Pubblicato su Juventud rebelde del 22/9/14
La scrittrice cubana Dulce
María Loynaz – Premio Miguel de Cervantes 1992 – dice, nelle sue memorie, che
il cantante messicano José Mojica ha fatto perdere il lume della ragione agli
avaneri durante la sua visita alla fine del 1931. “Per esaltarlo o vituperarlo,
nessun artista ha mai sollevato un tale clamore”, precisa l’autrice di Jardín e Últimos días de una casa, mentre il cosiddetto Valentino dell’opera
scriveva da parte sua: “Se ho avuto grandi gioie, all’Avana, ho anche sofferto
grandi dolori”.
Chiarisce la Loynaz che lei
rimase al margine di tutto ciò. Mai, né allora né dopo, le sono interessati i
cantanti e aveva certamente cose più importanti a cui pensare. Un suo cugino
cominciava a corteggiarla e suo giudizio, era più gagliardo del messicano. “Di
Mojica non avevo nemmeno visto films. E lo consideravo una persona vanesia e
superficiale”.
Giungeranno, col tempo, a
conoscersi personalmente. Né l’artista né la poetessa erano le stesse persone.
L’uomo che aveva guadagnato una fortuna con le sue pellicole e i suoi concerti,
si stava ordinando sacerdote e faceva voto di povertà. Dulce María rompeva
ilimonio col cugino e si lasciava corteggiare dal cronista sociale Pablo
Álvarez de Cañas che moriva d’amore per lei da quando vide la sua foto su un
giornale. Pablo sognava che quel romanzo terminasse in matrimonio, possibilità
impensabile per la poetessa. Ciò nonostante intrapresero, assieme, un viaggio
per l’America Latina. Arrivando in Perú, Álvarez de Cañas volle salutare
Mojica, già frate José Francisco de Guadalupe, internato in un convento de La
Recoleta, allora quasi inaccessibile in quelle sperdute terre andine. Il
concetto che si fece di lui, la creatrice di Carta de amor al Rey Tut Ank Amen, cambiò radicalmente. “Era tanto
cambiato e mi fece tanta impressione in quell’unica visita, che adesso posso
dire che furono le sue parole a pesare di più sulla mia vacillante volontà di
sposare Pablo”.
Un’amicizia fraterna unì i
due uomini e questa relazione durò fino alla morte, successa con pochi giorni
di differenza fra i due.
Scrive la Loynaz in Fe de vida: “Tra le lettere che
arrivarono ancora a suo nome dopo il decesso di Pablo, ce n’era una di frate
José de Guadalupe Mojica che accludeva la sua ultima foto a lui dedicata. In
essa appariva in una sedia a ruote, ancora sorridente, quando la ricevetti
erano morti entrambi”.
Chi lo avrebbe detto a Dulce
María, nel 1931, quando le strade di entrambi erano ancora così lontane, che
sarebbe stata lei l’incaricata di ricevere il messaggio postumo di Mojica? Il
messicano era, in quell’anno lontano, al vertice della fama. La sua voce
bellissima e le sue gambe, una delle quali sarebbe stata amputata, saltavano
agili. La gente formava lunghe code di fronte al suo hotel o al suo teatro,
solo per vederlo di sfuggita quando usciva, se non svicolava prima da una porta
segreta.
Più di una volta, durante il
suo soggiorno avanero, gli agenti dell’ordine dovettero proteggerlo
dall’entusiasmo del pubblico e più di una volta, egli stesso, dovette castigare
con i suoi pugni duri l’insolenza di alcuni che portavano la turpitudine e la
malignità troppo avanti, dichiara la poetessa e aggiunge che fu una specie di follia
collettiva che si impadronì degli avaneri durante il soggiorno di José Mojica.
La
voce d’oro
In quesl momento si
considerava il miglior tenore dell’America Latina. Alla meraviglia della sua
voce –voce d’oro, come si diceva a quel tempo – aggiungeva un tipo di fascino
latino che, a partire da Rodolfo Valentino, richiedevano i canoni
melodrammatici dell’epoca. La sua carriera cinematografica cominciò nel 1928
con pellicole sonore e cantate in spagnolo, come Ladrón de amor e El precio
de un beso.
Il famoso compositore e
pianista Ernesto Lecuona, lo contrattó perché venisse all’Avana. Si conobbero a
Hollywood. La Metro Goldwyn Mayer aveva richiesto al cubano che collaborasse
nella musicalizzazione di Canción de
amor, film protagonizzato dal baritono Lawrence Tibbet e l’attrice
messicana Lupe Vélez, nella quale partecipò l’orchestra de Los Hermanos Palau
con cantanti e ballerini cubani.
