de ahí a La Habana donde, en el Hotel Nacional, vivió una
memorable encerrona de amor. De nuevo su país lo reclamó. Implantó en
Rumania un régimen fascista. Se entrevistó con Hitler y quiso alzarse
como el mediador del conflicto que se avecinaba entre el Reich y el
bloque anglo-francés. Hitler lo sacó del poder a sombrerazos y, con
Magda, volvió a un exilio sin regreso.
Establece su residencia en Lisboa. Viaja a América, hace estancia en
Brasil y dando saltos llega a La Habana. Aquí se encapricha con
Tropicana y siempre, según la versión del lector Orlando F. Hernández
que el escribidor no contrastó, pretende ganarlo en una partida de
bacará. Intervienen en una de esas partidas seis o siete jugadores. El
banco no juega; coge un por ciento de lo que gana el triunfador. Pero
aquella fue una partida atípica. Un solo jugador, Carol II, ex rey de
Rumania, contra Tropicana. Si ganaba, se quedaba con el cabaré. Perdió
un millón de dólares en el intento.
Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
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http://cbianchiross.blogia.com/
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