Lecuona divenne intimo di
Mojica e rispose all’invito dell’astro messicano che lo invitava nella magione
che si era costruito a Santa Monica. Lì, valendosi di un gran pianoforte a coda
che c’era nellasala della casa, il compositore diede un’audizione
memorabile della sua opera. In un
intermezzo Lecuona disse a Mojica: “Devi andare a Cuba. Avrai un successo
enorme”. Gli offrì mille dollari per ogni concerto all’Avana. Era una bella
somma per un’epoca di crisi economica e Mojica accettò, entusiasta, la
proposta. Aveva bisogno di soldi per appoggiare il movimento dei cristiani.
Verrà assieme al grande pianista Troy Sanders che lo accompagnerà nelle sue
presentazioni. Partirono dal porto di Vera Cruz con destinazione la capitale
dell’Isola. Il suo arrrivo suscitò un entusiasmo visto poche volte, prima.
Il tenore scrisse nelle sue
memorie: “fin dal mio arrivo compresi che dovevo affrontare un pubblico amico
che dovevo trattare in modo speciale. Il ricevimento che mi preparò Lecuona fu
sensazionale. Dovevo lasciarmi andare senza riserve a un pubblico entusiasta.
La serietà e compostezza non si adattano ai cubani che amano la confidenza, la
franchezza e si interessano per la persona. Me lo aveva detto Esperanza Iris
quando mi riferiva del trattamento familiare e caloroso che davano in tutta
l’Isola”.
Per il 14 dicembre si
programmò la sua prima presentazione nel teatro Nacional, oggi Gran Teatro
dell’Avana. Si dice che era materialmente impossibile attraversare l’angolo di
Prado e San Rafael, in Centro Avana, dove si trova il teatro e che il vicino
parque Central era completamente invaso dal pubblico e dai poliziotti. Le
poltrone si vendevano a tre pesos, un prezzo alto vista la situazione del
Paese. Il teatro era gremito. Sembrava che la gente avesse perso la paura ad
accudire ai luoghi pubblici in quei giorni in cui si acutizzava l’opposizione
al generale Gerardo Machado, il regime estremizzava la repressione e i gruppi
rivoluzionari facevano detonare bombe e petardi, facevano funzionare il fucile
a canne mozze. Ma tutti volevano vedere Mojica e l’auto che lo trasportava
dovette muoversi con estrema cautela in mezzo a un mare di gente che
applaudiva, gridava e voleva vedere il cantante.
Alle nove in punto Mojica
uscì sullo scenario. Una vera tempesta di applausi lo seppellì per lunghi
minuti. Alla fine cominciò la musica: Peri, Cavalli, Cimara, Gounod...La parte
iniziale del concerto andava meravigliosamente quando, dal palco, il tenore
cominciò a vedere la gente che si alzava e usciva precipitosamente. Tossiva,
gesticolava e si copriva il naso col fazzoletto. Scrisse nelle sue memorie:
“L’acre odore delle bombe lacrimogene arrivava fino a me”.
Non erano tali. Si trattava
delle cosiddette bombette puzzolenti che si elabora con i petali di un fiore
particolare e che nello scoppiare produce un odore nauseabondo, il quale in una
stanza chiusa, invade poco a poco tutto lo spazio e si mantiene nell’ambiente
per lunghi minuti impregnando l’olfatto di chi è stato costretto ad annusarlo.
Il concerto venne sospeso. Quando si riprese, l’atmosfera era ancora impregnata
di gas. Sanders eseguì Zeckwer e lo stadio Staccato di Rubinstein. Mojica proseguì
con opere di Duparc, Massenet, Chausson, Head e altri.
La calma sembrava essere
tornata.
Quando
me ne vada
Un momento importante dei
concerti di Mojica all’Avana fu l’interpretazione di María la O, zarzuela di Ernesto Lecuona. Mai, prima, era stata cantata
da una voce maschile giacché l’avevano fatta conoscere solo le soprano. Mojica
la interpretò in un arrangiamento speciale, fatto da lui, con recitato e
declamazioni che le rendevano propria per interpretazioni maschili. “Per quello
ricevetti – disse il tenore – una delle più grandi ovazioni della mia vita e
quella sera, María la O – che
vocalmente offre difficoltà e acuti alla più scabrosa aria di un’opera – restò
per sempre nel gusto del pubblico cubano: dico per sempre perché è già un
quarto di secolo che l’ho cantata e si ascolta quotidianamente”.
Il giorno 16 di dicembre
Mojica tornò allo scenario del Nacional con opere di Pergolesi, Erlanger,
Chaminade, Donizzetti...Sanders eseguì Debussy e Turina. Il tenore chiuse con
canzoni folkloristiche e anonime. Per finire interpretò Cuando me vaya, di María Grever.
Il 20 dicembre, Mojica offrì
un’audizione popolare con canzoni messicane e cubane. Quel giorno Lecuona
interpretò, a due piani con Sanders, i suoi pezzi La comparsa e Danza Lucumí.
Ci furono concerti il 25, 26 e il 28. Il 30 fu l’omaggio di commiato
all’artista visitante.
Gli storici cubani non hanno
mai chiarito le ragioni che motivarono la maleodorante interruzione del primo
concerto di Mojica all’Avana. A differenza della bomba che posero a Caruso, nel
proprio Teatro Nacional nel 1920, nessuno si dichiarò autore del fatto in oltre
80 anni trascorsi da allora. Non esistono nemmeno dei sospetti.
Lo stesso tenore spiegò
nelle sue memorie le motivazioni possibili: “C’erano interessi di gente risentita
pregiudizialmente con l’artista che lasciava senza pubblico gli altri teatri;
imprese cinematografiche che credevano necessario sminuire e anche calunniare
chi gli dava perdite; giornalisti privi di etica professionale che aspettavano
gratificazioni dai miei impresari e che, non avendole ottenute, scrissero
articoli pieni di satira e malizia.
Ci furono caricature che
oltre ad essere stupide erano offensive. Il rimedio che mi proposero per
silenziare i commenti era peggiore della campagna di calunnie. Avrei dovuto,
io, schiaffeggiare in pubblico un tal giornalista; intraprendere un’avventura
con qualche donna sposata, giocare grandi somme in casinò clandestini;
organizzare festini e visitare case malfamate. Dovevo essere ammirato come uomo
di mondo, non come artista di buon costume”.
C’è qualcosa di vero. Con
eccezione di Pablo Álvarez de Cañas, un cronista sociale del giornale El País,
la stampa rese la vita impossibile a Mojica durante il suo soggiorno all’Avana.
Solamente
una vez
Nel 1941, a San Miguel de
Allende, Guanajuato, muore doña Virginia, la madre del tenore José Mojica, nel
pieno della sua carriera. Allora abbandona la vita artistica ed entra in un
convento. Si dice che in tali circostanze, Agustín Lara gli dedica il bolero Solamente una vez. Due anni più tardi
riceve gli ordini minori e, dopo aver fatto il noviziato, si ordina sacerdote.
Morì a Lima il 20 settembre
del 1974, a 79 anni di età. Attuò nel cine, con la debita autorizzazione
ecclesiastica, praticamente fino alla fine della sua vita.
Mojica en La Habana
Ciro Bianchi RossCiro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
20 de Septiembre del 2014 18:59:30 CDT
La escritora cubana Dulce María Loynaz -premio Miguel de Cervantes,
1992- dice en sus memorias que el actor y cantante mexicano José
Mojica hizo perder la razón a los habaneros durante su visita de
finales de 1931. “Para ensalzarlo o vituperarlo, ningún artista ha
levantado aquí clamor semejante”, precisa la autora de Jardín y
Últimos días de una casa, mientras que el llamado Valentino de la
ópera escribiría por su parte: “Si tuve grandes alegrías en La Habana,
también sufrí grandes dolores”.
Aclara la Loynaz que ella permaneció al margen de todo aquello. Nunca,
ni entonces ni después, le interesaron los cantantes y tenía
ciertamente cosas más importantes en las que pensar. Un primo suyo
empezaba a cortejarla y era, a su juicio, más gallardo que el
mexicano. “De Mojica ni siquiera había visto las películas. Y lo tenía
por persona vana y superficial”.
Llegarían, con el tiempo, a conocerse personalmente. Ni el artista ni
la poetisa eran ya las mismas personas. El hombre que había ganado una
fortuna con sus películas y sus conciertos, se ordenaba sacerdote y
hacía voto de pobreza. Dulce María rompía su matrimonio con el primo y
se dejaba cortejar por el cronista social Pablo Álvarez de Cañas, que
moría de amor por ella desde que vio su retrato en un periódico. Pablo
soñaba con que aquel romance terminara en boda, posibilidad impensable
para la poetisa. Aun así emprendieron juntos un viaje por América
Latina. Al llegar a Perú, quiso Álvarez de Cañas saludar a Mojica ya
fray José Francisco de Guadalupe, internado en el convento de La
Recoleta, casi inaccesible en aquellas tremendas soledades andinas. El
concepto que de él se hiciera la creadora de Carta de amor al rey Tut
Ank Amen cambió radicalmente. “Tan rectificado fue, y tal impresión me
hizo en esa única visita, que puedo decir ahora que fueron sus
palabras las que más pesaron en mi vacilante voluntad de casarme con
Pablo”.
Una amistad fraternal unió a los dos hombres y esa relación duró hasta
la muerte, ocurrida con solo días de diferencia entre los dos.
Escribe la Loynaz en Fe de vida: “Entre las cartas que todavía
llegaron a su nombre después de fallecido Pablo, estaba una de fray
José de Guadalupe Mojica, que incluía su última foto dedicada a él. En
ella aparecía en una silla de ruedas, aún sonriente, y cuando la
recibí los dos estaban muertos”.
¿Quién iba a decirle a Dulce María, en 1931, cuando los caminos de
ambos se hallaban tan distantes, que sería ella la encargada de
recibir el mensaje póstumo de Mojica? Estaba el mexicano en aquel
lejano año en la cúspide de la fama. Su voz era hermosísima y sus
piernas, una de las cuales le sería amputada, saltaban ágiles. La
gente formaba largas filas al frente de su hotel o su teatro solo para
verlo escapar rápidamente cuando salía, si no se escabullía antes por
una puerta secreta.
Más de una vez, durante su estancia habanera, los agentes del orden
tuvieron que protegerlo del entusiasmo del público, y más de una vez
tuvo que castigar él mismo con sus recios puños la insolencia de
algunos que llevaban su torpeza o su malignidad demasiado lejos, acota
la poetisa y añade que fue una suerte de locura colectiva la que se
adueñó de los habaneros durante la estancia de José Mojica.
La voz de oro
Ciro Bianchi RossCiro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
20 de Septiembre del 2014 18:59:30 CDT
La escritora cubana Dulce María Loynaz -premio Miguel de Cervantes,
1992- dice en sus memorias que el actor y cantante mexicano José
Mojica hizo perder la razón a los habaneros durante su visita de
finales de 1931. “Para ensalzarlo o vituperarlo, ningún artista ha
levantado aquí clamor semejante”, precisa la autora de Jardín y
Últimos días de una casa, mientras que el llamado Valentino de la
ópera escribiría por su parte: “Si tuve grandes alegrías en La Habana,
también sufrí grandes dolores”.
Aclara la Loynaz que ella permaneció al margen de todo aquello. Nunca,
ni entonces ni después, le interesaron los cantantes y tenía
ciertamente cosas más importantes en las que pensar. Un primo suyo
empezaba a cortejarla y era, a su juicio, más gallardo que el
mexicano. “De Mojica ni siquiera había visto las películas. Y lo tenía
por persona vana y superficial”.
Llegarían, con el tiempo, a conocerse personalmente. Ni el artista ni
la poetisa eran ya las mismas personas. El hombre que había ganado una
fortuna con sus películas y sus conciertos, se ordenaba sacerdote y
hacía voto de pobreza. Dulce María rompía su matrimonio con el primo y
se dejaba cortejar por el cronista social Pablo Álvarez de Cañas, que
moría de amor por ella desde que vio su retrato en un periódico. Pablo
soñaba con que aquel romance terminara en boda, posibilidad impensable
para la poetisa. Aun así emprendieron juntos un viaje por América
Latina. Al llegar a Perú, quiso Álvarez de Cañas saludar a Mojica ya
fray José Francisco de Guadalupe, internado en el convento de La
Recoleta, casi inaccesible en aquellas tremendas soledades andinas. El
concepto que de él se hiciera la creadora de Carta de amor al rey Tut
Ank Amen cambió radicalmente. “Tan rectificado fue, y tal impresión me
hizo en esa única visita, que puedo decir ahora que fueron sus
palabras las que más pesaron en mi vacilante voluntad de casarme con
Pablo”.
Una amistad fraternal unió a los dos hombres y esa relación duró hasta
la muerte, ocurrida con solo días de diferencia entre los dos.
Escribe la Loynaz en Fe de vida: “Entre las cartas que todavía
llegaron a su nombre después de fallecido Pablo, estaba una de fray
José de Guadalupe Mojica, que incluía su última foto dedicada a él. En
ella aparecía en una silla de ruedas, aún sonriente, y cuando la
recibí los dos estaban muertos”.
¿Quién iba a decirle a Dulce María, en 1931, cuando los caminos de
ambos se hallaban tan distantes, que sería ella la encargada de
recibir el mensaje póstumo de Mojica? Estaba el mexicano en aquel
lejano año en la cúspide de la fama. Su voz era hermosísima y sus
piernas, una de las cuales le sería amputada, saltaban ágiles. La
gente formaba largas filas al frente de su hotel o su teatro solo para
verlo escapar rápidamente cuando salía, si no se escabullía antes por
una puerta secreta.
Más de una vez, durante su estancia habanera, los agentes del orden
tuvieron que protegerlo del entusiasmo del público, y más de una vez
tuvo que castigar él mismo con sus recios puños la insolencia de
algunos que llevaban su torpeza o su malignidad demasiado lejos, acota
la poetisa y añade que fue una suerte de locura colectiva la que se
adueñó de los habaneros durante la estancia de José Mojica.
La voz de oro
En ese momento se le consideraba el mejor tenor de América Latina. A
la maravilla de su voz --voz de oro, como se decía en ese tiempo-- unía
su tipo de galán latino que, a partir de Rodolfo Valentino, exigían
los cánones melodramáticos de la época. Su carrera cinematográfica
comenzó en 1928 con películas habladas y cantadas en español, como
Ladrón de amor y El precio de un beso.
El afamado compositor y pianista Ernesto Lecuona lo contrató para que
viniera a La Habana. Se conocieron en Hollywood. La Metro Goldwyn
Mayer había solicitado al cubano que colaborara en la musicalización
de Canción de amor, filme protagonizado por el barítono Lawrence
Tibbett y la actriz mexicana Lupe Vélez, y en la que participó la
orquesta de los Hermanos Palau y cantantes y bailarines cubanos.
Lecuona intimó con Mojica y respondió a la invitación del astro
mexicano de que lo visitara en la mansión que se había construido en
Santa Mónica. Allí, valiéndose del gran piano de cola que había en la
sala de estar de la casa, hizo el compositor una audición memorable de
su obra. En un aparte, Lecuona le dijo a Mojica: “Tienes que ir a
Cuba. Tendrás un éxito enorme”. Le ofreció mil dólares por cada
concierto en La Habana. Era una buena suma para una época de crisis
económica, y Mojica aceptó encantado la oferta pues necesitaba plata
para apoyar el movimiento de los cristeros. Vendría junto al notable
pianista Troy Sanders, quien lo acompañaría en sus presentaciones.
Partieron del puerto de Veracruz con destino a la capital de la Isla.
Su llegada despertó un entusiasmo poco visto antes.
Escribió el tenor en sus memorias: “Desde mi arribo advertí que tenía
que enfrentarme a un público amigo al que debía tratar de manera
especial. La recepción que me preparó Lecuona fue sensacional. Tenía
que entregarme, sin reservas, a un público entusiasta. La seriedad y
compostura no encajan con los cubanos, que aman la confianza, la
franqueza, y se interesan por la persona. Me lo había advertido
Esperanza Iris cuando me refería el trato familiar y cálido que le
daban en toda la Isla”.
Para el 14 de diciembre se programó su primera presentación en el
Teatro Nacional, hoy Gran Teatro de La Habana. Se dice que era
materialmente imposible atravesar la esquina de Prado y San Rafael, en
Centro Habana, donde se encuentra el coliseo y que el cercano Parque
Central estaba totalmente invadido de público y policías. Las lunetas
se vendían a tres pesos, un precio subido dada la situación del país.
El teatro estaba lleno a reventar. Parecía que la gente había perdido
el miedo a concurrir a lugares públicos en aquellos días cuando se
recrudecía la oposición a la dictadura del general Gerardo Machado y
el régimen extremaba la represión y los grupos revolucionarios
detonaban bombas y petardos y hacían funcionar la escopeta recortada.
Pero todo el mundo quería ver y oír a Mojica, y el automóvil que lo
transportaba debió desplazarse con sumo cuidado en medio de un mar de
gente que aplaudía, gritaba y exigía ver al cantante.
A las nueve en punto salió Mojica al escenario. Una verdadera
tempestad de aplausos lo arropó durante largos minutos. Al fin empezó
la música: Peri, Cavalli, Cimara, Gounod... La parte inicial del
concierto transcurría de maravilla cuando desde el escenario el tenor
comenzó a ver que la gente se levantaba y salía apresuradamente. Tosía
y gesticulaba, y se cubría la nariz con pañuelos. Apuntó en sus
memorias: “Hasta mí llegaba el picante olor de las bombas
lacrimógenas”.
No eran tales. Se trataba de las llamadas bombitas de peste, rústico
adminículo que se elabora con la flor de pedo que al reventarse
produce un olor nauseabundo y que, de hacerse en una habitación
cerrada, invade poco a poco todo el espacio, se mantiene en el
ambiente durante largos minutos e impregna el olfato de quien le tocó
olerla. El concierto debió ser suspendido. Cuando se reanudó, la
atmósfera estaba aún viciada por lo gases. Sanders ejecutó a Zeckwer y
el estadio Staccato, de Rubinstein, y Mojica prosiguió con obras de
Duparc, Massenet, Chausson, Head y otros.
La calma parecía haberse restablecido.
Cuando me vaya
Un momento importante de los conciertos de Mojica en La Habana fue su
interpretación de María la O, zarzuela de Ernesto Lecuona. Nunca antes
había sido cantada por voz masculina ya que solamente las sopranos la
habían dado a conocer. Mojica la interpretó en un arreglo especial
hecho por él, con recitados y declamaciones que la hacían propia para
voz varonil. “Por ello recibí, dijo el tenor, una de las más grandes
ovaciones de mi vida, y esa noche María la O --que vocalmente ofrece
dificultades y agudos iguales a la más escabrosa aria de ópera-- quedó
para siempre en el gusto del público cubano; digo para siempre porque
hace un cuarto de siglo que la canté y todavía se escucha
diariamente”.
El día 16 de diciembre volvió Mojica al escenario del Nacional con
obras de Pergoilessi, Erlanger, Chaminade, Donizetti... Sanders acometió
a Debussy y a Turina. El tenor cerró con canciones folclóricas y
anónimas, y para finalizar interpretó Cuando me vaya, de María Grever.
El 20 de diciembre, Mojica ofreció una audición popular con canciones
mexicanas y cubanas. Ese día Lecuona interpretó, a dos pianos con
Sanders, sus piezas La comparsa y Danza lucumí. Hubo conciertos el 25,
el 26 y el 28, y el 30 fue de homenaje y despedida al artista
visitante.
Historiadores cubanos no han esclarecido nunca las razones que
motivaron la maloliente interrupción del primer concierto de Mojica en
La Habana. A diferencia de la bomba que le pusieron a Caruso en el
propio Teatro Nacional, en 1920, nadie se proclamó autor del hecho en
los más de 80 años transcurridos desde entonces. No existen sospechas
siquiera.
El propio tenor explicó en sus memorias los posibles motivos: “Había
intereses que resentían perjuicios con el artista que dejaba sin
público los demás teatros; empresas cinematográficas que creían
necesario desacreditar y aun calumniar al que les causaba pérdidas;
periodistas sin ética profesional que esperaban gratificaciones de mis
empresarios y que, por no obtenerlas, escribieron artículos llenos de
sátira y malicia.
Hubo caricaturas que, a más de bobas, eran insultantes. El remedio
que me propusieron para acallar los comentarios, era peor que la
campaña de calumnia. Debería yo abofetear en público a cierto
periodista; correr una aventura amorosa con cualquier mujer casada;
jugar grandes sumas en casinos clandestinos; organizar juergas y
visitar casas de mala nota. Debía ser admirado como hombre mundano, no
como artista de buenas costumbres”.
Hay algo cierto. Con la excepción de Pablo Álvarez de Cañas, cronista
social del periódico El País, la prensa le hizo imposible la vida a
Mojica durante su estancia en La Habana.
Solamente una vez
En 1941, en San Miguel de Allende, Guanajuato, fallece doña Virginia,
la madre del tenor. José Mojica, en plenitud de su carrera, abandona
entonces la vida artística e ingresa en un convento. Se dice que en
tales circunstancias Agustín Lara le dedica su bolero Solamente una
vez. Dos años más tarde recibe las órdenes menores y, después de hacer
el noviciado, se ordena sacerdote.
Murió en Lima, el 20 de septiembre de 1974, a los 79 años de edad.
Actuó en el cine, con la debida autorización eclesiástica,
prácticamente hasta el final de su vida.
Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/
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